Del diritto e giustizia, che ha Dio, perché gli uomini facciano non la propria, ma la volontà divina.
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Oltre il dominio supremo che ha Dio sopra di noi, anche per molti altri titoli, fuor di quello di giustizia, ha diritto che noi non facciamo in nulla la nostra volontà, ma la sua. Né è poco stretta l'obbligazione della virtù, della pietà o della religione, per 1'obbedienza, rispetto e onore, che gli dobbiamo per essere nostro padre, con tant'obbligo e sì strettamente, che non vi è altro padre che lo sia più di lui, partecipando noi, per grazia, della sua divina natura, con unione e vincolo strettissimo. Di modo che, sebbene Dio non avesse assoluto imperio sopra le creature, per questo titolo di essere egli padre degli uomini, gli dobbiamo un'infinita obbedienza, che consiste in questo: di fare l'altrui volontà e non la propria; e però dovendogli noi tale obbedienza, per quella ragione di padre, dobbiamo per conseguenza fare la sua volontà e non la nostra.
Ancora per il titolo di nostro sposo e per il suo essere perfettissimo e infinitamente eccellente sopra ogni altro essere, lo dobbiamo infinitamente amare: e l'amore infinito non lascia luogo che si ami altra cosa; perché se un forte amore di cosa creata, non dà luogo a uno di amare sé medesimo, il dovere di amare Dio come può stare coll'amare e col cercare altra cosa, sia pure sé medesimi? Dovendo pertanto amare Dio infinitamente, non dobbiamo volere altra cosa che lui o per lui, e molto meno dobbiamo far cosa, che sia contro il suo gusto.
Aggiungo di più: anche quando noi non fossimo schiavi di Dio, come siamo, dovendo in ogni cosa fare la sua volontà; anche quando non fossimo suoi figli, per il qual titolo gli dobbiamo ogni obbedienza; anche quando le anime non fossero spose di lui, né egli fosse infinitamente perfetto, né gli dovessimo per giustizia, pietà e religione alcuna cosa creata, né fargli alcuna servitù; solo per ciò che gli dobbiamo per motivo di gratitudine, siamo obbligati a non fare in cosa alcuna la nostra volontà, ma in tutto e per tutto la sua. Chi è che, dubiti, che quegli che ha ricevuto beneficii grandi, deve mostrare di essi tanto maggiore gratitudine, quanto maggiori sono i beneficii e quanto meno egli li meritava? Dunque è chiaro, che al1a beneficenza e liberalità di Dio, che è infinita, e massima demeritata da noi, per la nostra infinita ingratitudine e sfacciataggine e mali termini usati con sua Divina Maestà, dobbiamo dimostrare una gratitudine infinita, la quale si deve dimostrare con cosa, che sia nostra propria; perché nessuno soddisfa ad altri con le cose altrui e molto meno se sono di quello, a cui vuol soddisfare. E poiché noi non abbiamo niente di nostro, e solo quello, che si può dire meno impropriamente nostro è l'arbitrio, è la libertà, è la volontà, così ci è obbligo di dare questa interamente a Dio. Onde, per essere la nostra povertà tale, che non ci resta altra cosa, questa, che pare che ci resti e che è più nostra, non ci è scusa né ragione che ci dispensi di soggettarla a Dio totalmente; e non gliela soggetteremo totalmente, se riteniamo per noi qualche cosa, per minima che sia. Si aggiunge a questo, che, non avendo noi da dare a Dio se non il nostro arbitrio, la nostra libertà, il nostro amore, non vuole Dio altra cosa; e tutto il rimanente, senza questo, non gli aggrada molto; e chi procura di gradire ad altri, ha da accompagnare ciò che gli deve, con quello che sa essergli di gusto.
