martedì 13 agosto 2024

TEMPO ED ETERNITÀ

 


L'eternità è senza mutazione


Le mutazioni del mondo. 

L'altra condizione dell'eternità è il perseverare senza mutazione, il che gli antichi ci davano ad intendere con dei simboli misteriosi. Alcuni la simboleggiavano in un seggio, conformandosi ad Isaia, il quale vide il Signore seduto su d'un trono molto sublime, rappresentando in tal guisa la grandezza della eternità. 

San Giovanni nell'Apocalisse descrive più volte il trono di Dio, abbozzandoci con questo la sua durata. Più chiaramente il profeta Daniele, quando si rappresenta Dio eterno, chiamandolo l'antico dei giorni lo vede coi capelli bianchi e seduto. Per la stessa considerazione i Nasamoni, popolo dell'Africa, quando qualcuno doveva morire, lo mettevano a sedere, perché così seduto spirasse, volendo significare con questa positura del corpo lo stato nel quale entra l'anima, cioè quello dell'eternità, e sotterravano i morti seduti, facendo così intendere che il riposo non si ha da cercare in questa vita, ma solo dopo la morte, quando entriamo per la porta dell'eternità. 

Non è questa vita destinata al riposo, né dobbiamo in essa fermarci. Le miserie che in essa si trovano danno abbastanza a conoscere che Dio non l'ha fatta perché mettiamo in essa il cuore, ma essa è in esilio e vi dobbiamo camminare a lunghi passi verso il monte dell'eternità. Vita così miserabile mostra bene da se stessa che ce n'è un'altra, perché qui invano si cerca la quiete. Nel cielo finiranno tutte le nostre miserie: ivi si asciugheranno le lacrime di questa valle; ivi troveranno conforto i nostri affanni; ivi si trova il centro dove cessa l'inquietudine del nostro cuore. Non si dà modo di vita, né sorte di stato, né condizione di uomo, né grandezza di dignità, né abbondanza di ricchezza, né felicità di fortuna che abbia dato riposo in questo mondo. Per questo i Romani, quando innalzavano a qualche imperatore defunto una statua, non lo mettevano seduto, volendo così significare che tutta la felicità ch'egli godeva nel mondo non aveva potuto dare alla sua vita vera pace, perché l'uomo nacque per la fatica, come disse Giobbe. Fino alla morte non si potrà trovare riposo, né noi vogliamo cercarlo, anzi poniamo il trono del nostro gaudio in parte ferma e stabile, cioè nell'eternità, non nell'inquietudine delle cose temporali, perché per lo meno la morte lo getterà a terra. 

Altri dipingevano l'eternità in figure di serpenti per denotare questa medesima condizione di immutabilità. Questo animale non ha piedi, i quali sono le estremità degli animali, alla stessa guisa che l'eternità difetta di estremità e termine. Inoltre i serpenti, benché siano privi di piedi, di ali, di squame e di ogni altro organo estrinseco naturale, come li hanno gli altri animali, si muovono nondimeno leggerissimamente e vincono nella corsa gli altri animali che pure ne sono provvisti. Tutto questo lo devono alla loro vivacità. Così l'eternità, sebbene senza giorni, senza notti, senza vicende, che sono in certo qual modo i suoi piedi, vince ogni tempo. 

In più i serpenti hanno tale vivacità e vita così lunga che, dice Filone Biblio, se non sono uccisi non muoiono, sì da aver raramente morte naturale, perché non hanno la mutazione degli altri animali, dalla gioventù alla vecchiaia, dalla salute alla malattia sapendo sempre conservare la propria giovinezza, rinnovandosi di frequente con lasciare la scorza vecchia. 

Oltre a ciò i serpenti non hanno, come gli altri animali, un termine fisso della loro grandezza, ma sempre vanno crescendo più e più, come l'eternità, la quale non ha alcun termine, né declinazione, né alterazione. Questa circostanza dell'eternità è molto terribile ai rei i quali dovranno dimorare nei tormenti, senza aver sollievo di mutare un tormento nell'altro, né potersi voltare all'altro Iato. San Paolino disse di San Martino che il suo riposo consisteva in cambiare fatica. Ed invero, sebbene non si cessi dal faticare, il cambiare una fatica nell'altra, anche se non è minore, è un sollievo. Tale sollievo non avranno i dannati, né sarà loro permesso di mutare di lato. 

