Degli ammirabili e giusti giudizi di Dio, per i quali conviene conformarsi alla sua Santissima volontà.
Questo è negozio di grande importanza, e però voglio inculcar anche più questa conformità con la volontà divina, riducendo a memoria alcuni giusti giudizi di Dio e rare provvidenze, con le quali molti si son salvati e condotti a felicissimo stato, mentre meno lo pensavano. Di modo che quello di che piangevano gli uomini, quello che giudicavano essere peggiore per loro, era quello che per loro era migliore e quello che, se avessero avuto cervello, dovevano maggiormente desiderare. Per il contrario succede ogni giorno, che alcuno procuri di sua propria volontà qualche cosa, che si dà ad intendere sia per lui, ed è invece per rovinarlo, essendo a lui causa di offendere Dio, poiché la sanità, l'onore, la roba, la vita, che più si ama, è stata per alcuni un gran male e una grande disgrazia. Per il contrario è stato per loro gran bene l'infermità, il discredito, la povertà e la medesima morte.
Questo è cosa tanto certa, che, come ho detto, i Gentili stessi la conobbero. Di Pompeo dissero che non mancò, per essere il più fortunato e famoso nel mondo, se non morire dieci anni prima: dimodochè la lunga vita, che egli stimava per grande bene, fu la sua maggior disgrazia e l'occasione di tutte le sue miserie. Per il contrario altri dissero che la maggior ventura di Alessandro Magno fu morire tanto presto; perché se fosse vissuto di più, avrebbe perduta la sua nominanza di grande, preparandosi già contro di lui l'Occidente: dimodochè anche per i beni temporali sogliono essere meglio per noi molte perdite dei medesimi. Insomma quello che Dio ordina, è il più sicuro. Ma veniamo ad altri esempi più chiari. Quel principe di Siria, Naamano, quanto mal volentieri sopportava quell'infermità che Dio gli diede pel bene dell'anima sua e per maggior sanità del suo corpo? Con quanta impazienza? Come si ritrovò per lo sdegno, che si prese della risposta salutevole ricevuta da Eliseo? Soffriva forte di vedersi coperto di lebbra; ma se avesse saputo il bene, che gli doveva portare, non aveva egli, né il re di Siria ricchezza da pagarne la mercede; perché quindi gli venne la salute dell' anima sua, con la cognizione del vero Dio, e una sanità del corpo tanto compita, che venne a rinnovarsi tutto; di maniera che quell'infermità era quello che gli stava meglio e quello che aveva a desiderare per l'anima e per il corpo. Quell'altro paralitico del vangelo stava afflittissimo per il suo male, eppure questo fu una grazia incomparabile, che Dio gli fece; perché per esso ottenne la salute dell'anima e del corpo più compita che mai. O fortunata infermità, poiché per mezzo di essa venne ad acquistare tanto gran ventura di meritare d'udire dalla bocca stessa del Salvatore che gli erano perdonati i peccati: per vero, neppur con duemila anni di infermità, sarebbe stato ricompensato quel bene. E quello fu per salute non solo dell' anima, ma anche del corpo; la quale ricevé dal medesimo Salvatore con tale gagliardia di forze, che se n'andava carico del suo letto, come se nulla portasse. Di più la perdita della roba, che è tanto sentita dagli uomini, a quanti é stata occasione di grandi beni! Dall'esser povera venne a Ruth non solo l'essere più ricca che l'altre del suo stato, ma l'essere della progenie del Messia. E quanto gran ventura fu per gli Apostoli l'esser poveri! perché, se fossero stati molto potenti, non sarebbero stati eletti da Cristo per quella dignità.
