venerdì 17 giugno 2022

Quali ostacoli impediscano di ricavare tutto il frutto che si dovrebbe dalla devozione al S. Cuore di Gesù

 


LA DIVOZIONE AL S. CUORE DI N. S. GESÙ CRISTO

Siccome la devozione al S. Cuore di Gesù è sommamente utile, facile,  ragionevole e solida, sono poche le persone di soda virtù che non la  gustino, poche che non la pratichino; ma non tutte sentiranno l’amore  ardente verso Gesù né le vere dolcezze che Gesù fa provare a quelli che  l’amano, per quanto questi favori speciali siano frutto della devozione al  S. Cuore di Gesù Cristo. Tutto ciò che impedisce il progresso delle anime  nella perfezione fa da ostacolo alle grazie grandi che questa devozione ci  procura; e questo ostacolo che pochi riescono a superare dissecca, per così  dire, la vena delle grandi grazie e fa sì che Dio si comunichi  confidenzialmente solo a pochi. 

Già da parecchio tempo ci lamentiamo che nelle pratiche di devozione  non si sentano più quelle dolcezze celesti che gustavano i Santi, é che  sebbene non siano proprie della santità, servono però a formare i Santi. 

Non proviamo che aridità, tiepidezza e nausea nelle pratiche di pietà;  nessuna consolazione, nessuna soavità nella preghiera, nessun  ‘sentimento devoto alla Comunione e alla Messa; freddezza e noia in tutto  ciò che dovrebbe formare il nostro piacere più grande e ogni nostra  premura maggiore. 

E allora? 

Cerchiamo di acquietarci con dire che la santità non consiste nella  devozione sensibile. È vero, sì, che si può essere grandi Santi senza la  devozione sensibile, ma fino a tanto che siamo sempre vili e imperfetti, è da  credere che Dio, per punirci della nostra viltà, ci privi delle dolcezze interne  e delle consolazioni spirituali, che pure servirebbero a renderci più  coraggiosi e a portarci a maggior perfezione. 

La via della perfezione non è oggi diversa da quella per cui passarono i  Santi. Tutti infatti confessano che non si può immaginare un diletto più  grande di quello che si sente nel servizio divino, dove si è ricolmati di tanta  soavità da rendere deliziose le fatiche più grandi; che ignorano che cosa sia  la nausea e la malinconia; che ciò che sembra più spaventoso è causa di  una gioia così pura e perfetta, che i casi più sinistri della vita non riescono  a turbarla. Essi accertano che persino le prove più terribili in cui Dio li  mette hanno la loro dolcezza e consolazione, e che soltanto il peccato  potrebbe turbare la pace di cui fruiscono; inoltre che Dio ispira, loro una  fiducia così illimitata nella sua misericordia che nemmeno le loro stesse  mancanze li inquietano. 

Questi sentimenti non sono di alcuni soltanto, ma li hanno provati  tutti i veri Servi di Dio in ogni tempo, età, qualità e d’ogni nazione e  condizione; ciò pure hanno confermato in punto di morte, quando si è più  sinceri. 

Chi potrebbe sospettare che persone sì sagge, persone di probità e di  virtù universalmente conosciuta abbiano voluto ingannarci e si siano esse stesse ingannate? Dinanzi a un numero così prodigioso di testimoni  irreprensibili, che parlano tutti per esperienza e con tanta uniformità per  tanti secoli continui, può un uomo, ancorché fornito di poco ingegno,  dubitare della verità d’un fatto così assodato? Da che viene allora che fra  tante persone che oggi fan professione di pietà e seguono, a quanto pare, le  orme di tutti questi Santi, così poche siano quelle che ricevono le stesse  grazie? Senza dubbio perché pochissime hanno una virtù veramente  temprata. 

La santità non sta nella devozione sensibile, è vero; ma non è men  vero che il gaudio interno e la pace imperturbata ad ogni contingenza della  vita, la sottomissione perfetta alla volontà di Dio e la dolce fiducia nella  misericordia di Lui, il che forma appunto la devozione sensibile, sono state  sempre l’eredità di tutti i Santi e lo sono ancora di tutti i veri servi di Dio.  S’è già visto che la devozione al S. Cuore di Gesù ha vera dolcezza,  ossia che il frutto di questa devozione è l’amore ardentissimo e tenerissimo  verso Gesù, accompagnato dalla gioia interna, dalle consolazioni celesti,  dalle dolcezze, dalla pace inalterabile, superiori ad ogni immaginazione, e  che sono altrettanti doni inseparabili dall’amore perfetto di Gesù. 

Ora dobbiamo spiegare gli ostacoli che ne impediscono il frutto. Essi  possono ridursi a quattro: 1) Grande tiepidezza nel servizio divino; 2) gran  fondo d’amor proprio; 3) superbia segreta; 4) alcune passioni che non si  ebbe cura di mortificare al principio della propria conversione. 

Da questi quattro capi, come da quattro funeste sorgenti, scaturiscono  tutti i difetti e le imperfezioni che ritardano tante anime nel progresso della  pietà, che fanno fallire i disegni più belli e le risoluzioni più generose, che  infine rendono infruttuose le pratiche più sante della devozione. 

