mercoledì 2 settembre 2020

Santi Martiri del I – II e III Secolo



Dalla Gerarchia Cardinalizia di  Carlo Bartolomeo Piazza 

e dalle Rivelazioni Private della mistica Maria Valtorta 


Martirio delle Sante Perpetua e Felicita. 


1 marzo l944 

Mi dice Gesù, verso le 17: 

«Non era mia intenzione darti questa visione questa sera. Avevo  intenzione di farti vivere un altro episodio dei “vangeli della fede”64. 
Ma è stato espresso un desiderio da chi merita d’esser accontentato. 
E Io accontento. Nonostante i tuoi dolori, vedi, osserva e descrivi. I  tuoi dolori li dài a Me e la descrizione ai fratelli.» 
E nonostante i miei dolori, tanto forti - per cui mi pare di avere il  capo stretto in una morsa che parte dalla nuca e si congiunge sulla  fronte e scende verso la spina dorsale, un male terribile per cui ho  pensato mi stesse per scoppiare una meningite e poi mi sono svenuta  - scrivo. È tanto forte anche ora. Ma Gesù permette che riesca a  scrivere per ubbidire. Dopo... dopo sarà quel che sarà. 
Le assicuro, intanto, che passo di sorpresa in sorpresa; perché per  prima cosa mi trovo di fronte a degli africani, arabi per lo meno,  mentre ho sempre creduto che questi santi fossero europei. Ché non  avevo la minima nozione della loro condizione sociale e fisica e del  loro martirio. Di Agnese sapevo vita e morte.65 Ma di questi! È come  se leggessi un racconto sconosciuto. 
Per prima illustrazione, avanti di svenirmi, ho visto un anfiteatro  su per giù come il Colosseo (ma non rovinato), vuoto per allora di  popolo. Solo una bellissima e giovane mora è ritta là in mezzo e  sollevata dal suolo, raggiante per una luce beatifica che si sprigiona dal suo corpo bruno e dalla scura veste che lo copre. Sembra l’angelo del luogo. Mi guarda e sorride. Poi mi svengo e non vedo più nulla.  
Ora la visione si completa. Sono in un fabbricato che, per la  mancanza di ogni e qualsiasi comodità e per la sua arcigna apparenza,  mi si rivela come una fortezza adibita a carcere. Non è il sotterraneo  del Tullianum visto ieri. Qui sono stanzette e corridoi sopraelevati.  Ma così scarsi di spazio e di luce e così muniti di sbarre e di porte  ferrate e piene di chiavistelli, che quel “che” di migliore che hanno in posizione viene annullato dal loro rigore che annulla la benché più  piccola idea di libertà. 
In una di queste tane è seduta su un tavolaccio, che fa da letto,  sedile e tavola, la giovane mora che ho visto nell’anfiteatro. Ora non emana luce. Ma unicamente tanta pace. Ha in grembo un piccino di  pochi mesi al quale dà il latte. Lo ninna, lo vezzeggia con atto di  amore. Il bambino scherza con la giovane madre e strofina la sua  faccetta molto olivastra contro la bruna mammella materna, e vi si  attacca e stacca con avidità e con subite risatine piene di latte. 
La giovane è molto bella. Un viso regolare piuttosto tondo, con  bellissimi occhi grandi e di un nero vellutato, bocca tumida e piccina  piena di denti candidissimi e regolari, capelli neri e piuttosto crespi  ma tenuti a posto da strette trecce che le si avvolgono intorno al  capo. Ha il colorito di un bruno olivastro non eccessivo. Anche fra noi italiani, e specie del meridione d’Italia, si vede quel colore,  appena un poco più chiaro di questo. Quando si alza per  addormentare il piccino andando su e giù per la cella, vedo che è alta  e formosa con grazia. Non eccessivamente formosa, ma già ben  modellata nelle sue forme. Sembra una regina per il portamento  dignitoso. È vestita di una veste semplice e scura, quasi quanto la sua  pelle, che le ricade in pieghe morbide lungo il bel corpo. 
Entra un vecchio, moro lui pure. Il carceriere lo fa entrare  aprendo la pesante porta. E poi si ritira. La giovane si volge e sorride.  Il vecchio la guarda e piange. Per qualche minuto restano così. 
