domenica 1 marzo 2020

Padre Pio di Pietrelcina, il primo Sacerdote stigmatizzato



L'avvocato Alberto Del Fante, bolognese, ex grado 33 della massoneria, scrisse questo libro dopo essersi convertito al confessionale di Padre Pio.


Il 25 maggio 1887 a Pietrelcina, in provincia di Benevento, che i vecchi chiamano ancora Preta pucina (pietra piccina) per distinguerla da Preta Mayuri (pietra grande), che si trova all'opposto versante del Tammaro, nacque Padre Pio, da Orazio Forgione fu Michele e da Maria Giuseppa De Nunzio fu Fortunato:  

«L'anno 1887, addì 26 di maggio, alle ore 9 antimeridiane, nella casa comunale, avanti a me Sagliocca Gaetano, assessore, facente funzione di sindaco, ufficiale dello stato civile del comune di Pietrelcina, è comparso Forgione Orazio fu Michele, di anni 26, possidente, domiciliato in Pietrelcina, il quale mi ha dichiarato che alle ore 5 pomeridiane del dì 25 del mese corrente, nella casa posta in Vico Storto N. 27, da De Nunzio Maria Giuseppa, sua moglie, di anni 28, possidente, seco lui convivente, è nato un bambino di sesso mascolino che mi presenta ed a cui dà il nome di Francesco.  

A quanto sopra ed a questo atto sono stati presenti quali testimoni: Pennisi Luciano di Giuseppe, di anni 39, -calzolaio, e Orlando Antonio fu Michele, di anni 42, possidente, entrambi residenti in questo comune.  

Letto il presente atto agli intervenuti, l'hanno meco sottoscritto i soli testimoni, avendo il dichiarante asserito di essere analfabeta. Il neonato, il giorno stesso, venne battezzato, come risulta dal volume parrocchiale 22, foglio 26; N. 2ag:  

«Addì 26 maggio 1887 io qui sotto firmato, economo curato della chiesa arcipretale di Pietrelcina, sotto il titolo di S. Maria degli Angeli, ho battezzato un infante, nato ad ore 22 (5 pom.) del dì antecedente, suddetto mese e anno, figlio di Orazio Forgione e Maria Giuseppa De Nunzio, cui si è posto nome Francesco.  

La commadre è stata la levatrice Grazia Formichelli di Andrea e fu Pellegrina Malegeri, del suddetto comune.  

In fede: Nicolantonio Orlando, economo curato».  

Il piccolo Francesco nasceva in una rustica casuccia di contadini, umili e modesti, ma piena di soave malinconia, che al primo aspetto tutti ci prende, allorché noi, per la prima volta la vediamo. (Vedi tavola N. 1).  

Settecento anni prima, in un ambiente quasi uguale in Assisi, era nata un'altra sublime creatura, che abbagliò il mondo con la sua umanità, la sua umiltà e la sua santità.  

Al Poverello di Pietrelcina fu dato il nome di Francesco, in onore del ricco bimbo, diventato poi «il Poverello» per antonomasia.  

Giuseppe De Rossi scrive: «Nacque (Padre Pio) nel quinto anno del centenario della nascita di S. Francesco, nel quinto mese dell'anno (maggio) il giorno 25 (5x5) alle cinque pomeridiane, in Pietrelcina, paese di 5.000 abitanti. Vissero in cinque fratelli, finché entrò nell'ordine dei Cappuccini, ove prese il nome di Pio, sotto la protezione di S. Pio V, la cui festa si celebra il giorno 5 nel quinto mese dell'anno. Abitualmente, anche oggi, mentre scrivo convivono al Convento di S. Giovanni Rotondo, cinque sacerdoti, la sua camera porta il numero 5, la sua pensione di guerra è la 5a e potrei continuare».  

Le notizie sulla sua infanzia sono poche, dirò di Lui quel poco che so, avendolo appreso dalla viva voce del padre suo «Zi Orazio» e del fratello Michele; la buona madre di Lui da due anni riposa nel piccolo cimitero di San Giovanni Rotondo, che dal Convento Padre Pio scorge, e vedendo da lontano i pini del Sacro luogo della morte, la sua anima prova tutto il dolore del distacco, mentre le sue labbra mormorano la preghiera dei defunti.  

