sabato 2 maggio 2020

IL MITO “Don Milani”



La scuola popolare “a-religiosa e a-politica” come funzionava? Che scopi si poneva e con quali metodi? Lasciamo la parola a don Milani:

«L’esperienza fatta nella Scuola Popolare ci dice che quando un giovane operaio o contadino ha raggiunto un sufficiente livello di istruzione civile, non occorre fargli lezione di religione per assicurargli l’istruzione religiosa»18

I metodi di insegnamento erano:


«Io, a scuola, sputtàno sempre tutto quello che mi passa per il capo, senza badare se c’é presenti vecchi o bambini, DC o PC»19.



In altro luogo ribadisce: «Coi ragazzi, dunque, che da sei anni frequentano ogni sera la nostra scuola popolare, io posso benissimo permettermi di dire le cose più sporche ed eretiche, perché la conoscenza fatta in sei anni della mia fede e ortodossia non si disfa in una sera. Chi mi ha conosciuto cattolico (...) se mi vede eliminare un crocifisso, non mi darà mai dell’eretico, ma si porrà piuttosto la domanda affettuosa del come questo atto debba essere cattolicissimamente interpretato cattolico»20.


Per l’avversione al Crocifisso e al suo dovere di insegnare religione, don Milani era stato punito dal card. Elia Dalla Costa con una “vacanza” in Germania. Don Milani non negava il fatto, ma adduceva i “suoi” risultati: «Il numero dei giovani che frequentano i Sacramenti e il loro venirci da sè, senza organizzazione né invito né occasione festiva o periodica, prova che l’influenza della scuola é stata profondamente religiosa anche senza quel contorno esteriore (cioé il Crocifisso)»21

Per don Milani non ci si deve preoccupare troppo dell’insegnamento religioso, perché é tanto difficile che uno cerchi Dio se non ha sete di conoscere. Egli afferma: 

«In sette anni di scuola popolare, non ho mai giudicato che ci fosse bisogno di farci anche la dottrina. E neanche mi sono preoccupato di far discorsi particolarmente pii o edificanti»22.

Per quanto si riferisce al proprio apostolato, confessa di non fare «Con convinzione altro che la scuola». E ne dice il perché: «Non é che io abbia della cultura una fiducia magica, come se fosse una ricetta infallibile, come se i professori universitari fossero automaticamente tutti più cristiani e avessero il Paradiso assicurato, mentre il paradiso fosse precluso agli indotti pecorai di questi monti. È che, i professori, che vogliono, possono prendere in mano un vangelo o un Catechismo, leggerli e intendere. Dopo, poi, potranno fare il diavolo che vorranno: buttarli dalla finestra o metterseli in cuore; s’arrangino, se sceglieranno male sarà peggio per loro»23.


Per fare scuola, dice don Milani, non ci si deve preoccupare di “come farla” ma di “come bisogna essere” per far-la. A scanso di equivoci specifica: 

«bisogna aver le idee chiare in fatto di problemi sociali e politici. Non bisogna essere interclassisti, ma schierati»24.

Bisogna saper toccare l’amor proprio degli operai, bisogna saper stimare e vedere «Splendere su di loro e sulla loro classe, come tale, una vocazione storica di classe-guida, che proviene direttamente da Dio e che a Dio li condurrà»25.

I nuovi preti dovranno “impegnarsi”, a tempo pieno, “a difesa della conculcata dignità umana” dei lavoratori, per colpire “al cuore le cause e le premesse” che hanno generato la loro schiavitù26. Sopra di loro dovrà pesare «L’imperativo morale di non partecipare alla responsabilità di un sistema sociale che é riuscito ad ammantare d’orpello democratico lo schiavismo di un tempo».

Per don Milani, “la chiave di volta dell’intera lotta sociale” sarebbe “la lotta sindacale”. Secondo don Milani, da un prete che fa dello sciopero l’arma migliore del proprio apostolato e che si libera della cultura sbagliata, che gli ha dato la Chiesa, facendolo allontanare dai poveri; da questo prete, gli operai “son disposti ad accettare di tutto”: a ritornare alla Chiesa e soprattutto arrendersi “nelle mani del loro prete per lasciarsi costruire da lui”27. Questo sarebbe il segreto della scuola a-confessionale che don Milani propone per avvicinare “i lontani” e per convertire i comunisti. In altri termini, il prete per convertire i comunisti dovrebbe convertirsi al comunismo! E guai a non pensarla come lui! In una sua stupefacente dichiarazione, infatti, afferma: 

«Se qualche professore storce il naso, gli diremo che amava i signorini della media di ieri, che hanno la cultura come privilegio di pochi; gli diremo che stia attento, perché quando andremo al Governo, quelli come lui li manderemo in Siberia»28.