Cresce ancora questo debito, perché non solamente siamo tenuti a Dio per infiniti beneficii, ma anche per la sua medesima volontà: dobbiamo perciò pagarlo della medesima moneta, dandogli la nostra. poiché siamo obbligati a Dio del suo amore e del1'aver lui col1ocato in noi la sua affezione e il suo gusto, e dell'aver fatto sua Divina Maestà la volontà nostra; perché, essendo Dio assoluto signore e avendo supremo diritto di soddisfare al suo gusto e di fare delle sue creature quello che gli aggrada, vuole solamente quello, che è bene per noi e fa la volontà de' suoi servi, procurando di dar loro gusto a costo del suo sangue e della sua vita, e prevenendo i nostri desideri, quando sono ragionevoli, facendo quello che noi dovremmo o desidereremmo che si facesse. Alla voce di Giosuè, dice la S. Scrittura, obbedì Iddio. E senza il consenso e la volontà di Mosè, non volle castigare il popolo d'Israele; e poiché Mosè non volle, si contenne. E quello che è più, senza consenso di Elia, non volle usare misericordia, né dar la pioggia per lungo tempo, ancorché perisse la gente. Per guardare al gusto di Abramo, non volle castigare Sodoma e Gomorra, senza dargliene prima avviso, perché ritrovandosi quivi il suo nipote, lo potesse salvare. Condiscese ancora alla volontà di Giacobbe, benedicendolo, come desiderava. Essendo S. Tomaso d'Aquino infermo e desiderando un pesce che non si trovava, glielo mandò Dio miracolosamente. Altrettanto successe all'apostolico padre Pietro Canisio della Compagnia di Gesù: desiderando questi in un' infermità di mangiare un uccello, che non si era potuto trovare, il meschino uccello entrò per la finestra della camera e andò nelle mani degli infermieri.
Finalmente concede Iddio tanto liberalmente quello che gli chiedono i giusti, che, dice Davide, tiene sempre rivolti ad essi i suoi occhi per veder che cosa vogliono, e tende i suoi orecchi alle loro domande per adempirle. Se Iddio dunque così adempie la volontà umana, quando è giusta, perché non avremo cura pur noi di adempire la volontà divina, che è tanto giusta, quanto è la legge e la forma della giustizia e santità. E se si gloriava il figliuolo di Temistocle, che stava in sua mano il fare del popolo ateniese quello che voleva, perché nel voler egli una cosa, subito la voleva anche sua madre, e in volerla sua madre, subito la voleva suo marito, e nel volerla Temistocle, subito la volevano tutti quelli di Atene; con quanta maggior ragione si potrà rallegrare un giusto che in sua mano sta il poter divino, e che tutto quello che vuole, lo vogliono tutte le creature, tutti gli angeli, tutte le anime beate! E, ciò perché conforma la sua volontà con quella di Dio, con la quale sono conformati tutti i cittadini del cielo.
Consideriamo ancora, come Iddio non solo inclina la sua volontà a quella degli uomini e l'adempie, quando desiderano alcuna cosa per bene dell'anima loro; ma di più fa tutto il bene che noi desidereremmo se lo conoscessimo, e più, di quello ancora che non avremmo ardire di desiderare, prevenendo sua Divina Maestà la nostra volontà e i nostri desideri. Chi è, prima che Dio ce lo promettesse, che desiderasse, come cosa possibile, o avesse ardire di domandare che il Figlio di Dio si incarnasse per lui?... che morisse tanto ignominiosamente?... che si nascondesse in un poco di pane e si desse in cibo a' suoi vili schiavi?
Dunque quei desideri che noi ci saremmo vergognati di avere, Iddio non ebbe cuore di lasciare di adempirli, solo perché tornavano in nostro pro. Chiaro è che questo richiede gratitudine e una corrispondenza simile, adempiendo il gusto di Dio e i suoi desideri che sono tutti in favore nostro e per bene degli uomini. Epperò tutti i nostri affetti e desideri e opere devono essere per Dio; e tuttavia non li soddisfacciamo, né gli offeriamo quell'olocausto di noi stessi, che merita il suo supremo dominio e quell'infinito diritto che egli tiene nelle nostre volontà, le quali gli dobbiamo sacrificare. Il qual sacrificio è il più, grato a sua divina Maestà che uno le può offrire di sé, perché
in questo sacrificio non solo offre a Dio le sue cose, ma sé medesimo.
