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giovedì 19 dicembre 2024

TEMPO ED ETERNITÀ - Speranza e disperazione.

 


Speranza e disperazione. 

Non dispera l'infermo nella sua malattia, né il povero nella sua necessità, né l'afflitto nella sua tribolazione, perché i mali di questa vita mutano col tempo, o si alleggeriscono con le consolazioni, o finiscono con la morte. I poveri dannati invece non possono consolarsi neppure con la speranza della morte. Se fra tanta moltitudine di pene acerbissime vi fosse alcuna speranza della loro fine, sarebbe questo già un gran sollievo. Ma non è così, perché da ogni parte sono chiuse le porte della consolazione. La speranza è quella che rende ingannevoli i mali e toglie gran parte della loro pena e non v'è fatica che con essa non sia tollerabile. I più afflitti respirano al solo pensare alla fine delle loro miserie o al cambiamento dei loro mali; però quale sollievo può avere un dannato, mentre il suo miserabile stato non avrà mai fine, né saranno i suoi dolori modificati un solo momento? 

Avrebbe gran consolazione, se potesse sperare che dopo mille anni gli sarebbe data quella goccia di acqua che domandò il ricco Epulone. Che dico da qui a mille anni? No, da qui a centomila anni, da qui a mille volte centomila anni, come se gli dessero un termine determinato ed aprissero la porta ad una leggera speranza. Se tutto lo spazio occupato dalla terra e coperto dall'acqua e pieno dell'aria e per cui si estendono tutti i cieli, fosse zeppo di grani di frumento e dicessero ad un dannato che, quando un uccelletto, che ogni centomila milioni di anni viene a pigliare un solo granellino, avrà mangiato tutto e porterà via l'ultimo granello, gli sarebbe data la goccia che il ricco Epulone domandò a Lazzaro, si consolerebbe nel vedere tanto diminuito il rigore della sua pena per questa sola mutazione. Però non l'avrà e dopo tanti milioni di migliaia di anni sarà ancora come al principio, tanto crucciato, tanto rabbioso e senza consolazione come sempre. È questo che spezza il cuore al dannato:  

il vedersi senza rimedio ed impossibilitato a far ciò che prima gli sarebbe stato tanto facile; poiché con alcune briciole di pane che cadevano dalla mensa, avrebbe quel ricco potuto procacciarsi i gaudi eterni, mentre adesso gli è impossibile aver il sollievo di una goccia di acqua. Qual rancore avranno contro se stessi i dannati, ricordandosi che col privarsi di un gusto momentaneo avrebbero potuto sfuggire ai tormenti eterni! Quanta rabbia sentiranno nel cuore, considerando che avrebbero potuto aver sì facilmente un rimedio ed ora penano senza rimedio alcuno! 

Apra dunque gli occhi il cristiano e voglia rimediare adesso mentre può, a ciò che non potrà, quando vorrà. Adesso è il tempo del perdono, ora è il tempo della salvezza. [Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis (2Cor., 6, 2)] Che altro ci significano quelle fiamme della fornace di Babilonia, delle quali dice la Sacra Scrittura che salirono 49 cubiti in alto? (Dan., 3, 47) Perché non dice 50? E chi arrivò a misurare tanto esattamente questa fiamma che con tanta velocità saliva nell'aria, da poter discernere che la sua altezza era di 49 cubiti e non di 50? Ecco il mistero. Il numero 50 era numero di giubileo e significava indulgenza e perdono; ma le fiamme dell'inferno, simboleggiate da quella fornace, per quanto eccedano i tormenti di questa vita, non raggiungeranno mai il giubileo e la remissione della pena per milioni di secoli che possano durare. Adesso sì che è tempo di perdono ogni anno, ogni mese, ogni giorno, ogni ora ed ogni momento. 