Tutti i vecchi del paese di Pietrelcina, e i coetanei, coi quali ho parlato, affermano che Padre Pio fu sempre buono e affettuoso con tutti, che non poteva sentire bestemmiare e che quando udiva nominare invanamente il nome di Dio, di Gesù o di Maria, fuggiva piangendo e si rifugiava in casa per nascondersi e pregare devotamente in un angolo.  

Di carattere un po' chiuso e taciturno, non sfuggiva le chiassose compagnie dei coetanei, ma preferiva guardare o assistere ai loro giuochi, piuttosto che prendervi parte; in tal modo evitava le questioni e i motivi di bisticci.  

Noi lo chiameremmo un solitario, un misantropo, un silenzioso, Lui disse che da bimbo era un «maccherone senza sale».  

Poco lungi dal paese, la famiglia Forgione, possedeva e possiede una modesta casuccia posta sopra una piccola collina solatìa, con alcuni vecchi olmi, sotto i quali si riposavano dall'ardore del sole.  

Là avevano i loro strumenti da lavoro, là trascorrevano il loro tempo durante i mesi delle fatiche campestri. Vicino alla loro cascina, vivevano pure alcune altre famiglie, in una comunione di vita semplice, patriarcale, starei per dire quasi allo stato di natura. Vivevano tutti serenamente, tranquillamente, senza che sorgessero fra loro questioni di sorta, anzi i rapporti di buon vicinato, mai venivano turbati da ragioni d'interesse o di altra specie.  

«Unicuique suum» era l'imperativo categorico che vigeva in quel modesto assembramento, poiché il rispetto reciproco, avevano eletto come vita.  

Là ruzzavano sull'aia i ragazzi, là giocavano, ridevano, scherzavano i bimbi, come buoni e teneri fratelli, senza farsi i dispettucci infantili, senza che le mamme li richiamassero all'ordine o li rimproverassero. Rousseau li avrebbe presi per modello per i suoi scritti filosofici sociali.  

Vivevano la vita idilliaca dei tempi lontani; durante il giorno il lavoro assillante, continuo, attivo; alla sera, quando la caldura era passata e la brezza portava in ogni cosa un po' di refrigerio, uomini, donne, ragazzi partivano per recarsi in una masseria vicina.  

Allora le colline del contrafforte appennino, risuonavano dei loro canti e delle loro melopee nostalgiche.  

Monte Tamburo, chiamato la bella dormiente del Sannio, poiché visto da lontano sembra una donna sdraiata che dorma, e tutta la catena dei monti del Matera, illuminati dalla luna, dovevano apparire ai loro occhi ingenui e buoni, tanti mostri ciclopici o antidiluviani.  

Gli uomini suonavano le chitarre, le donne cantavano, i bimbi pure univano le loro voci cristalline a quelle dei genitori.  

Il piccolo Francesco era con loro e prendeva parte alla gioia di tutti.  

Spesso un buon piatto di maccheroni veniva preparato in fretta dai compagni della masseria, per rifocillare i cantori improvvisati, tanto simili agli stornellatori fiorentini.  

La musa dialettale trovava in essi i più puri interpreti del folclorismo locale.  

Ma il buon Zi Orazio, non solo pensava a lavorare, ma volle anche che i suoi figli imparassero a leggere e a scrivere.  

Il primo maestro privato di Padre Pio, fu Don Domenico Tizzani, ora morto. Da lui apprese le prime nozioni del sillabario, della lettura e del conteggio.  

Questo povero maestro, un prete spretato, che conviveva con la moglie e i figli, poco poté insegnargli, poiché lui pure poco sapeva. Alcuni ritennero che lo scarso profitto che l'alunno ne ritraeva, dipendesse da lui e non dal maestro. Certo, fu un errore di molti, poiché quando in seguito mutò insegnante, Padre Pio si rivelò tutto diverso.  

Di questo suo primo maestro, il Padre si espresse in questi termini:  

- Mi voleva un gran bene .... con la moglie parlava poco ... più volte avevano tentato di spezzare l'infausto legame, ma c'erano i figli... non parlava mai di religione .... Stava sempre rinchiuso in casa e non ne usciva per vergogna. Una volta, che venne l'Arcivescovo a Pietrelcina e lo mandò a chiamare in canonica, egli si fece scusare ... ci sarebbe andato volentieri, ma non aveva il coraggio di uscire per la strada e traversare la piazza ... e così continuò a trascinare per casa la sua catena maledetta».  

