venerdì 20 dicembre 2019

I Dieci Comandamenti



Alla luce delle Rivelazioni a Maria Valtorta


Il Quinto Comandamento: “Non uccidere”. 



5.3.2 Una riflessione/confessione di Maria Valtorta sulla tentazione di suicidio.  

E ora, ultima, ma non meno importante e istruttiva, questa riflessione/confessione tratta dall’Autobiografia di Maria Valtorta72: 
 
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 […] Man mano che mi trovavo sola, isolata, col mio ricordo d'amore e col mio ricordo di rancore, sempre pungolata da mamma che man mano che rimaneva senza testimoni in mio favore aumentava il suo rigorismo illogico, io arretravo, arretravo, mi allontanavo da quel codice di bontà e d'amore che era stato la mia norma di vita per degli anni.  
Lei mi dirà: «Ma non mi ha detto che restò sempre fedele ai suoi doveri di cristiana?». Si, ancora credente, ancora osservante. L'amore verso Dio, che era stato il mio motore per tanto tempo, continuava ad agire a mia stessa insaputa e faceva sì che io non sapessi tagliare tutti i ponti che mi univano a Dio.  
Continuavo ad andare in chiesa, continuavo a fare le mie comunioni del primo venerdì del mese. Certo! E dove avrei pianto se non fossi andata in chiesa? E dove avrei sentito sul mio spasimare scendere un balsamo, come un calmante in una carie, se non mi fossi rifugiata presso il Tabernacolo e se nel mio povero cuore in tempesta non avessi accolto Iddio? Ma erano povere preghiere e povere comunioni.  
Non erano più le confidenti orazioni in cui, sì, si chiede aiuto dal Cielo ma anche contemporaneamente si dice: «Però, Signore, fa' Tu quello che ti pare più giusto di fare». Non erano più le amorose comunioni, fusioni dell'anima col suo Signore, durante le quali si bacia il suo Volto divino, le sue Mani santissime, anche se quel Volto ha appena pronunciato un verdetto di dolore per noi e se quelle Mani hanno infitto una spina, una delle sue spine, nel nostro cuore.  
Erano interrogatori, erano inquisizioni, erano, non dico dispute perché Gesù non disputa mai, ma atti di accusa miei contro di Lui. Non si fa di solito così col buon Dio? Quando, per un motivo che sapremo solo nell'altra vita, il Signore permette che il dolore ci ghermisca, cominciamo degli interminabili discorsi a base di «perché». E finché ci si limita a chiedere «perché» di un dolore, si va ancora passabilmente diritti. Il male è che dopo i «perché» vengono delle vere e proprie requisitorie nelle quali noi mettiamo sul banco degli accusati il buon Dio e ci poniamo noi, in veste di Pubblico Ministero, sul banco dell'accusa dal quale tuoniamo i nostri rimproveri e pronunciamo le nostre arringhe contro Gesù; il quale, come già davanti a Pilato, non risponde ma si limita a guardarci con infinita compassione.  
Sono scivolata così piano piano verso la disperazione.  
Come un toro nell'arena - il paragone è poco in carattere parlando di una giovane ma rende tanto bene l'idea - come un toro nell'arena, inseguito, sferzato, aizzato, irriso, ferito da mille parti, io scalpitavo, scuotendo la raggera delle «banderillas» 
che mi si configgevano nella carne, e non riuscivo altro che ad accrescere il tormento.  
Tormento che dal di fuori veniva a me, tormento che dal mio interno veniva alla superficie. Ero in un mare di torture.  
Quelle esterne, del mio caro prossimo, alla cui testa era mia madre che valeva da sola per dieci, mi portavano alla disperazione in un senso.  
Quelle interne, che rampollavano dal mio cuore, mi ci portavano per un altro senso. Le prime mi davano tentazioni di suicidio per evadere da quella rete di tormenti giornalieri. Le seconde mi davano tentazioni della carne perché erano originate da quel che le imprudenti parole di mamma avevano, quella sera, seminato, e le maligne spiegazioni della governante della casa del Colonnello avevano poi coltivato.  
