mercoledì 1 maggio 2019

“Sto male, malissimo. Vorrei morire e solo Dio, che tutto vede, sa il perché… Ieri è stato il giorno più brutto della mia vita… l’inferno in terra… Ora cerco il perdono, ma non ho neanche il coraggio di chiederlo. Spero solo che Dio Misericordioso, abbia pietà di me, ultimo degli esseri, e cambi il mio cuore, quello stesso cuore che credevo migliore e che, invece, mi ha fatto tradire la vita…”



Un capitolo della mia vita stava per concludersi prima che scoprissi di essere incinta.  
Affaticata, ma nel contempo colma di speranza per un nuovo inizio, avevo investito tutte le mie energie nella preparazione dell’esame di Stato che mi avrebbe consentito di diventare un avvocato. 
Anni di studio, di sacrifici, di rinunce, di sforzi continui per non soccombere alla stanchezza mentale, stavano finalmente per essere ripagati. Il mio desiderio più grande era spiccare il volo e raggiungere l’indipendenza per essere libera.  
Stava per accadere davvero! ... e così è stato.  
Superato quell’ostacolo, che a volte consideravo insormontabile, la gioia non era più una sensazione che speravo di provare al più presto, ma era divenuta reale; la conclusione perfetta di un’immensa fatica. Ora, tutto sembrava in discesa. 
Che soddisfazione! Mi sentivo viva, animata da un gran vigore, appagata come non accadeva da diverso tempo, pronta per affrontare il mondo.  
E accanto a me avevo un uomo meraviglioso, che amavo come non avevo mai amato nessuno, che rappresentava il mio sostegno nella vita di tutti i giorni e che era il mio sorriso e la mia allegria…  
Poi…  
… il buio.  
Allarmata, benché si trattasse di un minimo ritardo, per qualche giorno mi sono sentita assalita da una gran disperazione. Le mie mestruazioni si presentavano sempre con assoluta puntualità e, per tal motivo, il mio istinto mi diceva che quel ritardo era quasi certamente dovuto ad una gravidanza. E se così fosse stato? Che avrei fatto? 
Rimandavo indietro i miei pensieri nel tentativo di esorcizzarli, come se la mia indifferenza avesse potuto annullarli e scongiurare ciò che temevo. 
Ma, inevitabilmente, la mente si proiettava nel futuro e avevo paura.  
Paura …  
Paura di crescere? Di assumermi responsabilità? 
Di forzare la mano del destino ed essere sposata per obbligo? Di legare a me una persona di cui non conoscevo realmente le intenzioni? Di essere un peso per Stefano e la mia famiglia, visto che non avevo un lavoro e non ero in grado di offrire al mio bambino tutto quello di cui aveva necessità?  
Non lo so… Non so rispondere...  
So “solo” che l’avrei amato immensamente; a lui avrei riservato ogni goccia del mio amore.  
Ma mi sentivo così confusa da non saper mettere facilmente ordine in quel groviglio di emozioni contrastanti.  
C’era soltanto un modo per porre fine a quel tormento che mi assillava: fare il test di gravidanza. Per questo occorreva prudenza: abitando in un piccolo paese di montagna bisognava essere discreti per sottrarsi a quei pettegolezzi e commenti che sarebbero stati inevitabili. Recarsi presso la farmacia di una città vicina: ecco, era questa la soluzione migliore.  
Lungo il percorso in macchina il tempo era scandito dal silenzio. Più andavamo avanti e più si avvicinava il momento di conoscere la verità. Ed ero talmente immersa nella mia angoscia da perdere la percezione dei luoghi, del tempo, della vicinanza di Stefano. Ricordo solo che ci tenevamo per mano e che, in quei frangenti, tutto scorreva per me in modo anonimo: niente colori intorno, niente luce, nessuna voce...  
Avrei voluto dei figli, e avrei desiderato che il loro padre fosse il mio adorato Stefano. Mi capitava di fantasticare sulla nostra famiglia, ma non c’era stabilità nella mia vita.  
