TEMPO ED ETERNITÀ
Se Caino avesse vissuto e goduto tutta la felicità del mondo fino al giorno presente ed in questo punto morisse, che cosa gli rimarrebbe? Che cosa gli resterebbe ancora dei suoi giorni? Certamente niente più che il ricordo di suo fratello Abele, del quale egli fu omicida, già più di cinquemilacinquecento anni fa. Questi anni ugualmente gli sarebbero venuti meno. E che cosa avrebbe ancora dei suoi piaceri? Non altro che il dover scontare di più nel tempo tenebroso, nei molti giorni dell'eternità, conforme a quanto dice l'Ecclesiastico: Il male di un'ora fa dimenticare dei grandi piaceri (Eccl. 11, 29). Nel momento in cui finisce l'uomo, questi sarà spogliato di tutto quello che avrà fatto, per assecondare il suo appetito ed i suoi gusti. Ora se col male di un'ora i diletti di molti anni si dimenticano, come non si dileguerà il diletto di un momento che ti ha precipitato nell'inferno? Se l'istante della morte di questo miserabile corpo spoglia uno di ogni godimento, l'eternità della morte dell'anima che farà? come lo spoglierà? Che cosa ebbe Eliogabalo nel punto di morte dei suoi passatempi e piaceri? Nulla. Ed ora, dopo essere stato già per tanto tempo sepolto nell'inferno, che avrà? Tormenti sopra tormenti, dolori sopra dolori, pene sopra pene e mali sopra mali ed un continuo lamento per tutta l'eternità.
Gli uomini nel punto della loro morte sono tutti uguali, in ordine alle cose della loro vita; tanto chi visse molto, quanto chi visse poco: chi si divertì molto e chi si divertì poco; chi passò per grandi diletti e chi per grandi affanni, perché qui tutto è finito. Già l'uno non sente più le gioie, né l'altro le pene. Nel momento in cui morì San Romualdo, dopo cento anni di vita penosissima, che cosa gli rimase dei suoi rigori? E morendo il grande penitente Simeone Stilita, dopo ottant'anni di prodigiosa penitenza, che ne sentì egli ancora? Che cosa gli rimase ancora della pena del cilizio ch'egli per sì lungo tempo non levò mai, né di giorno, né di notte? Che cosa ebbe ancora dei suoi lunghi digiuni e delle sue orazioni così incessantemente continuate? Certamente non ebbe più pena o affanno che se avesse consumalo tutti i suoi anni in morbide delicatezze. Non ebbe più né dolore, né pena, ma ricevette un gaudio eterno. Che ebbe ancora San Clemente d'Ancira delle pene che per ventotto anni soffrì dai suoi crudelissimi tiranni? Certamente non più di dolore che se avesse in essi goduto tutte le dolcezze terrene; ma ottenne un'eternità di gloria.
Se il male di un'ora fa dimenticare i piaceri di cento anni, molto più il gaudio e la felicità di una eternità faranno dimenticare i dolori di ventotto anni. Oh prodigioso momento della morte, con cui finisce lutto ciò che è temporale e passeggero e principia ciò che è eterno! Esso impone fine ai piaceri dei peccatori e da inizio ai tormenti che non finiranno mai più; esso impone fine alle pene e alle asprezze dei Santi e incomincia i gaudi eterni.
Veda dunque il cristiano ciò che sceglie. Ugualmente hanno da finire i piaceri con cui pecca e le pene con le quali si soddisfa; ugualmente durano i tormenti che derivano dall'aver peccato ed i gaudi provenienti dal merito. Scelga ciò che meglio gli starà; veda se sia meglio per lui procacciarsi un pascolo eterno di gloria con un affanno leggero e momentaneo di penitenza, perché quantunque durasse cento anni, sarebbe sempre, rispetto all'eternità, un momenti). Nessun penitente si atterrisca per una vita lunga, perché nessuna vita è lunga rispetto all'eternità. Disse bene Sant'Agostino: Ogni cosa che ha fine, è breve [Omnis res, quae finem habet, brevis est (In Ps. 45)]. Fine avranno mille anni, fine avranno centomila anni e fine avranno cento milioni di anni. Così ogni tempo che sembra immenso è breve e rispetto all'eternità non più che un istante. Della stessa maniera si ha da guardare a centomila anni come ad un'ora. Non si ha da desiderare la vita lunga più che la vita breve, perché rispetto all'eternità è tutto uguale. Siccome un corpo solido non ha maggior peso o volume, se è limitato da poche o da molte superfici, perché queste per quanto numerose nulla gli aggiungono; così parimenti rispetto all'eternità, un anno non è meno di centomila anni, né centomila sono più che un anno. Tutto il tempo, benché sia di milioni di secoli, dev'essere ritenuto come un istante e tutto il temporale, come una superficie o apparenza, non come cosa solida o di sostanza. Tutti i tempi, con tutti i beni che in essi si trovano, non potranno fare un bene solo dell'incomprensibile eternità. Se tutta la terra si dice un punto rispetto al cielo, il quale è di grandezza finita e limitata, che meraviglia che tutto il tempo sia come un istante rispetto all'eternità che è infinita? Dalla terra al cielo ed anche tra un granello di arena ed il più alto dei cieli vi è proporzione, e ciò nondimeno non è neppure un punto in suo paragone. Tra centomila anni però e l'eternità non v'è proporzione e saranno quindi meno di un istante. Oh cecità degli uomini, che fanno tanto conto del tempo, per procacciarsi diletti in vita e memoria in morte, fama ed applausi in vita ed in morte! Perché? Per un momento? Per un istante? Per godere nella vita che domani finirà? Per lasciare memoria vana e caduca dopo la morte? Forse fino alla fine del mondo, la quale non tarderà molti anni? Che anche tardasse milioni di secoli, sarebbe sempre breve, dovendo finire. Tutto è come un momento rispetto all'eternità.
P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J.

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