 

§ l. La tiepidezza. 

Essendo la devozione al S. Cuore di Gesù una continua pratica  d’amore ardente, è chiaro che la tiepidezza n’è uno degli ostacoli maggiori e  ne impedisce ogni frutto. Benché il Figlio di Dio senta orrore infinito per il  peccato, però non l’ha del peccatore; lo chiama, lo cerca, prova  compassione di lui: ma il Cuore divino non può tollerare l’anima tiepida. 

Dio volesse che voi foste freddi o caldi, ci dice l’amabile Salvatore, ma  siccome siete tiepidi, vi rigetterò dalla mia bocca. Il Cuore di Gesù cerca  delle anime pure e suscettibili dell’amor suo; il S. Cuore è sempre generoso  e vuole anime capaci di ricevere i suoi favori e di giungere al grado di  perfezione a cui le destina: ora questo non si verifica in quell’anima che  vive nella tiepidezza. L’anima tiepida si trova nello stato di cecità causata  dalle passioni che la tiranneggiano, dalla dissipazione continua in cui si  trova, la quale le impedisce, di rientrare in se stessa, dalla moltitudine dei  peccati veniali ch’essa commette, e dalla privazione delle grazie celesti, che  le attira la sua resistenza. 

Questo accecamento conduce alla coscienza falsa, sotto il cui riparo  l’anima, che pure frequenta i Sacramenti, si trattiene per molti anni in  peccati considerevoli, ma che la passione le nasconde o travisa, perché  essa non ha la forza di correggersene. 

Si troveranno qualche volta dei religiosi o dei secolari, che si  professano devoti, nutrire avversioni segrete, gelosie avvelenate, affezioni  pericolose, uno spirito aspro e mormoratore dei loro Superiori, una base  d’amor proprio e di superbia che si riversa su quasi tutte le loro azioni, e  altri simili difetti nei quali se ne stanno tranquilli, persuadendosi  falsamente o sforzandosi di persuadersi che non ci sia troppa colpa in ciò,  e cercando ragioni per scusare dei mancamenti che Dio non cessa di  condannare come peccati gravi, e che essi stessi condanneranno in punto  di morte, quando la passione non impedirà di vedere le cose come sono in  realtà. 

Ciò che rende questo stato anche più pericoloso e costringe Gesù  Cristo a rigettare dal Suo Cuore un’anima tiepida, è ch’essa si trova in  qualche modo disperata, perché la tiepidezza non guarisce quasi mai.  Siccome i peccati commessi da un’anima tiepida non sono quei peccati  grossolani e scandalosi che fanno orrore a chi è alquanto timorato, ma  sono assai spesso puramente interni e non avvengono se non nel cuore,  così sfuggono facilmente alla riflessione d’una coscienza poco sensibile e  all’anima poco attenta a se stessa. Perciò, non conoscendo la gravezza del  suo male, essa non si dà premura di rimediarvi, mentre un gran peccatore,  che facilmente comprende i suoi disordini, è più in grado d’esserne tocco e  di sentirne orrore. In questo senso N. S. dice ch’è più preferibile esser  freddo che tiepido. 

Le pratiche di devozione più solide sono inutili per un’anima che si  trova in questo stato infelice, sia che il poco profitto che ricava dai più  santi esercizi di pietà le tolga il desiderio di servirsene, sia che avendo fatto  il callo a questi, ne sia meno impressionata; e intanto le grandi e terribili  verità della fede, che stupiscono con la loro novità e scuotono con la loro  efficacia i peccatori più grandi, non impressionano quasi più il suo spirito,  perché essa n’è stata tanto spesso e inutilmente colpita. 

Non appena si cade nella tiepidezza non si pensa ad altro che a se  stesso, si è in continua ricerca di ciò che reca piacere, nasce una  delicatezza che si raffina talvolta sulle persone più sensuali, un amor  proprio che, non essendo indebolito dagli oggetti estranei, è tanto più forte,  in quanto si rinchiude in se stesso e si applica interamente  nell’immaginazione d’una vita comoda e tranquilla. 

Facilmente si scorge che un’anima in questo stato, insensibile alle  verità più terribili della salute eterna, lo è ancor più alle dimostrazioni  manifeste dell’amore che Gesù ha per noi, è troppo lontana dalle  disposizioni necessarie alla devozione del S. Cuore di Gesù per ricavarne  profitto. 

I segni per poter conoscere se siamo in questo pericoloso stato di  tiepidezza, sono gli effetti ordinari che esso produce in un’anima tiepida: 1)  Grande negligenza, in tutti gli esercizi spirituali, disattenzione nelle  preghiere, confessioni senza emenda, Comunioni senza preparazione,  fervore e frutto. 2) Dissipazione continua dello spirito quasi mai attento a  sé e a Dio, ma diffuso indifferentemente su ogni sorta d’oggetti e occupato  in mille inezie; 3) Brutta abitudine di compiere le azioni senza nessuno  spirito interno, ma per capriccio o per abitudine, quasi nessuna facendone in cui non vi abbiano parte la passione, l’amor proprio e il rispetto umano;  4) Pigrizia nell’acquisto delle virtù del proprio stato; 5) Disgusto delle cose  spirituali, e sopratutto indifferenza per le grandi virtù. 