Mentre per il card. Elia Dalla Costa, l’azione pastorale del sacerdote doveva essere diretta a smascherare il disegno dei comunisti di far apparire possibile “la conciliazione del comunismo con la fede e la vita cristiana”, per don Milani, invece, l’azione apostolica del prete doveva essere diretta a istruire e guidare i lavoratori alla distruzione dell’attuale ordinamento sociale per crearne un altro, dove sia loro riservato in esclusiva il ruolo di “classe-guida”.

IL NUOVO PRETE

Per don Milani, per recuperare la pecorella smarrita, si dovrebbe sposare la causa di chi l’ha rapita! Ma Cristo non disse ai primi apostoli: “Andate e predicate al mondo le trullagini e le trullerie che vi frullano in mente!”. Risorto, comparve loro, e, dopo aver conferito lo Spirito Santo a ciascuno di essi, disse: 

«Mi é stato dato ogni potere in cielo e in terra. Come il Padre ha mandato Me, così Io mando voi. andate e predicate il vangelo a tutte le genti, insegnando loro ad osservare tutte le cose che Io vi ho comandato di osservare».

Il prete, per essere prete, deve essere un “alter Christus” per continuarne la divina missione. Con tale qualifica é anche operaio, ma purché lavori nella vigna del Signore senza pretendere di fare l’agitatore sociale o il sindacalista rivoluzionario. È, soprattutto, maestro, purché insegni il rispetto e l’osservanza della legge di Dio senza pretendere di seminar tra i poveri l’odio di classe. Il prete ha una sacra consegna che in nessun modo e per nessuna ragione può disattendere: 

quella di render migliore la gente al punto di farla degna del regno dei cieli. 

A lui é affidata una moneta di inestimabile valore, l’unica valida e necessaria all’acquisizione della bontà: che poi é la vera ricchezza del ricco e del povero, l’unica veramente degna di essere custodita come tesoro senza prezzo.

Don Milani, invece, la pensava diversamente! Quel che conta per lui era trovare un’alternativa all’insegnamento religioso, che riteneva di aver trovato nell’insegnamento della cultura civile. In altri termini: per acquisire un sufficiente patrimonio di cultura religiosa non va studiato il catechismo, ma va studiato l’abaco e il sillabario. Sicuro di sè, scrive: «L’abisso d’ignoranza religiosa degli adulti del nostro popolo prova che il molto catechismo che ricevono i ragazzi non lascia nessuna traccia di sè al di là dell’età infantile». Il problema dell’istruzione religiosa agli adulti va affrontato in modo radicale; ecco la sua soluzione: 

«È nostra opinione che la sua soluzione dipenda oggi strettamente dalla soluzione di quello dell’istruzione civile. E il motivo é che, dopo tutto, l’istruzione religiosa che occorre per vivere da buon cristiano é, in fondo, poca cosa. Se la sua diffusione nel nostro popolo é stata finora una chimera non é per la sua intrinseca difficoltà, ma solo per la mancanza del mezzo indispensabile, cioé un minimo di preparazione linguistica e logica». Se ciò fosse vero, si dovrebbe affermare che per gli analfabeti non vi é possibilità di salvezza!


Ma lui conclude che per assicurare una sufficiente istruzione religiosa non occorrono lezioni di religione, ma solo istruzione civile, istruzione profana, istruzione a-religiosa. Al più, occorrerà qualche predicozzo domenicale e un pizzicotto per turbare la coscienza “verso i problemi religiosi”. A suo dire, «Quando poi sia nato questo minimo d’interesse e contemporaneamente sia stato raggiunto quel minimo di livello intellettuale e culturale che occorre per intender la parola, allora bastano e avanzano dei buoni vangeli domenicali in forma catechistica, dei libri e qualche spiegazione che il giovane stesso si darà cura di chiedere al sacerdote»29.