E lui? Che cosa stava provando realmente? Si sarebbe sentito in trappola in caso di esito positivo? Sicuramente mi sarebbe rimasto accanto… 
Ma all’improvviso era come se non conoscessi realmente né lui né me… 
 Inspiegabile. 
Fatto l’acquisto, il viaggio di ritorno ci era stato utile per leggere il foglietto informativo e informarci sulle modalità d’uso di quel “termometro degli ormoni” così piccolo e tuttavia in grado di cambiare la direzione delle nostre esistenze.  
Sempre più certa di conoscere la risposta senza attendere la colorazione delle lineette, speravo tuttavia di sbagliarmi.  
Tre minuti di attesa soltanto erano richiesti…  
Istanti interminabili…  
Il test era positivo.  
Assalita da una gran disperazione, mi sentivo soffocare… Mai provato una simile angoscia.  
Era come se la mia vita fosse finita in quell’attimo. Piangevo e non riuscivo a calmarmi. 
In un certo senso ha sorpreso anche me la mia reazione. Ripetevo: “non lo voglio!”…  
Come se fosse stato un brutto regalo da rifiutare.  
Ma lui era già in me, viveva già in me, respirava in me… Che cosa c’era di tragico nella vita che portavo in grembo? Che cosa c’era di tragico nell’innocenza assoluta e pura di quel bambino? 
Niente. Tutt’altro!  
Eppure, mi ostinavo a non capire…  
Mi sentivo perduta.  
Ormai non si poteva fare più nulla se non… 
buttarlo via; eh già, le cose vanno chiamate con il proprio nome. 
La possibilità di abortire non l’avevo inizialmente considerata poiché contraria ai miei principi, ai valori e agli insegnamenti che mi avevano trasmesso i miei genitori e, dunque, discordante con la mia coscienza…  
… La mia coscienza……  
Quella stessa coscienza che intendevo preservare da qualsiasi tipo di compromesso, in qualsiasi situazione mi fossi venuta a trovare, e che, invece, avevo macchiato già solo con il mio proposito poi divenuto realtà.  
Dopo uno sfogo liberatorio dell’ansia accumulata nei giorni precedenti, quasi in una pausa, del cuore e della mente, dagli affanni provati, accarezzavo l’idea di diventare una mamma dopo nove mesi... 
Mi sembrava incredibile, meravigliosamente straordinario, e al telefono con la mia amica Liliana le mie lacrime si erano inaspettatamente trasformate in sorriso.  
Ma il giorno successivo “quell’idea” diventava sempre più insistente e mi martellava… Il meccanismo era scattato.  
Con la scusa di volermi solo informare su cosa sarebbe accaduto se avessi scelto di non tenerlo, mi avviavo a percorrere una strada senza ritorno. 
Un non ritorno deciso da me però, perché fino all’ultimo minuto avrei potuto rifiutare e fermare tutto; dire: “no, grazie. Io e il mio bambino andiamo via”. La mia vita sarebbe stata migliore a quest’ora, non ne ho alcun dubbio.  
Eppure non è andata così. Da allora, tutto è accaduto velocemente: il primo contatto con il Dott. X, la visita ginecologica nel suo Studio, l’ecografia che non ho voluto vedere, se non in seguito, le analisi del sangue (eseguite ovviamente in un laboratorio privato). La “preparazione” per quello che sarebbe diventato il giorno più orrendo e terribile della mia vita. E alla mente mi tornano ancora, lasciandomi basita adesso come in quell’occasione, le parole pronunciate dal medico incontrato ma, soprattutto, quelle non dette.  
Ricordo che dopo la spiegazione, breve e distaccata, di come si sarebbe svolto l’intervento, il Dott. X aggiunse: “Se decidete per il sì, andate avanti e non voltatevi indietro”; e poi rivolgendosi solo a me: “Devi armarti di tre sacchi di pazienza”.  
Basta.  
Solo questo.  
Non mi ha domandato, nemmeno una volta, “Cosa ti spinge a farlo?” o “Sai cosa succede in realtà?” 
o “Sei sicura?” o “come stai?”. Non c’è mai stato un suo tentativo di dissuasione nei miei confronti. 