Il giogo di Gesù Cristo comincia a sembrare pesante, gli esercizi di  pietà si fanno gravosi, le massime del Vangelo su l’odio di se stessi,  sull’amore della Croce e delle umiliazioni, sulla necessità di farsi violenza,  di camminare per la via stretta, sembrano inconcepibili. Si trova  insopportabile l’esercizio continuo della modestia, della mortificazione, del  raccoglimento interno; infelice la vita delle persone solidamente virtuose,  quasi insopportabile la pratica della virtù. 

Un sesto effetto della tiepidezza consiste in una coscienza insensibile  alle piccole cose; non ci si commuove più per le infedeltà ordinarie né per le  ricadute e ci si lascia andare facilmente a commettere ogni sorta di peccati  veniali a occhi aperti e deliberatamente. 

Ma quanto è da temere che questo difetto di delicatezza di coscienza,  questa facilità a ricadere sempre negli stessi peccati e a confessarsene  senza mai correggersi, questa negligenza, disprezzo delle cose piccole,  indifferenza per le grandi virtù, incostanza negli esercizi di pietà, questo  ondeggiare perpetuo tra il fervore e il rilassamento, non siano chiari segni  d’una fede morente, d’una carità quasi estinta! Quanto è da temere che  questo stato infelice di tiepidezza non ci conduca a poco a poco a quello  dell’indurimento e dell’insensibilità! 

Questo stato infelice è tanto più pericoloso quanto meno si conosce e  non se ne temono affatto le conseguenze funeste; eppure non c’è nulla di  più ordinario. Così chi non sentirà la dolcezza della devozione al Sacro  Cuore di Gesù, chi praticandola non ne caverà frutto alcuno, ha gran  motivo di temere che non sia proprio questo l’ostacolo che causa loro tale  disgusto e impedisca loro di far profitto nei più santi esercizi di pietà. 

Siccome la causa funesta di questo infelice stato di tiepidezza deriva di  solito da un gran fondo d’amor proprio, il mezzo che daremo nel capitolo  seguente per soffocarlo o almeno per mortificarlo, servirà di rimedio  all’anima tiepida, perché la vera mortificazione è inseparabile dal fervore. 

Ciò che abbiamo detto intorno alla tiepidezza è stato cavato in parte  dal «Ritiro Spirituale» secondo lo spirito e il metodo dì S. Ignazio, scritto dal P.  Nepveu d. C. di G., a cui fa a proposito aggiungere queste riflessioni, 

1) E’ strano che ci siano persone religiose le quali dopo esse state così  generose da abbandonare cose tanto grandi per Iddio, preferiscono in  Religione privarsi delle grazie più grandi di Dio, anziché lasciare certe  coserelle che le arrestano e le fanno strisciare per tutta la vita sulla via  della pietà, impedendo loro di gustare la gioia e le dolcezze ineffabili che  godono quelli i quali servono Dio con fervore.  

2) Non è meno strano che persone le quali hanno compiuto grandi  sacrifici per assicurarsi la salute eterna e meritarsi una morte dolce e  tranquilla, per mancanza di un po’ di generosità muoiano piene di  rincrescimento e di turbamento, dopo avere avuto per molto tempo il  timore della morte. 

3) Che cos’è che ci arresta? Non è possibile che nella Religione non si  abbiano spesso buoni desideri, ma stupisce che non si mettano in  esecuzione per non so quale pusillanimità di cui le persone secolari non ci  crederebbero capaci. Noi avevamo talvolta cominciato sì bene a servire  Iddio; pretendevamo allora d’ingannare gli uomini? Se Dio era veramente il  motivo della nostra conversione, perché, rimanendo lo stesso motivo, non  siamo noi perseveranti?  

4) In verità: o i Santi hanno fatto troppo, o noi non facciamo  abbastanza per diventar santi. Ma, si dirà, per vivere come vissero i santi  bisognerebbe, essere santi. Piuttosto diciamo: bisogna farsi santi, e  solamente come son vissuti i Santi si può sperare di esserlo.  

5) Per ammassare dei beni che lasceremo agli altri, non ci sembra mai  troppo o troppo lungo il tempo che lavoriamo; così per acquistarci fama nel  mondo: e per il cielo, per la felicità eterna crediamo d’aver sempre tempo  che basti. Un bel carattere, si dice, un bell’ingegno, una persona di buone  disposizioni non può risolversi a menare vita perfetta. E da quando in qua  le più belle doti naturali, che pure sono sempre state di grande aiuto per  giungere alla virtù più sublime, sono diventate un ostacolo alla santità?  