Poi la pena del vecchio prorompe. Con affanno supplica la figlia di aver pietà del suo soffrire: “Non è per questo” le dice “che ti ho generato. Fra tutti i figli ti ho amata, gioia e luce della mia casa. Ed  ora tu ti vuoi perdere e perdere il povero padre tuo che sente morirsi  il cuore per il dolore che gli dài. Figlia, sono mesi che ti prego. Hai  voluto resistere ed hai conosciuto il carcere, tu nata fra gli agi.  Curvando la mia schiena davanti ai potenti t’avevo ottenuto di esser ancora nella tua casa per quanto come prigioniera. Avevo promesso  al giudice che ti avrei piegata con la mia autorità paterna. Ora egli mi  schernisce perché vede che di essa tu non ti sei curata. Non è questo  quel che dovrebbe insegnarti la dottrina che dici perfetta. Quale Dio  è dunque quello che segui, che ti inculca di non rispettare chi ti ha  generato, di non amarlo, perché se mi amassi non mi daresti tanto  dolore? La tua ostinazione, che neppure la pietà per quell’innocente ha vinto, ti ha valso di esser strappata alla casa e chiusa in questa  prigione. Ma ora non più di prigione si parla, ma di morte. E atroce.  Perché? Per chi? Per chi vuoi morire? Ha bisogno del tuo, del nostro  sacrificio - il mio e quello della tua creatura che non avrà più madre -  il tuo Dio? il suo trionfo ha bisogno del tuo sangue e del mio pianto  per compiersi? Ma come? La belva ama i suoi nati e tanto più li ama  quanto più li ha tenuti al seno. Anche in questo speravo e per questo  ti avevo ottenuto di poter nutrire il tuo bambino. Ma tu non muti. E  dopo averlo nutrito, scaldato, fatto di te guanciale al suo sonno, ora  lo respingi, lo abbandoni senza rimpianto. Non ti prego per me. Ma  in nome di lui. Non hai il diritto di farne un orfano. Non ha diritto il  tuo Dio di fare questo. Come posso crederlo buono più dei nostri se  vuole questi sacrifici crudeli? Tu me lo fai disamare, maledire sempre  più. Ma no, ma no! Che dico? Oh! Perpetua, perdona! Perdona al tuo  vecchio padre che il dolore dissenna. Vuoi che lo ami il tuo Dio? Lo amerò più di me stesso, ma resta fra noi. Di’ al giudice che ti pieghi. 
Poi amerai chi vuoi degli dèi della terra. Poi farai del padre tuo ciò  che vuoi. Non ti chiamo più figlia, non son più tuo padre. Ma il tuo  servo, il tuo schiavo, e tu la mia signora. Domina, ordina ed io ti  ubbidirò. Ma pietà, pietà. Salvati mentre ancora lo puoi. Non è più tempo di attendere. La tua compagna ha dato alla luce la sua  creatura, lo sai, e nulla più arresta la sentenza. Ti verrà strappato il  figlio; non lo vedrai più. Forse domani, forse oggi stesso. Pietà, figlia!  Pietà di me e di lui che non sa parlare ancora, ma lo vedi come ti  guarda e sorride! Come invoca il tuo amore! Oh! Signora, mia  signora, luce e regina del cuor mio, luce e gioia del tuo nato, pietà, pietà!”  
Il vecchio è ginocchioni e bacia l’orlo della veste della figlia e le abbraccia i ginocchi e cerca prenderle la mano che ella si posa sul  cuore per reprimerne lo strazio umano. Ma nulla la piega. 
“È per l’amore che ho per te e per lui che rimango fedele al mio Signore” ella risponde. “Nessuna gloria della terra darà al tuo capo bianco e a questo innocente tanto decoro quanto ve ne darà il mio  morire. Voi giungerete alla Fede. E che direste allora di me se avessi  per viltà di un momento rinunciato alla Fede? il mio Dio non ha  bisogno del mio sangue e del tuo pianto per trionfare. Ma tu ne hai  bisogno per giungere alla Vita. E questo innocente per rimanervi. Per  la vita che mi desti e per la gioia che egli mi ha dato, io vi ottengo la  Vita che è vera, eterna, beata. No, il mio Dio non insegna il disamore  per i padri e per i figli. Ma il vero amore. Ora il dolore ti fa delirare,  padre. Ma poi la luce si farà in te e mi benedirai. Io te la porterò dal  cielo. E questo innocente non è che io l’ami meno, ora che mi sono fatta svuotare dal sangue per nutrirlo. Se la ferocia pagana non fosse  contro noi cristiani, gli sarei stata madre amantissima ed egli sarebbe  stato lo scopo della mia vita. Ma più della carne nata da me è grande Iddio, e l’amore che gli va dato infinitamente più grande. Non posso neppure in nome della maternità posporre il suo amore a quello di  una creatura. No. Non sei lo schiavo della figlia tua. Io ti son sempre  figlia e in tutto ubbidiente fuorché in questo: di rinunciare al vero  Dio per te. Lascia che il volere degli uomini si compia. E se mi ami,  seguimi nella Fede. Là troverai la figlia tua, e per sempre, perché la  vera Fede dà il Paradiso, ed a me il mio Pastore santo ha già dato il benvenuto nel suo Regno”. 