Non ha nemmeno accennato a quanto potesse essere meravigliosa la maternità, al miracolo della vita che essa custodisce in sé; non mi ha aiutato a riflettere, a pensare, a ragionare (perché la donna che pensa di abortire non ha la lucidità per capire nulla, essendo sopraffatta dal panico e dalla paura); come se far nascere un bambino o ucciderlo fosse stata la medesima cosa… come decidere se indossare un paio di pantaloni bianchi o neri… come se fosse stato naturale e normale. 
Quella freddezza, che io ho avvertito essere dominante, mi ha spiazzato e ha contribuito ad aumentare la mia solitudine… Avevo bisogno di parlare, parlare, parlare… ed essere ascoltata per essere capita ed aiutata.  
Quella mattina varcai la soglia dell’ospedale alle 9. Raggiunto il reparto, mi ritrovai in una sala d’attesa piena di gente; eppure il vuoto che regnava nel mio cuore era grande e dal sapore amaro.  
Mi tenevo stretta a Stefano cercando protezione, un rifugio sicuro per le mie paure. Ricordo di averlo guardato, ad un certo punto, chiedendogli: 
“E se lo teniamo e ce ne andiamo via tutti e tre?”. 
Senza distogliere il suo sguardo dal mio, sorridendomi dolcemente, rispose: “Se vuoi, lo sai, lo possiamo tenere”.  
Cavolo! Invece di sentir rinnovare la mia (“mia” non “nostra”) libertà di scelta, avrei desiderato con tutta me stessa che mi avesse preso per mano per poi trascinarmi fuori di lì, lontano; che mi avesse abbracciato forte, fino a togliermi il respiro, per poi dirmi: “Insieme ce la possiamo fare; io questo bambino lo voglio…perché ti amo”. Ma, ahimè, quello che chiedeva realmente il mio cuore non aveva ricevuto risposta e, di nuovo, mi sono sentita SOLA.  
In quel momento si affacciò nel corridoio il Dott. X che, dopo avermi dato le prime e necessarie istruzioni su cosa fare una volta giunta in camera, invitò Stefano a tornare nel pomeriggio: la tutela della privacy delle altre sventurate come me imponeva questa decisione.  
Io non volevo che andasse via… che ci separassimo.  
L’ultima opportunità di salvare il nostro bambino, parlando ancora e trasmettendoci le nostre emozioni, liberamente, senza i condizionamenti dell’imperdonabile e stupida razionalità che ci attanagliava… era svanita. E poi, come avrei potuto affrontare tutto da SOLA?  
Entrai allora nella stanza… un ghetto riservato a chi, come me, quel giorno doveva abortire.  
Si respirava morte al suo interno.  
Quasi mi bloccai sui miei passi. Sentivo le gambe come riluttanti a proseguire…  
Trovai un unico letto disponibile, vicino alla finestra, di certo il più esposto al vento, che s’infiltrava dalla stessa e che quel giorno soffiava impetuoso.  
Ma che importava… Il gelo che sentivo nel cuore era più opprimente...  
Mi vergognavo di essere lì, non avevo il coraggio di sollevare lo sguardo dal letto su cui appoggiai le mie poche cose, pur sapendo che non sarei stata giudicata dalle “mie compagne”.  
Quasi inebetita, mi preoccupai di assumere l’antibiotico che mi ero procurata precedentemente su indicazione del medico, accompagnandolo con un sorso d’acqua…  l’acqua… l’unico segno di vita lì dentro.  
Spogliatami, indossai subito il pigiama e andai in bagno a fare pipì: di lì a poco sarebbe arrivato il Dott. X che ci avrebbe inserito nella vagina un ovulo necessario per dilatare l’utero. Avremmo dovuto attendere due ore per far sì che ciò avvenisse e fosse…  più facile strappare via dal grembo… mio figlio…  
Scrivo e, mentre lo faccio, piango. E’ difficile continuare a raccontare…  
I dolori diventarono sempre più acuti: l’ovulo stava svolgendo efficacemente la propria azione... 
Alla schiena e alle gambe avvertivo un male insopportabile; le ovaie si contraevano, il sangue si era gelato, le ossa si erano rattrappite. Battendo letteralmente i denti rivolgevo lo sguardo al soffitto, cercando il volto di Dio: ma con quale diritto?  