Parlando di lui, il suo volto si atteggia a una soave mestizia; al suo povero maestro, il Padre, non attribuisce alcuna colpa, non vuole che questa ricada sul povero uomo, più sfortunato e vittima, che colpevole, pare che voglia dire come Cristo: «Getti la prima pietra chi è senza peccato».  

Come fosse giunto Zi Orazio, nella determinazione di fare di Francesco un monaco, me lo disse lui stesso, una sera del febbraio del 1931, seduti attorno ad un caldano in casa Florio, a Pietrelcina.  

Cedo la parola al buon uomo.  

Un giorno mi avvicinai a Lui e gli dissi: 

- Checcuccio, se tu avrai passione a studiare, ti farò monaco, monaco da messa però, non laico da cerca, se hai voglia di studiare, non ti farò «vedere ò sole» cioè non ti farò contadino.  

Il piccolo Francesco era un po' diffidente. Non poteva credere a quanto io gli dicevo. Era il suo sogno, il sogno che la sua piccola anima innocente e buona cullava da un pezzo, ma che non si azzardava a manifestare, poiché troppo grande gli sembrava la gioia, troppo lontana la meta. Lui umile pastorello, poter diventare un sacerdote, parlare il latino, avvicinarsi a Dio, tutto ciò gli sembrava al di là della sua immaginazione.  

- Vieni in paese - gli dissi - parlerò io al maestro.  

Andai dal Tizzani perché anche dovevo pagargli la mesata e gli dissi:  

- Don Menico, voglio sapere se mio figlio impara o no.  

- Sì, - rispose il maestro - impara con amore.  

- Sta bene, - feci io - se ha voglia lo faccio monaco, non laico, perché questi non è da tutti veduto bene, inoltre farebbe una vita strapazzata, poiché non sempre le porte si aprono dinanzi ad una bisaccia da cerca.  

Mi preoccupavo però per la sua salute, che non era buona, poiché spesso lo assalivano dei disturbi viscerali con sintomi non ben definiti e alternati da forti febbri, che indebolivano la sua debole fibra.  

- Prendete - dissi al maestro - eccovi cinque lire (a quei tempi valevano più assai di ora), quando andate a Benevento, comperategli un libro di latino, insomma pensate voi alla istruzione del ragazzo.  

E lo affidai alle sue cure.  

A marzo andai in America, ove mi trattenni circa tre anni, lo lasciai a casa col fratello Michele e le sorelle Felicia e Graziella.  

Correvano allora tempi tristi per i nostri pietrelcinesi; molti, non avendo da mantenere le loro famiglie, dovevano emigrare all'estero.  

Un amico, in quel tempo, scrisse dall'America del Sud di aver fatto fortuna, poiché colà le ricchezze erano fantastiche. 

Scrivendo in paese ai parenti disse: «figuratevi che qui si trova ovunque dell'oro in quantità, perfino le tegole dei palazzi sono fatte d’oro».  

Immaginarsi il nostro stupore, ché credemmo che tutto quello che aveva scritto l'amico, fosse verità.  

Partiti in buon numero da Pietrelcina, io mi unii ad essi e arrivammo, dopo aver fatti degli enormi sacrifici per pagare le spese del viaggio, in America.  

Cercato l'informatore, lo trovammo che faceva lo sguattero in un ristorante.  

È inutile che io le dica, che dovetti adattarmi alla meno peggio, mentre alcuni ritornarono nuovamente in Italia. Quando io pure ritornai, ero più povero di prima. Durante la mia assenza, mia moglie mi scrisse che Francesco non poteva più continuare a studiare, perché il maestro più volte l'aveva dissuasa, non essendo adatto a diventare un monaco da messa, mentre invece egli lo riteneva adatto come laico.  

Il maestro, inoltre, non voleva che egli andasse in chiesa, con grande dolore del povero ragazzo.  

Ritornato dall' America, come ho già detto, più povero di prima, desiderai che il mio Francesco continuasse a studiare. Quanti sacrifici feci allora, lo sa solo Iddio.  