6) È un grande errore il supporre che ci sia una età o uno stato che  sia poco adatto per la virtù più sublime. Ma che diranno costoro quando si  mostri loro una moltitudine di Santi d’ogni età e condizione, che si son fatti  grandi Santi in ogni stato, in qualsiasi impiego? Né soltanto l’esempio di  questi ci sarà di condanna un giorno, ma ci condanneremo noi stessi; e  mentre noi pretenderemo di scusare la nostra tiepidezza e la nostra viltà  con la scusa della nostra condizione, età ed impieghi, ci si farà vedere che  in quella stessa età, in quegli stessi impieghi, in quella stessa condizione,  abbiamo avuto più a soffrire e ci siamo affaticati per il mondo più di quello  che Dio richiedeva da noi per il Cielo.  

7) Non c’è nessuno sì stolto che osi dire o voglia far credere che, dopo  avere speso dieci anni nello studio delle scienze umane, si stimerebbe felice  di saper tanto, quanto aveva imparato nei primi sei mesi che s’era messo a  studiare: eppure ci sono persone che fanno professione di vita devota, cioè  che si propongono come scopo principale di arrivare alla perfezione, le  quali dopo dieci o venti anni di studio e di pratica della sublime scienza  della salute, non si vergognano di dire, né rincresce loro che si creda, che  esse sarebbero davvero felici se avessero quel fervore, quella mortificazione  e quella santità che avevano sei mesi dopo la loro perfetta conversione a  Dio. 

È vero che esse procurano di stordirsi, per dir così, con la dissipazione  al di fuori e coi piaceri insipidi di una vita infingarda, ma presto o tardi  arriveranno alla morte, e quali saranno i loro sentimenti in quel punto?  

8) Siamo noi persuasi davvero delle grandi verità della nostra  Religione? Se non crediamo, facciamo anche troppo, ma se crediamo non  facciamo certo quanto basta. 

Di che si tratta dunque? 

Si parla tanto di salvezza, di anima, d’eternità. È poi vero che io sono  al mondo per salvarmi? È poi vero che Gesù s’è fatto uomo solo perché  questo deve essere di tutti gli uomini l’unico negozio, che solo meriti la  nostra attività, che solo la richieda interamente e che solo da essa  dipenda? È vero che perduto questo, è perduto tutto; che tutto si rischia se  ci mettiamo in pericolo di non riuscire in esso, e, che se si vive nella  tiepidezza ci mettiamo quasi nella necessità di non riuscire? Non è forse  vero che qui si tratta dell’eternità?Non si sarà ingannato Dio quando ci  disse che tutto il resto non conta nulla?, Avrebbe forse Dio male impiegato  le sue cure e la sua provvidenza, riferendo tutto a ciò? Vale tanto poco Dio,  che pure comprende ed è in tutte le cose, da esserci tanto indifferente il  perderlo? Perché tanti pianti, perché tanti e sì crudeli pentimenti  nell’inferno, se il bene che i dannati hanno perduto meritava sì poco  d’essere cercato? E perché quel fremito al solo pensiero dell’eternità, se è  cosa da poco essere eternamente infelice? 

Ma la temiamo molto questa infelicità, mentre ci diamo poco pensiero  d’evitarla, e vivendo in quella tiepidezza e indifferenza in cui stiamo, si  chiama forse pigliarsene molto fastidio?  

9) Se avessimo cura di fare spesso tali riflessioni, ci vergogneremmo di  vivere tiepidamente, d’essere negligenti nel servizio di Dio, e prenderemmo  subito la risoluzione d’amare Gesù. Ma purtroppo! Le facciamo queste  riflessioni, ci commuovono, e dopo poco cerchiamo di distrarci, quasi  infastiditi della nostra cognizione e commozione, simili, come dice  S. Giacomo, a quell’uomo che getta gli occhi sul suo viso naturale, che vede  riflesso nello specchio, e dopo averlo guardato se ne va e subito dimentica  come egli era. (Jac. 1, 23). 

 

§ 2. L’amor proprio. 

Purtroppo è vero che sono poche le persone che non agiscano per  amor proprio, e la sola differenza tra le persone spirituali e quelle che non  lo sono sta in ciò, che in queste l’amor proprio opera senza maschera, e in  quelle è meno visibile e più mascherato. Chi volesse prendersi il fastidio di  riflettere sui veri motivi della maggior parte delle azioni che sembrano  meno difettose, vi scoprirebbe cento giri e rigiri dell’amor proprio che ne  ostacola tutto il frutto, essendone egli il motivo più potente. 

Di tutte le pratiche della virtù, non piacciono né si approvano se non  quelle che fanno comodo. Il pretesto specioso di conservarsi la salute, che  si crede sempre necessarissima per la gloria di Dio, ingombra la mente di  mille cure. Ci custodiamo, ci abbiamo riguardo, e quasi ogni mortificazione  ci sembra o indiscreta o poco adatta alla nostra età o condizione. 