Mi chiedevo a voce alta: “cosa sto facendo?”.  
Non sapevo che la risposta a quella domanda mi avrebbe perseguitato da subito e per ogni nuovo giorno della mia misera vita.  
Non ce la facevo più!! Richiesi l’intervento di un’infermiera affinché mi somministrasse qualcosa, qualsiasi cosa, per alleviare la mia crescente sofferenza. 
Fu necessario farmi una flebo di un potente antidolorifico. Non riuscivano a trovare la vena e ciò significava dolore che si sommava ad altro dolore, ma non mi importava: l’unico mio desiderio era che cessassero quelle continue e violente contrazioni.  
Si aggiunse, di lì a poco, un forte senso di nausea tale da non riuscire più a trattenermi e a indurmi a vomitare i succhi gastrici e… la mia anima.  
Con gli occhi di chi implora un briciolo di pietà “rubai” la mano dell’infermiera e la portai sul mio viso, stringendola poi.  
“Qual è il tuo nome?” - le chiesi.  
“Liliana” - subito mi rispose, con un fare cordiale che non potrò mai dimenticare.  
“Come la mia migliore amica” - le dissi con un debole sorriso. “Grazie” - continuai . “Aiutami, fa tanto male; ti prego aiutami”. “Devi respirare lentamente; se ti agiti è peggio. Vedrai che tra poco andrà meglio”.  
Ma non passava.  
“Voglio la mia mamma” - le dissi ancora, 
guardando verso la porta.  
“Perché non è venuta?”.  
“Perché non sa niente”.  
Lei, la mia mamma, non mi avrebbe mai permesso di essere lì; non mi avrebbe consentito neanche di 
pensare alla soluzione da me scelta. Con il suo “solito” amore mi avrebbe sostenuta e si sarebbe 
sacrificata per aiutarmi se ce ne fosse stato bisogno. Sarebbe stata felice di quel dono, come gli altri in famiglia. Ma io non volevo essere un peso per nessuno, neanche per lei.  
La mia tribolazione raggiunse l’apice e lanciai un urlo di dolore... Arrivò di nuovo il Dott. X che si sedette ai bordi del letto, cercando a suo modo di consolarmi. “Glielo avevo detto che doveva armarsi di tre sacchi di pazienza” – mi ricordò. 
Vomitai di nuovo.  
Non tardò a presentarsi un diverso effetto collaterale dell’ovulo: la diarrea. Il dottore ci invitò ad andare in bagno una alla volta e a non esitare a chiamare l’infermiera in caso di bisogno.  
Giunto il mio turno, raccolsi tutte le forze. Non riuscivo a tenermi in piedi, ma non potevo evitarlo.  
Tornata a letto, stremata, guardai l’orologio. Non vedevo l’ora che avesse fine quella lenta agonia.  
Più tardi si affacciò un signore sull’uscio, che ci chiese chi volesse sottoporsi per prima all’intervento. Sperando che l’attesa fosse finita mi abbandonai alla stanchezza; finalmente stavo un po’ meglio.  
Portarono via la più grande di noi tre sventurate. 
Prima che la stessa rientrasse, un’infermiera mi venne a prendere in camera, e mi chiese se ce la facevo a camminare.  
Per raggiungere la sala operatoria, attraversammo un lungo corridoio, per me interminabile. Lei mi sorreggeva tenendomi per un braccio; i miei passi erano lenti e insicuri; la testa era china. Mi sentivo come un animale che andava al macello.  
Quando vi giungemmo, vidi su una barella l’altra ragazza, semicosciente, che accarezzai in viso prima che la portassero via. 
Aspettai in una stanza, piegata su me stessa, quasi inebetita, con lo sguardo fisso sul pavimento, dove mi privarono delle calze, della collana e di un anello da cui non mi separavo quasi mai. Quando mi dissero che era tutto pronto mi portarono in sala operatoria, mi fecero togliere il pantalone del pigiama e le mutandine. Mi fecero mettere supina sul lettino, con le gambe appoggiate sul divaricatore e il bacino spostato in avanti: era quella la giusta posizione da adottare.  
