domenica 25 luglio 2021

SAN PIO V IL PONTEFICE DELLE GRANDI BATTAGLIE

 


IL DIPLOMATICO 


Nello stesso tempo Massimiliano esprimeva calorosamente all'ambasciatore di Sassonia la sua simpatia per i protestanti, e gradiva la proposta dell'elettore Augusto che lo eccitava a “sbarazzarsi di tutte le relazioni coi preti, e a sfidare apertamente il frate che regnava a Roma”. L'imperatore aveva fatta al nunzio un'accoglienza cosi fredda che il duca di Baviera sentì il bisogno di rimproverargli la sua sgarbatezza: “Non è una vergogna, gli disse, vedere come gli ambasciatori turchi sieno accolti in Germania con segni di grande rispetto, mentre si suscitano mille difficoltà per dare udienza al nunzio della Santa Sede?”. 

   Massimiliano comprese che il Papa non avrebbe mai permesso il matrimonio d'un re cattolico con una principessa, che se la intendeva col protestantesimo; e sapeva pure che Filippo II non si sarebbe mai ribellato al veto del Santo Padre. Egli infatti aveva già tentato con occulte proposte di staccarlo dalla Santa Sede, ma non aveva ricevuto che uno sdegnoso rifiuto, da lui stesso definito “pillola amara”. 

   Il re di Spagna, come se raccogliesse già dalle mani tremanti dell'imperatore la signoria dell'Europa caduta ormai sotto il suo protettorato, con un tono fiero e mordace gli fece le proprie rimostranze. Egli si meravigliava che Massimiliano avesse fatto al principe d'Orange l'onore di inviare un arciduca, suo fratello, a intercedere in favore del ribelle alla corte di Madrid, e giudicava una simile condiscendenza come mancanza di tatto. Tuttavia, soggiungeva, nulla produceva in lui tanta meraviglia e si cattiva impressione quanto il suo atteggiamento sleale verso la Chiesa; e lo supplicava di non lasciare le vie battute dai suoi antenati, e in loro nome gli ingiungeva di adempiere il proprio dovere. 

   Tuttora ferito da questa umiliazione, l'imperatore si studiò di far dimenticare al Papa e al re le sue maniere di procedere tanto ambigue. Con una disinvoltura, cosi bene confacente al suo carattere incostante, copri i cattolici di tenerezze riserbate prima ai luterani. Poi, assicurando Filippo II della sua fedeltà, fece chiamare il Nunzio e lo ricevette con gran magnificenza davanti a tutti gli ufficiali della corona. 

Per fortuna la Santa Sede aveva un nunzio forte e intelligente, destro e risoluto, Giovanni Francesco Commendone, vescovo di Zante. “La corte romana, scrive Fléchier, non ebbe mai un diplomatico più dotto, più attivo, più disinteressato e fedele. Egli dovette intraprendere i negoziati più importanti in tempi difficilissimi”. Godette la fiducia di Giulio III, Paolo IV e Pio IV, e la meritò concludendo trattati vantaggiosi con Venezia e i principi italiani, con missioni felicemente riuscite in Fiandra, Inghilterra e Portogallo, e per aver preso parte principalissima al Concilio di Trento. 

   Pio V, che anche prima d'esser Papa aveva apprezzate le belle doti del Commendone, lo confermò nelle diverse sue missioni, e volle servirsi ordinariamente di lui per la soluzione di conflitti che richiedevano un plenipotenziario molto abile. Lo inviò in qualità di legato in Germania e in Polonia, ove degli scaltri intriganti si lusingavano di avere o di prendere il comando della situazione 6 . 

   Il carattere di questo cardinale era però per molti aspetti diverso da quello di Pio V. Il Commendone era senza dubbio virtuoso, pio, aveva un giudizio chiaro, un animo risoluto che andava sino alle ultime conseguenze delle cose, e nei disegni di riforma della Chiesa dimostrava il suo stesso zelo e il suo stesso amore. Ma se era fermo nell'esigere rispetto per la disciplina e nel rivendicare i diritti della S. Sede, usava nei suoi atti più dolcezza e amabilità. Poeta nei suoi anni giovanili, egli aveva conservato nel tratto una soavità che, senza diminuire la forza di quanto esigeva, gli attirava molte simpatie. Mentre Pio V amava di tenersi, per dir cosi, sulle montagne, il Commendone discendeva volentieri su punte meno alte, cercando i mezzi conciliativi. Del resto, agile e nobile insieme, non restava impigliato in nessun affare, e si trovava a suo agio in tutte le corti, ove, guadagnando sì subito l'affetto dei principi, lasciava alla sua partenza bella fama d'integrità, di abilità e di dignitosa affabilità. 