Ritenendo che Don Domenico Tizzani non avesse le attitudini per insegnare a mio figlio, feci i primi passi affinché l'altro maestro dal paese, il Càccavo, lo prendesse nella sua scuola,  

Questi dapprima si rifiutò, anche per non urtarsi col Tizzani, e fu solo dopo le vive insistenze di un parente del Càccavo, il signor Giulio Orlando, che finalmente Francesco passò sotto la sua guida. Ci volle però del bello e del buono per riuscire nell'intento.  

Il signor Orlando, avendo compreso il vivo desiderio di mio figlio di mutare maestro, ed avendo capito che Francesco voleva studiare, fu spinto a raccomandarlo, tanto più che il ragazzo, una volta gli disse: «se non mi prende, ne avrò molto dispiacere».

Zi Giulio, mossosi a compassione, tanto insistette presso il Càccavo che gli disse: «ve lo farò trovare da mio zio prete, Don Giuseppe Orlando, se dopo averlo interrogato, crederete opportuno di assumerlo fra i vostri scolari, bene, nel caso contrario, non ne parleremo più.  

E così avvenne. Recatosi Francesco in casa Orlando, il maestro Càccavo lo interrogò, e dopo due o tre lezioni, mi avvisò che lo assumeva fra i suoi scolari.  

Col buon Càccavo rimase fino a 14 anni.  

Durante il suo insegnamento, il maestro poté constatare che l'intelligenza del ragazzo era viva e sveglia, tanto che fu sempre il primo della scuola.  

Da poco entrato nella scuola del Càccavo, Francesco provò l'amarezza della prima calunnia.  

Un giorno capitò in mano al maestro una letterina amorosa, scritta da un suo scolaretto ad una bimba. Venne accusato Francesco; questi che sapeva che il suo accusatore era il colpevole, invece di far notare al maestro la menzogna del compagno, si limitò a dire: «Non sono stato io».  

A nulla valsero i rimproveri e le busse del maestro per farlo parlare, poiché Francesco preferì tacere, che fare la spia.  

Quanto ne soffrì in seguito il povero Càccavo, lo lascio immaginare a lei.  

Nel 1902, finiti gli studi col maestro Càccavo, entrò nel convento dei Cappuccini di Morcone in provincia di Benevento, per fare l'anno di noviziato.  

Colà i novizi dovevano rigar diritto, sempre ad occhi bassi, sempre obbedienti, poiché quei frati non scherzavano, tanto è vero che Padre Pio afferma di non avere mai veduto, né il soffitto della chiesa, né come era fatto il paese, che attraversava ogni giorno coi compagni. Tutto veniva controllato ed esaminato dal Padre Maestro, che, a quei novizi che avevano l'abitudine di portare il collo torto, gli applicava nel refettorio, un collare di legno che li faceva rimanere impalati.  

Fu, durante l'anno di noviziato, che Padre Pio fu privato un mattino della S. Comunione. 

Quanto pianse e si disperò il povero Francesco, nessuno lo può dire.  

Fino d'allora egli iniziò i suoi digiuni e le sue penitenze, tanto che, finito l'anno di noviziato, e recatomi a Morcone, lo trovai così sparuto e pallido, che dovetti chiederne la ragione al Padre guardiano.  

- Che ne avete fatto di mio figlio? Non si riconosce più! -  

Mentre eravamo a tavola, mia moglie, gli diede un po' di quanto si era portata con sé, ma Padre Tommaso, il maestro, le disse: 

- Non abbiate timore, quello che ha mangiato gli è sufficiente. -  

A dire il vero, continua sempre Zi Orazio, volevamo portarcelo via con noi, ma il Padre guardiano, che facemmo chiamare, si oppose, dicendo che senza l'ordine del Padre Provinciale, non era possibile, e il povero Francesco rimase in convento.  

Noi, il giorno stesso, ritornammo a Pietrelcina, ma anche Padre Pio partì il giorno dopo per S. Elia a Pianisi, ove si fermò per quattro anni.  

Narra il De Rossi: che «egli continuò ad ammalarsi ed a tornare in fiore a periodi, con malattie indefinibili, febbri e guarigioni impreviste.  