Cosa spaventevole è questa: dopo che cadde nell'inferno il primo uomo dannato, sono già trascorsi più di cinquemila anni, senza che a lui una sola mutazione abbia fino ad ora arrecato alcun sollievo. Eppure quante mutazioni si ebbero in questo mondo d'allora ad oggi! Mentre quel  miserabile è rimasto senza mutarsi nelle sue atrocissime pene, sono passate nel mondo alterazioni grandissime. 

Una volta fu tutto distrutto col diluvio, non restando vive che otto persone. Di poi lungo tempo tiranneggiarono il mondo gli Assiri, facendosi monarchi di tutto. Passò poi ai Babilonesi l'impero, cosicché in 1240 anni si succedettero trentasei re nel governo. Dipoi si trasferì tutta la potenza della monarchia ai Medi con lo scompiglio di tutta l'Asia. Dopo trecento anni passò ai Persiani; da questi ai Greci, andando il mondo un'altra volta sottosopra. Quindi passò ai Romani che fu una mutazione maggiore di tutte le altre già passate. Ma anche la monarchia dei Romani ha avuto la sua fine. Durante tutte queste rivoluzioni e mutazioni del mondo quel miserabile dannato non ne ha provato veruna. 

Inoltre che alterazione non ha patita la natura in questo corso di tempo? Quante isole non ha inghiottito il mare? Dice Platone di una di esse, sommersa nelle acque, che era maggiore dell'Africa e dell'Europa. Altre il mare ne ha balzato fuori. I terremoti che edifici hanno lasciato sicuri, o per meglio dire, che monti? Quante città si sono sprofondate! Quanti fiumi si sono asciugati o per differenti letti sviati! Quante torri non sono cadute, e mura non si sono disfatte, e memorie non sì sono disperse! Quante cose non hanno mutato aspetto, quante volte ha girato l'anno e quanti regni potenti non si sono rivoluzionati! Quante primavere e quanti autunni sono passati! Quante notti, quanti giorni! E il povero dannato sta ancora in quella notte oscura come il primo giorno! Mentre il sole ha roteato attorno a lui milioni di volte, il povero dannato non si è mutato neppure una volta e non ha fatto neppure un passo fuori del luogo dov'è caduto. 

Quante fatiche non hanno compiuto fino a questo punto innumerevoli uomini, già trapassati! Quante infermità hanno patito, quanti tormenti hanno sofferti, quanti dolori hanno provati? Tutti questi sono già dimenticati, ma nessun dolore, nessun tormento di quel miserabile ha potuto passare in cinquemila anni e neppure s'è in alcun modo alterato. Tolomeo urlava per la sua gotta, Aristarco era molestato dalla sua idropisia, Cambise pativa della sua sincope, Teopompo era afflitto per la sua etisia, Tobia per la sua cecità e il santo Giobbe soffriva la lebbra. Tutte queste infermità però ebbero fine; ma non l'hanno e non l'avranno giammai tutti i mali di quel miserabile. 

Gli abitanti di Rabath furono segati per mezzo, altri arsi vivi nelle fornaci, altri fatti a pezzi; ma tali tormenti già non sono più; Anassarco fu stritolato in un mortaio, ma già è passato quel dolore; Perillo fu arrostito in un bue di bronzo, ma già è passata quella pena terribile; quel povero miserabile invece non ha cessato e neppur ha cominciato a passare attraverso a quegli orribili tormenti. Da qui a centomila anni questi saranno tanto vivi come al principio. Che disperazione sarà la sua, vedendo tanta mutazione nelle cose e nessuna nelle sue pene e nei suoi tormenti! Se gli stessi diletti di questa vita non variassero, si convertirebbero in tante pene, e come si soffriranno tante pene senza mutazione? Che dispetto sarà per lui vedere che le fiamme di San Lorenzo, le flagellazioni di San Clemente d'Andrà, la croce di Sant'Andrea, i digiuni di Sant'Ilarione, il cilicio di San Simeone Stilita, le discipline di San Domenico, tutte le torture dei Martiri e le penitenze dei Confessori già sono passati e si sono cambiati nei gaudi eterni, mentre le sue pene non passano, non si mutano, né c'è speranza che finiscano in eterno. Questi sono mali da temersi, non i temporali, che si cambiano e sono di sollievo e finiscono, se non in vita, certamente almeno con la morte.  

P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J. 


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