La liturgia
Anche nell’eremo la liturgia avrà avuto uno sviluppo, ma più che altro, le monache avranno assistito alla liturgia dei monaci. A Rupertsberg e ad Eibingen Ildegarda stessa organizzò la liturgia. Negli scritti di Ildegarda non mancano reminiscenze di testi liturgici. Anzi sono frequenti, anche se non sono citazioni vere e proprie, antifone, inni, responsori, orazioni, di cui si trovano tracce, per così dire, ad ogni passo. Manca, invece, nelle sue opere una trattazione sistematica dei temi secondo l’anno liturgico, con l’eccezione della sua opera Explanatio evangeliorum, la spiegazione dei Vangeli delle domeniche e di alcune feste, non però completa. Ogni testo viene spiegato prima letteralmente e poi secondo il significato morale e due tre volte secondo il suo significato anagogico, come deve essere interpretato il testo se si guarda in una visione generale dell’anima fino alla fine del mondo.
Delle sette visioni della seconda parte dello Scivias, che ha per oggetto la Chiesa e i sacramenti, la sesta, la più ampia, con ben cento capitoli, tratta del santo sacrificio della Messa, Cristo crocifisso n’è il centro. Egli domina l’altare accanto al quale si vede ritta la figura di una donna, la Chiesa, congiunta a Cristo nella sua Passione. Il sangue che zampilla dal cuore trafitto di Cristo viene raccolto dalla Chiesa in un calice. Questo sangue Ildegarda lo chiama la dote della Chiesa, la sua ricchezza. Da esso risulta la salvezza delle anime, che alla Chiesa sono affidate. Assistere alla Messa è una grande cosa. Significa vivere con Cristo e insieme a lui non solo la sua Passione, ma tutta la sua vita. Durante la celebrazione della Messa, appaiono nella visione di Ildegarda in immagine, come in uno specchio, i misteri di Natale, della morte, della sepoltura, della risurrezione e dell’ascensione del Figlio di Dio. Il sacramento dell’altare è un mistero di fede e Ildegarda non si stanca di ripetere quanto sia necessario la fede per chi vi si accosti. Illustra con un’immagine, tratta dalla Vita di uno dei padri del deserto, della differenza tra le anime che si accostano alla santa comunione. Alcune sembrano tutte luminose, tutte d’oro, altre pallide, altre pallidissime, altre insozzate, altre addirittura nere, secondo lo stato dell’anima.
L’ufficio divino è al centro della vita benedettina. Ildegarda ne tratta, vi allude, nella quinta visione del secondo libro dello Scivias. Ne tratta anche nei vari capitoli della spiegazione della Regola di San Benedetto: “La via di perfezione, discreta e piana, aperta da San Benedetto attende da chi la segue con il proposito della conversatio morum nella continua ricerca di Dio, il ritorno a lui”. La conversione, abbiamo già detto, è un cambiamento di direzione. Quasi senza avvertirlo, ci volgiamo a quello che ci piace o ci interessa o a noi stessi, dimenticando il nostro fine ultimo, Dio. La conversione ci riporta a lui e con l’abnegazione della propria volontà giungiamo all’imitazione di Cristo nella sua Passione, come dice Ildegarda. La Regola è nella linea del Vangelo e non vuole nient’altro e niente di nuovo, se non che la si metta in pratica. “Se l’insegnamento degli apostoli può paragonarsi alla prima luce del giorno e l’inizio della vita monastica come l’aurora, il sole serve a dare un’immagine della vita, quale la vuole San Benedetto da chi segue la sua Regola”. “L’abito dei monaci - Ildegarda pensa qui alla cocolla, il mantello indossato per l’Ufficio in coro, con larghe maniche che Ildegarda paragona ad ali - riporta al servizio di lode degli angeli, mentre designa anche l’Incarnazione e la sepoltura del Figlio di Dio, in quanto chi lo porta si è offerto alla fortissima obbedienza, come lo fu Cristo, obbediente fino alla morte”. Quando il monaco riceve la cocolla, rinuncia ad ogni cosa, anche alla sepoltura. L’abito significa che il monaco ha scelto con volontà pura, senza voler nient’altro per sé nella vita religiosa se non Cristo. La cocolla è un segno di elevazione e di mortificazione, nella gioia, però. Ildegarda non è una santa triste e la Regola di San Benedetto porta ad una donazione gioiosa.
Nella spiegazione della Regola di San Benedetto Ildegarda rileva pure la saggezza pratica del santo. Le norme che dà per la preghiera nella notte, per le ore di sonno, sono di vantaggio per la salute. L’ora dell’alzata nella notte, una pratica che generalmente non si fa più, è ben scelta e non nuoce al processo della digestione. Dormire troppo a lungo, o dormicchiare, come l’oziosità, nuoce al fisico. La ripetizione poi giorno per giorno dei salmi ne rende possibile l’apprendimento a memoria e l’esercizio della memoria è di grande utilità.