La disperazione! Quanto avrei da dire in proposito! Quanto su coloro che portano i loro simili alla disperazione, e sono i più cinici degli omicidi perché, senza materialmente colpire e macchiarsi di sangue, uccidono in realtà, in maniera raffinata, sia per il metodo che ottiene lo scopo senza incappare nei rigori della giustizia umana, che per la crudeltà con cui compiono la loro opera! Uccidono, e non solo il corpo ma uccidono l'anima, spingendola al suicidio che è ribellione al comando di Dio.  
E quanto avrei da dire sui disperati! I miseri più miseri fra gli uomini!  
Che è mai la povertà, che le più orrende mutilazioni, che le più strazianti malattie, che i lutti più desolanti, se la speranza continua a confortare il cuore dell'uomo? Finché questa virtù celeste rimane come luce superna ad illuminare un cuore e a mostrargli il Volto di Dio e il suo prossimo ed eterno bene, povertà, mutilazioni, malattie, lutti, sono dolori che si possono portare.  
Ma quando la speranza muore e non si spera più, quando la disperazione, questa piovra potente, ci abbranca l'anima suggendoci tutte le energie di bene e paralizzandoci tutti i moti di bene, quando questo mostro ci attira nel gorgo profondo, nel buio spaventoso del non credere più a nulla, allora i dolori non si possono più portare: ci schiacciano e noi ci sentiamo crollare sotto il loro peso e cadiamo maledicendo la vita, e non la vita soltanto...  
Oh! io ho potuto ben capire le sofferenze di mio padre, sofferenze che lo hanno minato fino a fare di lui un povero bambino, confrontandole alle mie!...  
La disperazione uccide anche se noi non ci uccidiamo. 
Uccide solo per lo sforzo che le dobbiamo opporre perché non vinca lei, portandoci al suicidio...  
Come bisogna pregare e amare i disperati, questi infelici portati alla pazzia morale qualche volta da eventi che non possiamo stornare, spesso, troppo spesso, dall'opera voluta compiere con piena coscienza dal nostro prossimo a nostro danno!  
Se i mobili della mia stanza potessero parlare, le potrebbero dire certe mie ore di lotta tremenda contro la tentazione della disperazione che mi spingeva al suicidio.  
Potrebbero anche dirle che irata con me stessa, che non sapevo morire di dolore e non sapevo darmi la morte (perché avevo paura di non darmela bene e di far ridere di me il mondo), mi colpivo ferocemente coi pugni tramutati in mazza fino a cadere stordita al suolo.  
Come vede, non mi uso pietà nel descrivermi quale ero... 
Ma in queste narrazioni bisogna essere sinceri. Sempre. Nel dire il bene come nel dire il male, se no è inutile scriverle. Non le pare?  
Ero una violenta e una passionale. Non dimentichi da chi avevo succhiato il latte e la teoria di certi scienziati sull'influenza del latte nei futuri caratteri dei poppanti.  
In quegli anni, sotto il pungolo di forze esterne ed interne, la psiche della mia pazza nutrice saltava fuori.  
Le forze esterne gliele ho già descritte. Le interne le ho accennato quali fossero.  
Il Maestro dice: «Dal cuore vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le parole oltraggiose. Queste son le cose che contaminano l'uomo».  
A me, dal fondo del cuore dove con poco rispetto per la mia innocenza era stato gettato un conoscimento, che mi si poteva risparmiare, su certe animalità della nostra natura, sorgevano tentazioni di desiderio. Chi non le ha provate non le può capire e perciò non può giudicare.  
Comodo è tuonare contro chi cade, ma bisognerebbe però che colui che tuona e giudica fosse a sua volta morso dalla tentazione. Allora capirebbe.  
Ah! Gesù, che parola la tua quando dici: «Non giudicate!». 
Coloro che la bontà eterna ha preservato da certe lotte dovrebbero limitarsi a lodare e benedire Iddio, fare unicamente questo, invece di consumare lingua e respiro nel condannare i fratelli tentati... Ho sofferto moltissimo. […]. 
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a cura del Team Neval 
 
Riflessioni di Giovanna Busolini  

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