Prendiamo per illusioni i pensieri e i desideri che Dio ci manda di  tanto in tanto, di attendere seriamente alla perfezione, e procuriamo di  persuaderci che Dio non richieda da noi tanta santità, ancorché ci abbia  fatto grandissime grazie o ci abbia posti in una vita che non richiede se  non grandi Santi. Ci lusinghiamo di possedere un vero desiderio di lasciar  tutto e di intraprendere tutto, non appena ci sarà manifesta la volontà di  Dio: e Dio ha un bel picchiare in fondo al nostro cuore con le sue ispirazioni, e invano Dio parla per bocca d’un Direttore, d’un Padre  spirituale, per mezzo delle riflessioni che facciamo, dei lumi che riceviamo,  degli esempi che vediamo e che lodiamo noi stessi. Non si conosce la voce,  di Dio quando è contraria all’amor proprio, perché la verità è che, non la  volontà di Dio prendiamo per regola della nostra condotta, ma la nostra  inclinazione e l’amor proprio vogliamo che siano la regola della volontà dì  Dio. 

Da che deriva che ci sono tante persone che non sono mai più  inquiete, malinconiche, sensibili, mai di umore più cattivo che quando  sono più raccolte, e sembrano più occupate a rendersi perfette? Ciò che le  tiene inquiete sono i lumi che ricevono nell’orazione e le ispirazioni che Dio  manda loro, perché non s’accordano coll’amor proprio di cui sono piene. 

A quanto pare esse vorrebbero, per potersi applicare con serietà a  santificarsi, che la via della perfezione non avesse nessuna difficoltà,  oppure che Dio le ricolmasse di dolcezze e di consolazioni interne prima  ancora di aver fatto il primo passo nella via della perfezione. Intanto  siccome la vita di tali persone si mostra ben regolata e la loro condotta  irreprensibile, esse hanno la disgrazia di andar sempre strisciando e di  languire in questo stato, senza mai correggersi di un solo difetto. 

Per noi forse sarebbe più utile esser privi affatto di certe virtù, con le  quali ci aduliamo; ché almeno riconosceremmo la nostra povertà e miseria;  ma quel po’ che ne possediamo non giova ad altro che a renderci ogni  giorno più imperfetti. 

Ci contentiamo d’un’esteriorità composta, d’una modestia naturale o  finta, d’una virtù apparente, ch’è piuttosto frutto d’educazione anziché di  grazia; e poiché ci vediamo al sicuro da quei rimproveri che si tirano  addosso i meno regolati nella vita, ci pare d’aver molta virtù, perché  nascondiamo parecchi difetti. 

Ci facciamo dunque una devozione secondo l’umore, il carattere e il  capriccio nostro. E si trovano troppi Direttori deboli e compiacenti che  approvano questo sistema, sul quale gira tutta la vita; ed ecco perché ci si  rende insensibili agli esempi, alle riflessioni e alle verità che commuovono i  peccatori più grandi. Non è da meravigliarsi se, pieni d’amor proprio, si  cercano dappertutto i propri comoducci, né si vuol mancare di nulla col  pretesto d’essere pronti a lasciar tutto; e se pure qualche cosa si lascia, lo  facciamo il più delle volte per ingannare noi stessi con questa pretesa  mortificazione, e per godere tranquillamente cento altre cose che ci stanno  più a cuore e di cui non vogliamo privarci. 

Non si agisce il più delle volte che per sentimento e inclinazione, solo  affezionati a quelli verso cui si prova simpatia, e nulla rifiutando ai sensi, o  se si mortificano in qualche cosa, è solo in quelle che recano meno fastidio,  oppure quando la mortificazione ci porta qualche onore. Vogliamo compiere  opere buone, ma con la soddisfazione della scelta di quelle che faremo.  Quindi viene che dei minimi obblighi, impostici dal nostro stato, sentiamo  disgusto, mentre ci attirano tanto quelle occupazioni più penose, che sono  di nostra scelta o ci pongono nella necessità di esimerci dagli obblighi più  ordinari del nostro stato. Consideriamo l’infermità negli altri come una  Prova, come un dono di Dio; ma non appena Dio ci fa questo dono, eccoci  inquieti, malinconici, impazienti e ansiosi: non è che la malattia ci renda  tali, ma è che in essa noi ci mostriamo veramente quel che siamo, perché ci mancano i motivi e i mezzi che ci dava la salute, per dissimulare il nostro  amor proprio. 

Dalla stessa sorgente, cioè dall’amor proprio, hanno origine i desideri  sterili e i disegni chimerici di cui si pasce uno spirito naturalmente  orgoglioso, e di cui si nutre l’amor proprio. Infatti ci proponiamo dei metodi  di vita che si vorrebbero mettere in pratica in certe occasioni, e poi come se  avessimo assicurato la nostra conversione e la nostra santità, non ci diamo  più pensiero di emendarci delle imperfezioni. Persuasi inoltre che per farsi  Santi è assolutamente necessaria la mortificazione, rigettiamo le croci che  ci si offrono con la scusa che son troppo piccole, ma in verità perché son  troppo vicine, e aneliamo alle croci più grandi solo perché le vediamo più  lontane. 

Ci nutriamo intanto di vane fantasie, riposiamo su questa esteriorità  composta, sulle buone opere che ci piacciono e nelle pratiche di devozione  in cui siamo esattissimi; e come ebbri di lodi vane e insipide fatteci dagli  adulatori, pieni il capo di una virtù di cui non abbiamo che il nome, alla  fine di una lunga vita ci troviamo senza merito, e spesso con non altro  sentimento che d’un vano e sterile desiderio d’essere anche allora quegli  uomini dabbene, ch’eravamo quando incominciò la nostra conversione.  