Ildegarda fa osservare che la Regola in vari punti si rimette al giudizio e alla discrezione dell’abate e dei fratelli. San Benedetto non regola assolutamente tutto, ma lascia abate e fratelli una certa possibilità di decisione. La preghiera, quando è prolungata fuori misura non da gioia, ma nella giusta misura fa sì che la si assolve in gioia e non con noia. La preghiera personale Benedetto la vuole pura e breve: ognuno la deve fare, interpreta Ildegarda, secondo la propria capacità. Pura, ci si mette innanzi a Dio – e basta. “Sotto ogni riguardo la Regola tiene lontano dagli eccessi, che fanno perdere di vista il fine e conduce direttamente alla meta. Questa Regola non è né troppo larga nelle sue concessioni, né troppo stretta nelle sue prescrizioni, ma mira a destra e non a sinistra, sicché conduce diritto alla meta colui che l’osserva”.
Per Ildegarda, la discrezione raccomandata dalla Regola deve ispirare ogni scelta. La discrezione, dal verbo discernere = distinguere, non presuppone semplicemente il lavoro che precede ogni scelta, discernere il positivo dal negativo per prendere una decisione, dopo un confronto bene riflettuto e ponderato. Essa prende pure in esame le possibilità del soggetto, le qualità degli oggetti, la necessità del momento. Nello Scivias, terzo libro, sesta visione, appare come la virtù che sceglie il meglio tra quanto vi è di buono. “Tiene nel grembo gemme preziose che lascia scorrere tra le dita. Ella è colei che ogni cosa passa al vaglio della discrezione, cribratrix omnium rerum”. Ha un abito di colore nero, perché ogni buona scelta presume e richiede la mortificazione della carne, cioè, il dominio delle proprie facoltà. Porta sulla spalla destra una piccola croce con l’immagine di Cristo, perché non c’è virtù di discrezione senza la dilezione, l’amore, per lui. La discrezione suppone saper distinguere il bene dal male, ma anche tra le cose buone è necessario conoscere quale è il meglio, relativamente alla persona, al tempo e alla circostanza. La discrezione porta ad una scelta intelligente e conveniente. Nella lista delle virtù in questa visione dello Scivias ha il posto prima della virtù somma della salvezza dell’anima.
Nel libro Dei meriti di vita, dove entrano non solo le virtù, come nello Scivias, ma anche i vizi, in una discussione che si estende per tutti e trentacinque libri, la virtù Discrezione ha un dibattito con il vizio Mancanza di misura, che da nulla vuole astenersi e afferma che le piace agire semplicemente come a lei conviene, senza tener conto di quello che ne è la conseguenza. Discrezione, invece, non pensa al proprio vantaggio, sa che tutte le cose create stanno nell’ordine stabilito da Dio e si rispondono a vicenda. Così la luna risplende della luce del sole, tutte quante le creature servono quelle più grandi di loro e non vanno oltre i loro limiti. Discrezione considera, prima di agire, l’ordinamento di Dio e in carità ne tiene in conto. Il concetto di base di Ildegarda è quello di permetterci di essere penetrati da questa verità, che noi siamo sempre in rapporto: le parti del nostro corpo tra di loro, il nostro corpo con la nostra anima, noi stessi con gli altri, tutto quello che abbiamo ci viene dal rapporto con le creature – e che non dobbiamo considerarci liberi di fare quello che ci pare, perché dipendiamo da tutti e dipendiamo da noi stessi, nell’uso che facciamo delle nostre facoltà.
Questa virtù della discrezione è l’intima regola della vita spirituale per Ildegarda, come già per Benedetto. Parlando di Benedetto, Ildegarda dice: “Il santo ha posto il chiodo della dottrina al centro della ruota”. Il chiodo era già per gli antichi, simbolo della stabilità, irremovibile. La ruota è simbolo dell’universo creato, il simbolo di Dio e anche simbolo dell’uomo. Come simbolo dell’uomo, la ruota significa che l’uomo è sempre in movimento, sempre cambia, si gira e si muove nel tempo. L’unico fisso, al centro, è Cristo. Al centro, “…né troppo in alto, né troppo in basso”, sicché ognuno che vuole possa raggiungerlo, c’è Cristo, che sta al centro della ruota, sta fermo e vede girare la ruota. Chi si tiene saldo a Cristo è al centro del mondo, sta ritto e non teme, perché sa che nulla può separarlo da lui.
Sr. ANGELA CARLEVARIS osb
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