Una volta, a Venafro, visse per ventun giorni senza toccare altro cibo che la S. Particola mattutina, pur continuando la vita comune. Parecchie volte, costretto a mangiare, rigettava il cibo e gli tornava in bocca la Sacra Particola intatta, che aveva avuto nella Comunione della mattina precedente».  

In paese cominciò a diffondersi allora la voce che vi era un «monacello» santo, ed Egli fu traslocato.  

Quando Zi Orazio, il 22 Maggio 1903, andò da Lui, lo trovò che stava bene, pur digiunando, era ingrassato.  

Da ciò possiamo dedurre che Egli facesse dei sacrifici per ottenere il suo perfezionamento spirituale.  

Dicono i dotti della chiesa, che durante tali sacrifici, il corpo diviene non solo più agile e sano, ma anche più forte.  

Questa fu una ragione perché il padre trovò il figlio in ottima salute, pur avendo fatto dei digiuni.  

Oltre Morcone, S. Elia a Pianisi, Venafro, Fra Pio peregrinò in altri monasteri, fra questi, andò a Serra Capriola, a Monte Fusco e in altri luoghi.  

Il carattere buono, serafico, mite, pio come il nome che assunse, si rivelò fino dal suo primo anno di noviziato.  

Durante la notte egli si alzava per studiare, mentre il noviziato impone solo la penitenza.  

Una volta, la madre andò a trovarlo a Morcone e al Superiore chiese come il figlio si comportasse in convento.  

- Bene, molto bene, - disse il Padre Superiore - sentite, Donna Giuseppa, questo novizio è troppo buono, - e sorridendo di gioia aggiunse: - non compie nessuna mancanza. Vostro Figlio passa innanzi a tutti e farà molto cammino.  

La povera donna sorrise di compiacenza, e ripensando a quanto le aveva pronosticato Don Tizzani, capì che la colpa, di non apprendere, non dipendeva certo dal figliolo, che nella sua mente vedeva già col camice officiare la S. Messa.  

La salute però gli era avversa.  

Passò gli studi superiori intralciato ancora da frequenti malanni, ma sempre sorridente, affettuoso, col fascino della bontà e della purezza che portava scritto in fronte.  

Aveva tanto amore e rispetto ai suoi studi, che più volte fu sorpreso, in cella, a studiare teologia in ginocchio. A S. Elia a Pianisi gli accadde un episodio misterioso e non privo di significato. Fra Pio dormiva in una celletta vicino a Fra Anastasio.  

Le celle bastavano appena a contenere il letto con un angusto passaggio per arrivare alla finestra. Era proibito di accendere lumi dopo il silenzio.  

Ognuno sentiva distintamente qualunque rumore si producesse nella camera vicina.  

Fra Anastasio aveva ottenuto di essere inviato altrove e se n'era andato all'insaputa di Fra Pio, lasciando la sua cella deserta. Era una notte di estate: afa soffocante e pulci innumerevoli.  

Fra Pio dopo il mattutino, in piena notte, non poteva riprendere sonno. Dalla stanza accanto gli arrivò all'orecchio il passo di uno che andava in su e in giù senza posa. 

Il povero Anastasio non può dormire come me - pensò Fra Pio. - Voglio chiamarlo, almeno si discorre un poco. -  

Difatti va alla finestra, e si volge a quella del suo compagno che è vicinissima:  

- Fra Anastasio ....  

Ma la voce gli resta strozzata in gola. Sul davanzale della finestra vicina vi è un mostruoso cane nero, con una testa enorme e gli occhi feroci, il quale accoccolato sulle zampe posteriori, sta rivolto verso di Lui.  

Prima che il frate abbia il tempo di gettare un grido, lo strano animale, dà un balzo gigantesco e va a finire sul tetto di fronte, dove scompare.  

Fra Pio, atterrito, cade sul letto.  

L'indomani, poi, seppe che la cella vicina era disabitata. Ma egli preferisce ricordare altre paure più buffe e meno misteriose.  

- Seguiamo il suo discorso anche in questi dettagli, non inutili, per intendere la gigantesca figura che apparirà fra poco dolce e sorridente, nell'incalzare degli avvenimenti straordinari di cui Egli è stato protagonista.  