Quindi, non il pastore deve cercare le pecorelle, ma le pecorelle il pastore. Esattamente il contrario di quanto aveva insegnato Cristo!
Neppure le manifestazioni di culto pubblico, verso i sacri riti e particolarmente verso le processioni eucaristiche, trovavano l’approvazione di don Milani.

Con riferimento alla processione del Corpus Domini, scrive: 

«Della Processione il Signore non ha parlato. È un’invenzione d’uomini. una piccolissima cosa. Non é necessaria»30. 

La stessa cosa si potrebbe dire di ogni altra manifestazione pubblica di tutti i contenuti del Rituale della Chiesa. Una fede “che osserva il rito” soltanto, per don Milani non ha nulla di cristiano. Per lui «una famiglia modello, l’unica del popolo in cui si dica ancora ogni sera la Corona (del rosario), dove c’é una vecchietta che va a messa ogni giorno e c’é i Santi a tutte le pareti, dove si sa storie di preti .., dove però la Comunione é ridotta ferreamente alla Pasqua e la Confessione s’intende solo per quella»; una famiglia siffatta é addirittura “diabolica”31. Ora, che in una famiglia come questa vi possano essere cose degne di riprensione, rientra nell’ordine naturale delle cose, ma che debba essere addirittura diabolica perché vi si osservano i precetti della Chiesa, questo é il colmo sulle labbra di un prete!

Don Milani divide i cattolici in “realmente cattolici” e in “cattolici perché solo battezzati”. Anche i doveri li distingue in riservati ai soli “realmente cattolici” e in riservati ai “cattolici perché solo battezzati”. Al riguardo scrive: «L’atteggiamento del cappellano fu caratterizzato da una distinzione tra obblighi dei parrocchiani realmente cattolici e obblighi dei parrocchiani cattolici solo perché battezzati». E ne dà ragione asserendo che: 

«Non si può imporre agli uni e agli altri la stessa legge»32.

Si direbbe meglio se si dicesse che la Chiesa é di tutti, e particolarmente dei peccatori, perché gli strumenti di salvezza che possiede, i Sacramenti, sono soprattutto per i peccatori. Cristo non é venuto a salvare i giusti, ma i peccatori. Dividere il gregge cristiano in buoni e poco buoni, in cristiani autentici e in cristiani perché solo battezzati, come pure immaginare che ci siano per gli uni doveri obbliganti che non obbligano gli altri, é recare grave offesa a quella sublime pastorale che la bontà del redentore ci ha lasciato in eredità!

Quanti, sacerdoti o laici, che non la pensavano come lui, venivano respinti come “rognosi fascisti”; aveva una specie di ossessione che lo portava a considerare quanti, preti o laici, non condividevano le sue idee, un branco di spioni che tramavano la sua rovina; mentre per i Superiori, Arcivescovo compreso, e per la Curia fiorentina, riservava quella considerazione che si usa avere per una combriccola di malandrini che si fa forte con le delazioni e le calunnie delle malelingue!

Racconta mons. Luigi Stefani, testimone di una conferenza tenuta nella sala del Consiglio comunale di Calenzano il 17 novembre 1962, sul tema della “non violenza”: «Finita la conferenza, sulla quale non ebbi niente da eccepire, prese la parola don Milani che disse testualmente: «Il professore ha parlato bene, ma non ha detto altre cose molto importanti. Non ha detto, per esempio, che la Chiesa Cattolica ha le mani insanguinate; che la Chiesa Cattolica fu perseguitata per tre secoli, ma che ha perseguitato per diciassette secoli. Non ha detto che alcuni cardinali e vescovi sono responsabili dei gravi mali che pesano sul mondo operaio; non ha detto che le strutture della Chiesa Cattolica devono essere spazzate per il bene dell’umanità”, e così via! Don Milani parlò per un quarto d’ora, sputando veleno sulla Chiesa cattolica con altre frasi irripetibili. All’iniquo intervento, reagii con forza invitando quel prete, se avesse avuto un minimo di pudore, di dichiararsi fuori della Chiesa e di non ingannare spudoratamente coloro che vedevano in lui ancora un sacerdote. Non mi rispose. Mi risposero i comunisti che gremivano la sala comunale di Calenzano; mi risposero con minacce; ma ci fu anche qualcuno che commentò: 

“Certo, si rimane allibiti a sentir parlare così un prete”»!33

Don Milani non si é mai sentito in obbligo di obbedire: per lui non obbedire era giusto e bello.