Che dirò di Manasse re, il quale perdé non ricchezze di qualsivoglia sorte, ma un regno intero, e non solo il regno, ma quello che più stimano gli uomini, che è la libertà, essendo lui fatto prigione e schiavo de' suoi capitali nemici. Sentiva e piangeva questa calamità; ma essa era quello che solamente era bene per lui e per il quale avrebbe dovuto dar tutti i regni del mondo, perché da ciò dipese la sua salvezza, e quegli che fu un orrendo mostro di peccati, malvagio e maledetto re, quindi riconobbe sé stesso e si mutò in un altro uomo. La perdita dell'onore e della riputazione, la quale è eccessivamente sentita dagli uomini, è ad essi molte volte occasione della loro salute e di altro gran bene e anche del medesimo onore.
Il disonore che ebbe Giuseppe, quando fu preso prigione per giovane lascivo e traditore del suo padrone, pare che era da sentirsi grandemente: ma non v'era cosa che fosse meglio per lui, anche per salire a grandi onori, come con quella occasione giunse ad essere riverito da tutto l'Egitto e ad ottenere molti altri beni, che gliene risultarono. La mancanza adunque della sanità, che tanto dispiace, la perdita della roba, che tanto si piange, la perdita della libertà, che tanto si sente, il discredito dell'onore, che tocca tanto sul vivo, tutto è ordinato da Dio per maggior bene, cioè per maggior sanità, per maggiori ricchezze, per maggior felicità, per maggior onore, e sopratutto per la salvezza dell'anima.
Per il contrario da quello di cui più si rallegrano gli uomini, suole derivare la loro perdizione e infelicità. Tutto glorioso stava Aman per il favore del re e per le ricchezze che possedeva, per l'onore che tutti gli facevano; ma se l'avesse saputo ben conoscere, non vi era cosa, della quale più dovesse piangere e temere che di quelle, perché di là gli venne la perdita di tutto, roba, onore, comando e vita, che finì su di una forca. Chi qui non si meraviglia dei giudizi di Dio? E chi non teme e si riempie di orrore per quello di che si rallegra la sua propria volontà? Ma che dirò di Salomone? La grande gloria e ricchezza, dove giunse, a qual male non l'indussero? La sanità del re Antioco, quando la godeva, che male non gli fece fare? Quanto gli sarebbe stato meglio il non levarsi mai più dal letto in tutta la sua vita?
Ora se é così, come chiaramente é, che i beni di questa vita e quello che più desiderano gli uomini, e di che maggiormente si rallegrano, suol essere quello che é peggio per loro, anche riguardo ai beni medesimi, e per il contrario i mali temporali, che tanto sogliono essere sentiti e deplorati, possono essere quello che é meglio per noi, anche a ottenere beni temporali, che dobbiamo cavare se non una grande indifferenza della nostra volontà, per non volere né questo né quello, per non ricusare più una cosa che un'altra, in quanto tocca a noi; ma lasciar fare a Dio, il quale fa quello che è meglio, quello che vorrà di noi? Dimodochè né desideriamo i beni di questa vita, né ricusiamo i suoi mali; poiché questi si convertono in beni maggiori, e i beni sogliono convertirsi in mali grandi. E che seguirà da questa indifferenza, se non l'avere almeno questo perpetuo bene, di godere gran pace di cuore e grande quiete d'animo; di essere liberi da dispiaceri e malinconie, e sopratutto di meritare assai, con lo stare in questa maniera conformati alla divina volontà? Le cose per sé stesse sono sì uguali per il male e per il bene, che noi non possiamo conoscere quali ci stiano bene e quali male. Dunque in questa confusione, qual rimedio migliore può esservi che fidarsi di chi le conosce bene e ci ama come nostro Dio, padre, sposo, fratello, Redentore?
Noi dobbiamo camminare nelle cose di questo mondo come un cieco, che sta in mezzo di molti precipizi, e teme di cadervi in qualunque parte si volti: questi avrebbe per gran ventura che uno di buona vista lo conducesse per mano. Noi siamo ciechi, e le vie sono piene di pericoli: se Dio ci determina la strada che per noi è sicura, perché non l'abbiamo ad aver caro, carissimo? Perché non gli renderemo grazie? Perché ci volgeremo ad altra parte?
P. EUSEBIO NIEREMBERG, S. J.
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