- Io avevo l'abitudine, - racconta Padre Pio, - a mezza notte, appena suonava mattutino, di correre a lavarmi e sciacquarmi un po' la faccia per stare sveglio, poi via in coro. Una notte stavo per uscire dal lavatoio col mio asciugamano sul braccio, quando vedo arrivare un compagno un po' pauroso .... Che cosa mi balenasse nella testa in quel momento non so, fatto sta che mi tirai un po' in dietro, in mezzo a certi candelabri, che tinnivano al passaggio di qualcuno. Là presso campeggiava un teschio pauroso.  

Quando il compagno giunse all'altezza dei candelabri, io emisi un misterioso lamento.  

Che fu? Forse il compagno vide muoversi l’asciugamano bianco, che io tenevo sul braccio, forse bastò il mio lamento e la vista del teschio là vicino, fatto sta, che gettò un urlo e via di corsa per il corridoio. Io allora più spaventato di lui, timoroso che non avesse ad accorgersi di quel che era avvenuto il Provinciale, andai dietro al poveretto, il quale, sentendosi rincorso, fuggì più atterrito che mai. Lo chiamai per nome. Peggio. Quasi in fondo al corridoio, quegli incespicò e cadde; io che l'incalzavo, mi precipitai su di lui.  

Rantolava.  

- Zitto, zitto, non ti spaventare, sono io, - ma il povero ragazzo non capiva più nulla e se non glielo avessi spiegato dopo, non avrebbe mai saputo quello che era successo. -  

A Pietrelcina ritornava ogni volta che voleva rimettersi in salute. L'aria nativa gli faceva bene, ma appena ristabilito, veniva richiamato subito in convento.  

Una volta fu consigliato di svestire l'abito di monaco per diventare prete, poiché in tal modo Egli avrebbe potuto rimanersene in paese, ma Egli si rifiutò, affermando che «non intendeva tradire S. Francesco».  

A Pietrelcina, in luogo del buon Padre Agostino, sua cara guida spirituale, il confessore di Fra Pio, ritornò ad essere Don Salvatore, l'arciprete del suo paese.  

Un giorno, passeggiando insieme un po' fuori del paese, ove erano soliti. ogni sera, recarsi per parlare dei loro cari argomenti, guardando Padre Pio, verso il luogo ove un tempo esisteva un Convento, ed ove oggi se ne sta costruendo uno nuovo, (vedi tavola N. 2) mentre le campane della Chiesa parrocchiale suonavano l'Ave Maria, Fra Pio si fermò per guardare in alto, lontano lontano, verso il cielo, verso lo spazio infinito, oltre il quale vi è la sola Luce divina.  

- Piuccio, che hai? che vedi? che senti? - gli chiese «Zi Tore» (Don Salvatore).  

- Nulla ho, ma la eco di queste campane mi ricorda un'altra campana, quella del convento di un tempo e mi fa pensare, «Zi Tore», che qui un altro ne dovrà sorgere, più bello, più grande.  

- E quando avverrà ciò? - gli chiese il buon Sacerdote.  

Non so, non lo so dire, ma sento che ciò avverrà.  

Le ultime note del acro bronzo, intanto, si perdevano nella valle, ricordando ai fedeli che il giorno stava per finire e che dovevano disporre il loro animo alla preghiera. Ogni sera Don Salvatore andava a salutare Fra Pio, che trovava sempre assorto nella preghiera. 

Entrando nella stanza, di cui teneva sempre aperto l'uscio, una volta l'Arciprete gli chiese:  

- Perché non chiudi la porta?  

- Perché - rispose - c'è l’angiolino (l'angelo custode) che la guarda.  

Col ritorno in famiglia, Fra Pio riprese a frequentare i vecchi amici e i cari parenti e conoscenti.  

La sua esile persona, il suo pallore diafanamente ascetico, i suoi occhi cerchiati di neri, per le lunghe veglie, per le penitenze e per le febbri, fecero pensare a tutti che Fra Pio fosse tubercolotico.  

Qualche dottore si pronunciò in merito e confermò questa supposizione. Ciò fu causa, che alcuni, pur volendogli bene, lo fuggissero per timore di contrarre il male che non perdona.  

Soffrì umiliazioni, beffe e motteggi, che sopportò sempre con cristiana rassegnazione, senza mai ribellarsi, senza mai protestare. 

ALBERTO DEL FANTE 

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