Ecco le conseguenze dell’amor proprio dalle quali sì pochi vanno  esenti. Quanto siamo da compiangere che alleviamo un nemico tanto più  pericoloso, quanto è più sottile, e di cui meno diffidiamo! 

Ora è chiaro che Gesù Cristo non riconoscerà mai per veri amici del  suo Cuore quelli che amano solo i propri comodi, e che, non amando che  se stessi, sono tentennanti a occuparsi per lui. Ciò Egli ha detto  espressamente delineando il carattere dei suoi veri servi: — Invano, Egli  dice, uno si crederà d’essere mio discepolo perché ha lasciato per amor mio  i beni, i parenti e gli amici, se non rinunzia anche a se stesso, adhuc autem  et animam suam. Bisogna farsi violenza, combattere le passioni, soffocare o  almeno mortificare in tutto l’amor proprio, se si vuole, essere davvero suoi  discepoli. 

Non c’è vero amore di Gesù dove non c’è vera mortificazione. 

 

3. La superbia segreta. 

La superbia segreta non è ostacolo minore all’amore di Gesù, anzi  sembra che non vi sia ostacolo più grande per la nostra perfezione, e  quindi all’amore ardente verso Gesù Cristo, quanto lo spirito di vanità, da  cui pochi si guardano. Con la pratica della virtù si superano e  indeboliscono tutti gli altri nemici, ma questo s’irrobustisce con quella. Le  nostre stesse vittorie diventano armi di cui si serve il demonio per  superarci, prendendo occasione da esse per ispirarci l’orgoglio. Si può dire  che fra tanti vizi non ce n’è nessuno che più di questo abbia ritardato tante  anime nella via della perfezione più alta, e le abbia fatte precipitare nella  tiepidezza e fino nel disordine. 

Da questo spirito di vanità nasce il desiderio smoderato di far bella  comparsa e la smania eccessiva di riuscire in tutto ciò che si fa. Invano ci tormentiamo l’anima per trovare ragioni che, nel far ciò, noi non vogliamo  se non la gloria di Dio; basta ascoltare la coscienza per capire che noi  cerchiamo soltanto la gloria nostra. 

L’inquietudine smisurata che ci fa temere di non riuscire, la tristezza e  lo scoraggiamento che ci prendono dopo un insuccesso, la gioia e la  dilatazione di cuore che sentiamo per l’onore e per le lodi che ci fanno, son  tutte prove evidenti dello spirito di vanità che ci muove. Esso s’insinua  perfino nell’esercizio delle maggiori virtù. Vogliamo essere mortificati in  sommo grado, vogliamo essere cortesi, onesti, educati, caritatevoli, ma è  molto utile per l’edificazione del prossimo, si dice, che si comparisca tali.  Dalla medesima origine scaturiscono anche tutti gli altri difetti. A poco  a poco ci riempiamo la testa della persuasione d’un preteso merito che non  abbiamo, che se l’avessimo davvero ce lo farebbe perdere la sola idea  d’averlo. Ci piace raccontare le nostre avventure, c’è sempre un episodio  della nostra vita da portare come esempio nell’argomento che stiamo  trattando, e quasi si direbbe che non sia più difetto quel lodarsi  continuamente quando si è conseguita la fama di uomo dabbene. Si vuole  avere la stima e il cuore di tutti, e per questo si preferisce esimersi dai  propri doveri anziché disgustare alcuno e, cosa ancora più strana, si vuole  coprire questa ambizione e vanità col manto specioso dell’onestà, della  carità, della condiscendenza, persuadendosi vanamente che per rendere  agli altri la virtù meno difficile, bisogna fare così. 

Eh, via! La vera pietà ha bisogno di fondare la sua amabilità sulle  mancanze e sui difetti altrui? Insomma si vuol piacere a Dio e agli uomini,  e perciò appunto assai spesso non si piace agli uomini e si dispiace a Dio.  

Hanno la stessa origine la delicatezza in fatto d’onore, i piccoli  raffreddamenti nell’amicizia, le amarezze tanto vicine all’invidia (se pure  non ne hanno affatto la malizia), la pena segreta causata dai buoni  successi altrui. Si trova sempre qualche motivo a cui attribuire la causa  maggiore dei buoni successi. Si cerca di sminuirli, se ne parla  freddamente, si trovano noiosi o adulatori quelli che ne parlano elogiandoli. 

Da che deriva tutto ciò? 

Dall’esser noi pieni di vanità e di superbia. 

Siamo sensibili alla minima parola incivile; al minimo sospetto di  disprezzo crediamo di poterci dispensare dall’usare verso gli altri i doveri  dell’educazione, mentre non perdoniamo loro se mancano a quelli elle  pretendiamo ci debbano avere. E con illusione anche più ridicola,  c’immaginiamo che sia onore di Dio, a cui serviamo, e della virtù sublime,  che ci lusinghiamo d’avere, se mettiamo in mostra davanti a tutti l’ingegno,  i talenti, le nostre belle doti naturali e soprannaturali: e se qualcuno poi  non ci stima né venera quanto ci si attendeva, non basta questo talvolta a  farci subito credere elle quello è un imperfetto, un libertino, che non sa  apprezzare affatto il merito né stimare le virtù? 