Mi vergognavo, mi sentivo violentata, percossa nella mia intimità. Erano in cinque intorno a me…  
Il Dott. X era pronto. Prima di addormentarmi, rivolsi una supplica all’anestesista, una donna sulla quarantina, dallo sguardo indifferente e duro, mi sembrava, ma che invece rappresentò per me un momento di umanità e protezione. Rispose affermativamente al mio “dimmi che quando mi sveglierò sarà tutto finito” con una carezza accompagnata da uno sguardo tenero e compassionevole.  
Poi… un forte dolore alla mano per via della sostanza iniettatami e l’ultima frase, pronunciata a denti stretti, prima di far morire mio figlio:  
“Quanto fa male”…  
Al fiacco risveglio, mi sentii letteralmente rovesciare sul letto. Avevo un lenzuolo in mezzo alle gambe per assorbire l’emorragia in corso. Non riuscivo a muovermi bene. Ero ancora semiparalizzata.  
Più vivo che mai è il senso di tormento provato quando mi resi conto di non essere più mamma... 
Perché mamma si diventa nel momento in cui scopri che non sei più sola, ma c’è una parte di te che sta nascendo dentro di te. E’ una nuova vita, è tuo figlio. 
Sentivo le lacrime calde e silenziose solcarmi il viso: da quel preciso istante iniziò il mio tormento.  
“Non c’è più. Non c’è più” - mi disperavo con quel briciolo di forza che mi rimaneva.  
Squillò il telefono. Con gran fatica risposi. Era la mia amica Liliana con cui mi sfogai piangendo e dicendo di nuovo:  
“Non c'è più, non c’è più...”.  
Pochi minuti e rientrò da quella sala dell’orrore anche la terza ragazza: così lo scempio si era compiuto.  
I nostri singhiozzi, isolati dall’allegria di chi, nelle vicine stanze, si preparava a vivere l’evento più straordinario della vita, richiamavano il buio in cui eravamo vergognosamente precipitate.  
Chi mi avrebbe salvato, restituendomi alla luce della Grazia Divina? Chi mi avrebbe reso la dignità di donna che avevo soffocato con le mie stesse mani? Ma soprattutto, chi mi avrebbe ridato mio figlio, anzi la mia bambina? Eh sì, perché ero certa che sarebbe stata una femminuccia.  
Straziante il pentimento che aveva bussato da subito al mio cuore. 
Da allora non ho più pace. Non mi perdonerò mai per aver deciso di far morire quella che doveva essere la persona più importante della mia esistenza.  
Ecco, amica mia, ora conosci la mia storia e hai letto il mio dolore, per quanto possibile.  
Tuttora non so spiegarti che cosa mi abbia davvero spinta a diventare quella che non sono. 
Probabilmente si è trattato di paura di crescere, o di essere abbandonata, o di non essere più amata, o di tenere accanto a me una persona che pensavo potesse sentirsi in trappola, o semplicemente di non farcela, di non saper essere una brava mamma e una valida donna.  
Non lo so, non lo so, non lo so…  
La mente umana è complessa e tortuosa e, spesso, neanche noi conosciamo bene tutti i labirinti del nostro inconscio.  
Quel che è certo è che si è trattato di un gesto sconsiderato, frutto del mio egoismo più abbietto e che non rifarei, mai e poi mai, se solo potessi tornare indietro.  
Lo so, anche tu ti senti sola, non vedi via d’uscita al tuo turbamento.  
Provi un disagio per una situazione che non sai come gestire e che non ti appartiene perché nuova, più grande di te, del mondo in cui finora hai vissuto.  
Hai il timore di essere giudicata per ciò che provi in realtà, che nessuno possa capirti, e sei convinta che abortire sia la cosa più giusta da fare; che basteranno pochi minuti del tuo tempo per dare una risposta indolore e definitiva alla tua angoscia. 
Ma, purtroppo, l’angoscia resterà per sempre, perché il dolore per non aver pazientato e aver assecondato la morte di tuo figlio, non riuscirai più a cancellarlo. 
Non sentirti sola.  