E qui la visione ha un mutamento, perché vedo entrare nella cella  altri personaggi: tre uomini ed una giovanissima donna. Si baciano e  si abbracciano a vicenda. Entrano anche i carcerieri per levare il figlio  a Perpetua. Ella vacilla come colpita da un colpo. Ma si riprende. 
La compagna la conforta: “Io pure, ho già perduto la mia creatura. Ma essa non è perduta. Dio fu meco buono. Mi ha  concesso di generarla per Lui e il suo battesimo si ingemma del mio  sangue. Era una bambina... e bella come un fiore. Anche il tuo è  bello, Perpetua. Ma per farli vivere in Cristo questi fiori hanno bisogno del nostro sangue. Duplice vita daremo loro così”. 
Perpetua prende il piccino, che aveva posato sul giaciglio e che  dorme sazio e contento, e lo dà al padre dopo averlo baciato  lievemente per non destarlo. Lo benedice anche e gli traccia una croce  sulla fronte ed una sulle manine, sui piedini, sul petto, intridendo le  dita nel pianto che le cola dagli occhi. Fa tutto così dolcemente che il  bambino sorride nel sonno come sotto una carezza.  
Poi i condannati escono e vengono, in mezzo a soldati, portati in una oscura cavea dell’anfiteatro in attesa del martirio. Passano le ore  pregando e cantando inni sacri, esortandosi a vicenda all’eroismo.  Ora mi pare di essere io pure nell’anfiteatro che ho già visto. È pieno di folla per la maggior parte di pelle abbronzata. Però vi sono  anche molti romani. La folla rumoreggia sulle gradinate e si agita. La  luce è intensa nonostante il velario steso dalla parte del sole. 
Vengono fatti entrare nell’arena, dove mi pare siano stati già eseguiti dei giuochi crudeli perché è macchiata di sangue, i sei martiri  in fila. La folla fischia e impreca. Essi, Perpetua in testa, entrano cantando. Si fermano in mezzo all’arena e uno dei sei si volge alla folla. 
“Fareste meglio a mostrare il vostro coraggio seguendoci nella Fede e non insultando degli inermi che vi ripagano del vostro odio  pregando per voi e amandovi. Le verghe con cui ci avete fustigato, il carcere, le torture, l’aver strappato a due madri i figli - voi bugiardi che dite d’esser civili e attendete che una donna partorisca per poi ucciderla e nel corpo e nel cuore separandola dalla sua creatura, voi  crudeli che mentite per uccidere perché sapete che nessuno di noi vi  nuoce, e men che mai delle madri che altro pensiero non hanno che  la loro creatura - non ci mutano il cuore. Né per quanto è amore di  Dio né per quanto è amore di prossimo. E tre, e sette, e cento volte  daremmo la vita per il nostro Dio e per voi. Perché voi giungiate ad  amarlo, e per voi preghiamo mentre già il Cielo su noi si apre: Padre  nostro che sei nei cieli...”. In ginocchio i sei santi martiri pregano. 
Si apre un basso portone e irrompono le fiere che, per quanto  sembrano bolidi tanto sono veloci nella corsa, mi paiono tori o bufali  selvaggi. Come una catapulta ornata di corna pontute, investono il  gruppo inerme. Lo alzano sulle corna, lo sbattono per aria come  fossero tanti cenci, lo riabbattono al suolo, lo calpestano. Tornano a  fuggire come pazzi di luce e di rumore e tornano a investire.  
Perpetua, presa come un fuscello dalle corna di un toro, viene  scaraventata molti metri più là. Ma per quanto ferita, si rialza e sua  prima cura è di ricomporsi le vesti strappate sul seno. Tenendosele  con la destra, si trascina verso Felicita caduta supina e mezza  sventrata, e la copre e sorregge facendo di sé appoggio alla ferita. Le  bestie tornano a ferire finché i cinque malvivi sono stesi al suolo. 
Allora i bestiari le fanno rientrare e i gladiatori compiono l’opera.  Ma, fosse pietà o inesperienza, quello di Perpetua non sa uccidere. 
La ferisce, ma non prende il punto giusto. “Fratello, qua, che io ti  aiuti” dice ella con un filo di voce e un dolcissimo sorriso. E, appoggiata la punta della spada contro la carotide destra, dice: 
“Gesù, a Te mi raccomando! Spingi, fratello. Io ti benedico” e sposta  il capo verso la spada per aiutare l’inesperto e turbato gladiatore. 