E questi non sono ancora tutti gli effetti di tale segreta ambizione: si  vuole il grido, gli applausi, le lodi per ciò che si compie. Ne vedrete alcuni  che si affaticano molto per Iddio, ma non fanno che narrarvi quanto  lavorino: sono sempre in pena, sempre frettolosi, stanchi, oppressi, si  direbbe che invitino tutti ad aver compassione di loro nelle loro fatiche. 

Il vero è che la vanità ha gran parte nelle loro pene: si credono  importantissimi e necessari nella società, e per tali vogliono ben passare.  L’orgoglio si insinua persino nelle cose più umili. 

Talvolta amiamo distinguerci nella pratica di certe virtù e anche in  quella delle opere buone, ma non ci sarebbe pericolo che ci affanniamo più  per vanità che per gloria di Dio? 

Infine, la tristezza eccessiva e lo scoraggiamento che si provano dopo  qualche recidiva nei nostri primi mancamenti, non possono essere mai  conseguenza di coscienza delicata, come credono alcuni, ma solo di  superbia segreta che ci fa credere d’essere più santi di quel che siamo  realmente.  

Insomma passiamo per persone spirituali e tali ci crediamo, ma non ci  regoliamo se non con la prudenza umana palliata sotto il nome di buon  senso, e tutto riferiamo alla regola di questo preteso buon senso, che ci  siamo fatta, per ingannarci senza scrupolo. 

Secondo questa falsa regola pure giudichiamo le cose spirituali, le  operazioni divine e le meraviglie della grazia, approvando solo ciò che fa  comodo al nostro capriccio. Ci serviamo delle grazie di Dio in noi e negli  altri secondo le massime della saggezza umana, e per accecamento strano,  ch’è il castigo delle anime superbe, crediamo appunto di seguire la ragione  e il buon senso, quando più ci allontaniamo dallo spirito di Dio. 

E con tutto ciò ci meravigliamo d’esser privi di consolazioni spirituali,  di sentimenti devoti, dopo dieci o venti anni trascorsi nell’esercizio della  virtù e nella pratica delle opere buone. Ci si lamenta di non progredire  affatto, d’essere sempre ancora imperfetti, che l’uso frequente dei  sacramenti è senza frutto, che s’ignora che cosa sia la devozione sensibile.  La superbia segreta, covata in fondo al cuore, inaridisce, per così dire,  la sorgente delle grazie maggiori, e fa che persone in apparenza tanto  sagge, regolari e riservate, che sono vissute tanto onoratamente e sono  state presentate come l’ideale di quelli chiamati ricchi nel mondo, viri  divitiarum, e che secondo tutti gl’indizi dovrebbero essere cariche di  ricchezze spirituali, queste persone, dico, si trovano in punto di morte con  le mani vuole di opere buone, perché l’amor proprio, l’ambizioncella, la  superbia segreta hanno rapito tutto o tutto corrotto. 

È questo il verme che fa seccare le querce più alte, il lievito che prima  o poi corrompe tutta la massa o almeno la gonfia e riempie di vento. 

È evidente dunque che l’amore di Gesù non può stare insieme con un  vizio a lui tanto opposto. E come potrebbe il Salvatore divino, che volle che  la prima beatitudine, cioè il fondamento della vita spirituale e il primo  passo da muovere nella via della virtù, fosse lo spirito d’umiltà, ch’egli  scelse a preferenza su tutte le altre per farne il suo proprio distintivo, come  potrebbe, ripeto, essere amato molto da quelli che lo somigliano si poco?  L’umiltà sincera di spirito e di cuore costituisce il segno distintivo di  Gesù Cristo: è dunque impossibile essere animati dal Suo Spirito e abitare  nel suo Cuore se non si possiede questo vero spirito di umiltà. 

 

§ 4. Le passioni immortificate.

Il quarto impedimento o la quarta sorgente da cui sgorgano i difetti  che impediscono o soffocano l’amore di Gesù Cristo, e quindi la devozione  al suo S. Cuore, sono certe passioni immortificate a cui si ebbe riguardo, e  che presto o tardi diventano la causa funesta di qualche grande disgrazia.  La maggior parte di quelli che vogliono darsi a Dio e perciò proclamano  guerra mortale a tutti i vizi, si regolano in questa, guerra presso a poco  come Saul in quella ch’egli intraprese per ordine di Dio contro Amalec4. Dio  gli aveva comandato di sterminare tutti gli Amaleciti e di annientare tutto  ciò che loro apparteneva, senza risparmiare nulla. Saul distrusse quel  popolo, ma, mosso a compassione, graziò il re e mise da parte per il  sacrificio tutte le cose più preziose trovate sul campo5. 

Questa disubbidienza però gli tolse il regno e fu causa della sua  riprovazione e della stia rovina: Pro eo ergo abiecit te Dominus ne sis rex6.  Parecchi seguono l’esempio di Saul nella guerra che combattono  contro i vizi; Dio non voglia che facciano la stessa fine! 