   E' dovere di giustizia rendere omaggio a questo savio collaboratore di Pio V, e bisogna riconoscere che la diplomazia pontificia ebbe in lui un prezioso ausiliare. Quest'elogio corrisponde alla stima che il Papa aveva di lui. Quando egli ritornava dalle sue delicate missioni, riceveva da Pio V dei grandi onori. Il Pontefice accettava spesso i suoi consigli. 

   Il legato scoprì subito i sentimenti di Massimiliano. Ma, siccome nella Dieta di Asburgo aveva potuto vincere le esitazioni dell'imperatore, preferì credere che fosse sincero, e per il momento non volle richiedere da lui che delle facili assicurazioni.  

   Anche Pio V non s'ingannò su questo repentino cambiamento di Massimiliano; le dispute già avute con lui non facevano che confermarlo nella sua opinione. Giudicò tuttavia più conveniente adottare il metodo di condotta del suo legato, e prestar fede alle dichiarazioni imperiali. 

   Un riavvicinamento tra la S. Sede e l'impero avrebbe imposto soggezione ai popoli agitati dalla Riforma, incusso timore ai principi tedeschi, e sconvolto i loro disegni di una confederazione ostile alla Chiesa. Inoltre, il matrimonio del re di Spagna con la figlia dell'imperatore riannodava i vincoli, alquanto allentati, che univano una volta i due grandi Stati cattolici, e permettevano al Papa di effettuare il più ardente dei suoi sogni, l'assalto generale contro i turchi. Pio V in concistoro notificò al Sacro Collegio le buone notizie ricevute dal Commendone, e disse che in pegno della sua benevolenza concedeva a Filippo Il la dispensa per il matrimonio colla nipote. 

La stessa moderazione lo persuase a non rivendicare gli antichi diritti della Santa Sede sul nuovo ducato di Prussia. 

Si sa che i cavalieri dell'Ordine Teutonico un tempo amministravano quella regione a nome della S. Sede; ma nel 1526 il Gran Maestro Alberto di Brandeburgo rinnegò la fede, dispose a suo piacere dei domini a lui affidati, e, spergiuro ai suoi voti, avendo sposata a Konigsberg la figlia del re di Danimarca, eresse la Prussia in ducato ereditario. Il suo regno sconvolto da civili, contese e dispiaceri domestici ebbe fine nel 1568. 

   Dei sette figli avuti dalla sua prima moglie, sei morirono in tenera età. Dalla sua seconda moglie, principessa di Brunswick, ebbe una figlia cieca e un figlio, Alberto Federico, che spinto dalla sua follia a tavola gettava il vasellame sul viso dei convitati. 

   Con la morte del duca Alberto sembrò giunto il momento propizio, per rimettere la Chiesa in possesso dei suoi privilegi. 

   Alcuni amici fedeli consigliarono il Papa a ricorrere alla mediazione di Massimiliano e del re di Polonia, Sigismondo II Augusto. Ma Pio, che teneva l'occhio rivolto piuttosto agli interessi religiosi, comprese che una vittoria territoriale andava praticamente a discapito spirituale, e sacrificò la sovranità pontificia nella speranza di ricondurre quelle popolazioni traviate in seno alla Chiesa. I suoi rappresentanti, per ordine ricevuto, si contentarono di protestare platonicamente alla Dieta di Lublino contro l'ingiusta spoliazione. 

   Il popolo, che temeva invece un atto energico, ammirò il disinteresse del Papa, e lasciò cadere molti pregiudizi che aveva verso di lui. Questa diplomazia soprannaturale ottenne una ricompensa immediata: la città luterana di Danzica permise il ritorno dei domenicani, che, aiutati ben presto da altri missionari, ottennero in quella provincia molte conversioni.  

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Card. GIORGIO GRENTE 

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