Dice Gesù: 

«Questo è il martirio della mia martire Perpetua, della sua compagna Felicita e dei suoi compagni. Rea di esser cristiana.  Catecumena ancora. Ma come intrepida nel suo amore per Me! Al  martirio della carne ella ha unito quello del cuore, e con lei Felicita.  Se sapevano amare i loro carnefici, come avranno saputo amare i figli  loro? 
Erano giovani e felici nell’amore dello sposo e dei genitori.  Nell’amore della loro creatura. Ma Dio va amato sopra ogni cosa. Ed esse lo amano così. Si strappano le loro viscere separandosi dal loro piccino, ma la Fede non muore. Esse credono nell’altra vita. 
Fermamente. Sanno che essa è di chi fu fedele e visse secondo la  Legge di Dio. 
Legge nella legge è l’amore. Per il Signore Iddio, per il prossimo loro. Quale amore più grande di dare la vita per coloro che si ama, così come l’ha data il Salvatore per l’umanità che Egli amava? Esse  dànno la vita per amarmi e per portare altri ad amarmi e possedere perciò l’eterna Vita. Esse vogliono che i figli e i genitori, gli sposi, i fratelli e tutti coloro che esse amano di amore di sangue o di amore  di spirito - i carnefici fra questi poiché Io ho detto: “Amate coloro  che vi perseguitano”66 - abbiano la Vita del mio Regno. E, per  guidarli a questo mio Regno, tracciano col loro sangue un segno che  va dalla Terra al Cielo, che splende, che chiama. 
Soffrire? Morire? Cosa è? È l’attimo che fugge. Mentre la vita eterna resta. Nulla è quell’attimo di dolore rispetto al futuro di gioia che le attende. Le fiere? Le spade? Che sono? Benedette siano esse  che dànno la Vita. 
Unica preoccupazione - poiché chi è santo lo è in tutto - di  conservare la pudicizia. In quel momento, non della ferita ma delle  vesti scomposte hanno cura. 
Poiché, se vergini non sono, sono sempre delle pudiche. Il vero  cristianesimo dà sempre verginità di spirito. La mantiene, questa bella  purezza, anche là dove il matrimonio e la prole han levato quel sigillo che fa dei vergini degli angeli. 
Il corpo umano lavato dal Battesimo è tempio dello Spirito di Dio. Non va  dunque violato con invereconde mode e inverecondi costumi. Dalla  donna, specie dalla donna che non rispetta se stessa, non può che  venire una prole viziosa e una società corrotta, dalla quale Dio si  ritira e nella quale Satana ara e semina i suoi triboli che vi fanno  disperare.» 

A cura di Mario Ignoffo

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