Siamo certo persuasi che Dio richieda da noi il sacrificio completo  delle nostre passioni, e ch’Egli non può tollerare che si risparmi alcun  vizio: in apparenza obbediamo, mettendo a morte, per dir così, tutti i nostri  nemici; ma c’è qualche passioncella predominante che viene risparmiata,  qualche cosettina più cara che non si tocca, e per ingannarci senza  scrupolo, sempre per motivo buono, si lascia dentro il cuore un rifugio a  qualche nemico. Soffochiamo, sì, in noi lo spirito mondano, ma ci piace  vederlo vivere nei figli; portiamo indosso abiti assai modesti, ma vogliamo  che la figlia faccia sempre bella figura con abiti sontuosi; si lascia il giuoco,  ma non le combriccole; freniamo gli scatti d’ira, ma lasciamo vivere  l’ambizione segreta e non so quale gelosia nascosta, che non sappiamo  risolverci a distruggere interamente; mortifichiamo quella continua  divagazione esterna, quel tono mondano che stona tanto in quelli che si  professano amanti di Gesù Cristo, ma conserviamo la libertà di trascorrere  ore ed ore in visite e conversazioni inutili. 

Con questa bella scusa, che bisogna farsi benvolere da ognuno per  guadagnarlo a Gesù Cristo, che la virtù deve rendersi dolce, amabile, grata,  diventiamo a poco a poco come tutti gli altri, e della virtù non resta che il  nome, la vana idea e l’apparenza. 

Ci sono altri di cuore più generoso che infrangono i forti legami che li  tenevano attaccati al mondo, abbandonano i parenti e i beni, rinunziano  anche in qualche modo alla loro libertà, sottomettendosi al giogo  dell’ubbidienza religiosa, ma intanto non si danno affatto pensiero di  rompere i lacci più piccoli, vale a dire di disfarsi di mille piccoli  attaccamenti che non lasciano di inceppare e di ritardare il loro progresso  nella via della perfezione. E che fa se i lacci che ci uniscono alle creature  son piccoli, quando sono tanti e tanti? Ne basta uno solo, per quanto  piccolo, a impedire, se non si vuole romperlo, che si faccia un sol passo  innanzi.  

Finalmente ci sono alcuni abbastanza generosi, risoluti a vincere tutto  e fanno anche degli sforzi, ma non vogliono toccare il loro carattere o  qualche difetto che più s’adatta alla loro inclinazione. E questo solo nemico  risparmiato, questa sola passione non mortificata, questo solo difetto non  corretto, questo solo legame non infranto, li fanno andare strisciando per  tutta la vita e impediscono loro di giungere a quell’alta perfezione a cui  furono chiamati. 

Pro eo ergo abiecit te Dominus ne sis rex. 

Basta una piccola falla ad affondare una nave e col tempo a far cadere  il più bel palazzo; basta una scintilla a provocare un grande incendio;  spesso la morte è conseguenza di una leggera malattia trascurata, e  finalmente sarà sempre vero che a screditare un quadro, per altro ben  dipinto, basta una cattiva pennellata. 

Talvolta ci si meraviglia di trovare persone invecchiate negli esercizi di  pietà, persone di spiritualità consumata, mortificate al massimo grado, e  tuttavia hanno delle grandissime imperfezioni che esse stesse rimproverano  negli altri e di cui però non si correggeranno mai. È perché si rendono  familiari, per dir così, coi loro difetti, li risparmiano fin dalla giovinezza,  lasciano che operi il loro carattere, si fanno facilmente trasportare. Di  continuo si lodano da se stesse sempre per motivo buono e con qualunque  pretesto. Trascurano insomma di divenire perfette in gioventù e si trovano  imperfettissime nella vecchiaia.  

Ecco i grandi impedimenti del puro amore di Gesù Cristo e quindi  della devozione al S. Cuore di Lui. Ecco le origini di tante imperfezioni che  purtroppo si scoprono nelle persone d’apparenza più spirituali;  imperfezioni che però fanno grandissimo torto alla vera pietà, perché  producono una falsa idea della devozione. La pietà solida condanna per  tutto questi difetti; il vero amore di Gesù non tollera affatto le imperfezioni,  la superbia segreta e l’amor proprio, tre sorgenti nefaste, i cui effetti non si  trovano in chi possiede questo vero amore. Frattanto senza il puro e vero  amore di Gesù non si dà devozione soda né virtù perfetta. 

Gridava un gran servo di Dio: «Dio mio, che disordine, che rivoluzione!  Ora siamo allegri, ora tristi; ora cortesi con tutti, domani come tanti ricci  che non si possono toccare senza pungersi. Questo è segno evidente di  poca virtù e che la natura ancora domina in noi, che le nostre passioni non  sono affatto mortificate, perché l’uomo veramente virtuoso è sempre  uguale. Non c’ è pericolo che se per caso noi facciamo del bene non sia  piuttosto per temperamento che per virtù?». 

P. GIOVANNI CROISET S.J.

Nessun commento:

Posta un commento