MICHELA
La mia lotta per scappare dall'Inferno
L'avventura da chef
Un giorno accadde che il titolare ebbe un infarto e fu necessario ricoverarlo d'urgenza in ospedale. I medici gli ordinarono riposo assoluto per un mese, ma intanto avevamo molte prenotazioni per pranzi e cene e sarebbe stato un dramma chiudere il locale. Allora suo fratello mi chiese di provare a sostituirlo. In sala nessuno si accorse che il titolare non c'era, perché io riuscivo a realizzare perfettamente le sue specialità. Quando rientrò si complimentò di cuore e mi spostò a tempo pieno in cucina e per un altro anno mi insegnò tutto quello che poteva.
A quell'epoca lavoravo come una matta, dalle sedici alle diciotto ore al giorno, però guadagnavo due milioni di lire al mese, e non erano pochi vent'anni fa. Un albergatore che aveva pranzato da noi apprezzò le mie capacità e mi offrì di fare una stagione sulla costa tirrenica, offrendomi cinquecentomila lire in più di stipendio, oltre al vitto e all'alloggio. Chiesi consiglio al mio "maestro" e lui, contrariamente ai propri interessi, mi spinse ad accettare: «Le basi ora le hai.
Quello che devi imparare sono gli stili, e potrai farlo soltanto andando per un po' in giro».
In realtà lui mi aveva insegnato ben di più, facendomi comprendere che cucinare significa esprimere le proprie emozioni. Mi diceva: «Quando cucini non devi seguire passivamente la ricetta. Devi entrare in contatto con le tue emozioni del momento e anche in base a ciò rendere originale quella realizzazione. Per esempio, sai che per il pesce la base è olio, aglio, prezzemolo, vino bianco, limone. Ma poi devi aggiungerci quello che percepisci in relazione allo specifico pesce che stai lavorando: pepe, peperoncino, zafferano, o cos'altro. Il gusto lo devi creare tu. Non devi spiegare nulla. Il cliente non deve parlare con te, ma deve parlare con il tuo piatto». È stato divertente in seguito, quando mi è capitato di avere al fianco apprendisti cuochi che venivano dal Giappone per imparare la cucina italiana. Stavano lì con carta e penna per scrivere nei dettagli tutto ciò che facevo e dopo un po' uscivano matti, perché non c'era mai un piatto esattamente uguale da un giorno all'altro!
Da quel momento ho cominciato a girare come una trottola. Sono stata in varie regioni del Nord Italia, e poi a Formentera e Ibiza, e anche in Olanda. In ogni posto rimanevo per qualche mese, al massimo cinque, in modo da imparare varie tecniche e poterci aggiungere del mio. In cucina non si studia: tutto si fa lavorando. Ho migliorato anche la mia tecnica dell'assaggiare i cibi, che è anch'essa un'arte: innanzitutto un bicchiere di acqua gasata per pulire la bocca, poi si prende un cucchiaio di minestra o un boccone di cibo e lo si fa raffreddare, quindi lo si mette in bocca e lo si fa scivolare sulle varie aree, per poter percepire l'acido, l'amaro, il dolce e il salato. In questo modo si può giudicare se una certa base, che serve a preparare un determinato numero di pietanze, è fatta bene.
Quando sono diventata responsabile di cucina, talvolta ho fatto buttare via intere minestre perché mi accorgevo se avevano utilizzato l'aglio napoletano o quello spagnolo, che sono differenti come il giorno e la notte.
Nel frattempo, oltre allo spinello che avevo sempre a portata di mano, ho cominciato a sniffare anche la cocaina. A introdurmi in questa esperienza fu una nota figura della nobiltà italiana, per la quale avevo allestito il buffet di una cosiddetta «cena vip»: una festa privata, con gente dell'industria, della politica e dello spettacolo, dove ci si scambiavano informazioni, si avviavano affari e si intrecciavano nuovi amori. Ne ho curate diverse e una "tirata" di coca faceva sempre parte del menu.
L'altra mia droga era il sesso, consumato in forma di "usa e getta". I sentimenti per me non esistevano, da questo punto di vista ero diventata un cubetto di ghiaccio. Ogni volta che cambiavo ristorante e città, abbandonavo al suo destino il ragazzo del momento e mi gettavo nelle braccia di uno nuovo. In tanti hanno perso la testa per me, ma io facevo come la Vedova nera: non avevo pietà delle loro lacrime. Scomparivo e non mi facevo più trovare. Per di più, quando qualcuno mi piaceva non avevo problemi ad andarci subito a letto: così talvolta mi capitava di avere due o tre amanti contemporaneamente e la cosa non mi turbava affatto.
La mia regola di comportamento era che ogni storia doveva avere un inizio e una fine. Mi ero imposta di non fidarmi di nessuno, di non affezionarmi, di essere certa che l'amicizia non esiste. Insomma, avevo imparato a vivere da sola, per proteggermi da ogni ulteriore ferita, dopo le innumerevoli che avevo già subito.
Non prendevo nemmeno particolari precauzioni e oggi devo dire che, grazie a Dio, non sono mai rimasta incinta, perché altrimenti avrei certamente abortito, tanto era il menefreghismo che regnava in me.
La storia più lunga che ho avuto è stata con Luis, un ragazzo boliviano dal carattere solare con il quale sono stata un anno. Un giorno è partito per andare a trovare i genitori al suo Paese. Dopo qualche settimana l'ho chiamato al telefono per sapere come stava e una sua sorella mi ha comunicato piangendo che era morto in un incidente stradale. Per me è stata un'ulteriore conferma del fatto che non dovevo mai legarmi a qualcuno.
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