Egli proclamava: 

«L’obbedienza non é ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni»34. 

Ma il personale convincimento, quando non é arbitrio, é presunzione. Né l’arbitrio né la presunzione possono giustificare la disobbedienza alle leggi. Ma la spavalda vanteria con la quale don Milani si dichiara “severamente ortodosso e disciplinato” al punto che nessuno lo può accusare “di eresia o di indisciplina”, denuncia la debolezza della sua certezza nella sicurezza dei propri convincimenti. Non si spiegherebbe, altrimenti, la sua ricerca affannosa di un avallo di cattolicità per il suo apostolato. Nel frattempo, questo riconoscimento se lo dava da solo: «Io faccio il parroco e come bene! E poi faccio il maestro e come bene! E amo i miei superiori e confratelli fino al punto di lasciarli cacare sul mio onore a loro piacimento!»35.

Ancora indispettito dal forzato esilio in Germania, don Milani pensava certo al card. Elia Dalla Costa anche quando ricordava «La diabolica usanza moderna di considerare soavemente profumate anche le merde dei geni e dei santi»!36

La malafede di don Milani si deduce dal fatto che il primo a non credere all’onestà e alla rettitudine cattolica della pastorale che propugnava, era proprio don Milani stesso! Non si capisce altrimenti come avrebbe potuto confessare all’amico Meucci che lo scopo del suo discorso era sempre rivolto «Unicamente ai preti e che tutta l’attenzione va concentrata nel trovare il cunicolo segreto sotterraneo sentimentale e psicologico abbastanza da penetrare nella roccaforte del timore dell’eresia, della prudenza ecc; senza che si destino le sentinelle che i preti, in genere, portano dentro di sé». Tanto meno si capirebbe come avrebbe potuto confidare alla madre che sarebbe riuscito a perfezionare il libro (“Esperienze Pastorali”) in modo tale da evitare la condanna», se non avesse avuto netta la persuasione che era cattolicamente condannabile!

DON MILANI E IL COMUNISMO

Dal 1846, epoca in cui Papa Pio IX condannò la dottrina del comunismo come “nefanda e sommamente contraria al diritto naturale”37, alla dichiarazione della Conferenza Episcopale Italiana del 13 dicembre 197538, la Chiesa ha sempre proclamato che “non si può essere simultaneamente cristiani e marxisti”.

Nel maggio 1931, nel cortile di S. Damaso, agli operai convenuti da ogni parte del mondo, Pio XI disse: 

«Proclamiamo che il socialismo, sia considerato come dottrina, sia come fatto storico, sia come azione (...) non può conciliarsi con i dogmi della Chiesa cattolica: propugna, infatti, un concetto di società quanto mai contrario alla verità cristiana»39.

In un’altra enciclica, ove si parla di comunismo, lo stesso Pontefice, con linguaggio veramente profetico, ammonisce: 

«Per la prima volta nella storia del mondo stiamo assistendo ad una lotta freddamente voluta e accuratamente preparata dell’uomo contro tutto ciò che é divino. Il comunismo é per sua natura antireligioso»; e oltre: «Il comunismo é intrinsicamente perverso (...), e non si può ammettere in nessun campo la collaborazione con esso da parte di chiunque voglia salvare la civilizzazione cristiana»40. 

Don Milani, invece, ritiene necessario sposare la causa del marxismo e uniformare la pastorale della Chiesa ai puri canoni suggeriti dall’analisi marxista, e assumere la lotta di classe come sicuro metodo per rimettere le cose a posto. A suo dire, il povero é povero perché spogliato dalla malvagità dei ricchi: é analfabeta, perché la società si é rifiutata di istruirlo. Sempre a suo dire, “l’attuale ordinamento sociale” non avrebbe nulla di cristiano; e tale sarebbe perché i metodi pastorali usati dalla Chiesa avrebbero avuto il risultato di schierare i preti contro i poveri.

del sac. dott. Luigi villa                                                         “Chiesa viva”  Aprile 2020  

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