Da quello che si è detto si cava ancora una ragione molto forte di non cercare la nostra propria volontà, vedendo che Dio, sebbene egli solo abbia il diritto di fare la sua propria volontà, ad ogni modo non la fa, ma fa quello che é bene per i suoi predestinati; poiché questo non é avere volontà propria, ma comune, volendo quello che per sé stessi dovrebbero volere gli uomini, e non facendo, né volendo alcuna cosa che non sia utile a' suoi eletti; acciocché noi ancora non abbiamo volontà propria, ma comune con Dio, non facendo, né volendo cosa che non sia onor suo: il che solo é quello che ci può essere giovevole.
Oltre tutto questo, Dio ha acquistato un nuovo diritto; che noi in tutto lo seguitiamo e ci conformiamo con la sua santissima volontà, per il cattivo conto che abbiamo dato della nostra, e per il quale ci siamo rovinati. Poiché, siccome un uomo prodigo o uno che é divenuto forsennato perde ogni diritto che tiene a governare la sua roba, dandosi dalle leggi azione ad altri per governarla e disporne in profitto di lui, nella medesima maniera e con molto maggior causa noi abbiamo perduto, per i nostri peccati, ogni diritto di fare la nostra volontà, se pur ne avevamo alcuno. Dobbiamo però sopra tutto aver sempre nella memoria e nel cuore la più forte ragione, la più stretta obbligazione, il più forte e rigoroso diritto che ha Dio, che noi gli diamo gusto: ed é 1'essergli chi é, infinitamente buono, perfetto, bello, saggio, maestoso, onnipotente, insomma, ogni bene.
Nessuna ragione e nessun diritto, che abbiamo allegato, é maggiore di questo, sebbene é il meno inteso. Questo d'esser Dio chi é, sommo bene e la somma di tutti i beni, non solo invita, né solo obbliga, ma forza e necessita di sua natura ad adempire in tutto il suo gusto e a non cercar altra cosa. La ragione é perché la nostra volontà è stata fatta per amare il bene, e dove si trova il sommo bene e tutti i beni uniti insieme, e si conosce come é in sé stesso, non può lasciare di amarlo, e amare non é se non desiderare e voler bene a quello che si ama; e nessuno può voler bene efficacemente che non lo eseguisca se può; perché in altra maniera non vuol bene con verità ed efficacia; e siccome il maggior bene che uno può volere, è mettere in opera per altri quello che è a lui di gusto, così chi ama Dio deve parimenti far quello che gusta a Dio. Onde tutto il diritto che Dio ha di essere amato, lo ha acciocché facciamo il suo gusto; e come per essere egli chi è, ha il maggior diritto che sia possibile e immaginabile, acciocché l'amiamo, così parimenti per essere chi è, ha il maggior diritto che sia possibile e immaginabile, acciocché facciamo il suo gusto e non il nostro. Perché, essendo incompatibili queste due cose, fare il gusto di Dio e il nostro, quanto diritto ha Dio di essere amato e che noi adempiamo nel suo gusto, altrettanto diritto ha che noi non facciamo il nostro gusto.
Dunque se tutto questo è cosi, se tutti questi diritti sono veri, se Iddio ha tutte queste ragioni, perché non le farà valere? Dov' è il nostro giudizio, dove la nostra legge, dove la nostra vergogna, se abbiamo ardire di contravvenire a tante obbligazioni, di cancellare tanti titoli, di violare tanti diritti, di togliere di testa a Dio questa sua corona e parla sopra la nostra, di fare una sciocchezza tanto grande, quanto è per un leggero gusto e, senza riguardo ad ogni diritto, procacciar la nostra rovina e non assicurare la salvezza e la vita eterna, con mantener illesa al nostro Creatore e Redentore la sua somma giustizia, conservandogli il diadema della sua maestà e autorità divina, e facendo in tutto la sua santissima e giustissima volontà?
P. EUSEBIO NIEREMBERG, S. J