Molto più vicino di quanto pensi c’è qualcuno disposto ad ascoltarti, a tenderti la mano per non farti cadere, ad essere tuo amico, un amico sinceramente dispiaciuto per ciò che stai passando e che vuole offrirti il proprio aiuto.  
Hai bisogno di parlare. Sfogati pure, fai tutto quel che è necessario per salvarVi, ne hai il diritto ed anche il dovere. 
Proteggiti da te stessa; proteggi l’amore che già vive in te. 
Capisco quanto, adesso, ogni cosa ti sembri difficile, impossibile da superare, ma tira fuori tutta la forza che hai dentro, perché sono certa che tu ne abbia tanta. Noi donne siamo speciali: 
creature fragili, ma che sanno essere anche forti rocce… 
E’ vero, l’ignoto spaventa, irrigidisce, ma pensa che può rivelarsi una meravigliosa sorpresa.  
La vita ti stupisce soprattutto quando sei convinto che non ci sia più luce per te, e ti emoziona come l’abbraccio inaspettato di un bambino.  
Dio ti ha scelta come mamma di tuo figlio: crede in te.  
Tu hai scelto tuo figlio e lui ha voluto te e non un’altra mamma!! 
Coraggio!!  
Sono sicura che basterà guardarlo negli occhi, tenere la sua tenera mano nella tua, stringerlo a te e sentire il suo profumo per cancellare i brutti pensieri, le angosce, le incertezze.  
Lui sarà la tua forza e tu sarai il suo faro, sempre acceso.  
Se qualcuno avesse deciso di farci morire non avremmo potuto scoprire com’è bello cantare, avere amici, innamorarsi, rimanere stupefatti dinanzi alla bellezza del mare… essere ciò che siamo. 
Quante volte ci siamo lasciati sopraffare dalla rabbia perché non ci hanno lasciato liberi di scegliere. Non arroghiamoci allora il diritto di decidere se far vivere o morire un essere umano, ossia la carne della nostra carne.  
Non negarti l’amore di tuo figlio come ho fatto io. 
Di fronte ad ogni donna in attesa ti chiederai “perché io no?” e non potrai rimproverare nessuno se non te stessa.  
Sapessi che pena si scatenerà in te nel vedere una mamma felice in compagnia del proprio bambino, perché avresti potuto godere della stessa felicità e l’hai rifiutata.  
Comincerai a contare i mesi e poi gli anni che avrebbe compiuto tuo figlio se non lo avessi fatto morire. Cercherai di immaginare il suo volto, l’espressione dei suoi occhi, il suo sorriso e li rivedrai in ogni bambino che incrocerai per strada.  
Non puoi pensare che le mie siano solo parole. 
Chi meglio di me può capirti? Io sono stata all’inferno e non voglio che lo conosca anche tu. 
Ti prego. Ascolta solo il tuo cuore e se qualcuno ti spinge a credere che abortire sia per il tuo bene, allontanalo perché non sa quello che dice, e non ti ama davvero.  
Se deciderai di interrompere la tua gravidanza, ricordalo, non potrai tornare più indietro. Sarà una ferita sempre aperta, sempre sanguinante. Non mortificarti… ti supplico come fossi mia sorella…  
Ora ti lascio, amica mia, con un messaggio che ho scritto il giorno seguente l’aborto. Dovevo liberare in qualche modo il dolore che mi stava consumando fino a togliermi anche il respiro. 
 
“Sto male, malissimo. Vorrei morire e solo Dio, che tutto vede, sa il perché… 
Ieri è stato il giorno più brutto della mia vita… 
l’inferno in terra… Ora cerco il perdono, ma non ho neanche il coraggio di chiederlo. Spero solo che Dio Misericordioso, abbia pietà di me, ultimo degli esseri, e cambi il mio cuore, quello stesso 
cuore che credevo migliore e che, invece, mi ha fatto tradire la vita…” 
 
Mi auguro fortemente che domani mattina, al risveglio, tu sorrida perché avrai deciso di iniziare una nuova, straordinaria avventura… 

      … con TUO FIGLIO. 

Testimonianze









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