Dei giorni interi e delle settimane intere che perdono gli uomini in questa vita, quanto darebbe un dannato per aver un solo quarto d'ora di tempo per poter fare penitenza! Non siamo prodighi di cosa tanto preziosa e non perdiamo tempo, col rischio di cadere nell'inferno e perdere la gloria eterna. Il tempo di questa vita è tanto prezioso che poté scrivere San Bernardo: Il tempo vale quanto Dio, perché con esso si guadagna Dio. Non scialacquiamo cosa di tanto valore, anzi godiamo di poter così a buon mercato guadagnare con il tempo l'eternità. Onoriamo in tal guisa In stesso Dio, Signore dell'eternità, compiendo ciò che disse l'Ecclesiastico: C'è chi con poco prezzo redime molte cose (Eccl., 20, 12). Sopra le quali parole San Goffredo scrive: Se ti si deve un'amarezza eterna e tu puoi sfuggire ad essa con soffrire una pena temporale, senza dubbio hai acquistato grandi cose con poco prezzo. Anche nei beni eterni è una grande consolazione il fatto che essi non hanno mutazione e che non solo non hanno da finire, ma neppure possono diminuire. Consumandosi e mutandosi tutti i beni temporali, essi permangono sempre nel medesimo stato. 

Confronti il cristiano la brevità e la mutazione dei beni di questa vita con la immutabilità ed eterna durata dei gaudi dell'altra vita. Rifletta sulla differenza che esiste tra queste due parole: "Ora e sempre”. I malvagi dicono: “Godiamo adesso”. I saggi e virtuosi dicono: “E' meglio non divertirci adesso, per godere sempre i beni eterni". I mondani dicono: “Viviamo regalmente ora”. I servi di Cristo dicono: “Moriamo adesso alla carne, per vivere allo spirito per tutta l'eternità”. I peccatori dicono: “Ingolfiamoci adesso nei piaceri del mondo”. I timorati di Dio dicono: “Fuggiamo il mondo instabile, per godere poi sempre il cielo”. Si pensi chi è più saggio, se chi mira a ciò che dura il momento dell'“adesso”, o chi attende all'eternità che dura sempre; se chi vuole patire senza profitto pur tutta l'eternità o chi vuole patire ora per poco tempo col gran lucro del regno dei cieli. Oh vita miserabile ed inconsolabile dei dannati, vita i cui tormenti non avranno mai fine, né mutazione i suoi dolori, né profitto le sue pene! Tre cose solamente consolano le fatiche in questa vita: che avranno fine, o che cambiandosi s'alleggeriranno, o saranno ricompensate con un premio. Tremenda cosa sarà dover patire per tutta l'eternità senza utilità alcuna, per non aver voluto patire un momento di tempo, quando lo si poteva, per la gloria di Dio e per guadagnare il regno dei cieli. 

P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J. 


martedì 13 agosto 2024

TEMPO ED ETERNITÀ

 


L'eternità è senza mutazione


Le mutazioni del mondo. 

L'altra condizione dell'eternità è il perseverare senza mutazione, il che gli antichi ci davano ad intendere con dei simboli misteriosi. Alcuni la simboleggiavano in un seggio, conformandosi ad Isaia, il quale vide il Signore seduto su d'un trono molto sublime, rappresentando in tal guisa la grandezza della eternità. 

San Giovanni nell'Apocalisse descrive più volte il trono di Dio, abbozzandoci con questo la sua durata. Più chiaramente il profeta Daniele, quando si rappresenta Dio eterno, chiamandolo l'antico dei giorni lo vede coi capelli bianchi e seduto. Per la stessa considerazione i Nasamoni, popolo dell'Africa, quando qualcuno doveva morire, lo mettevano a sedere, perché così seduto spirasse, volendo significare con questa positura del corpo lo stato nel quale entra l'anima, cioè quello dell'eternità, e sotterravano i morti seduti, facendo così intendere che il riposo non si ha da cercare in questa vita, ma solo dopo la morte, quando entriamo per la porta dell'eternità. 

Non è questa vita destinata al riposo, né dobbiamo in essa fermarci. Le miserie che in essa si trovano danno abbastanza a conoscere che Dio non l'ha fatta perché mettiamo in essa il cuore, ma essa è in esilio e vi dobbiamo camminare a lunghi passi verso il monte dell'eternità. Vita così miserabile mostra bene da se stessa che ce n'è un'altra, perché qui invano si cerca la quiete. Nel cielo finiranno tutte le nostre miserie: ivi si asciugheranno le lacrime di questa valle; ivi troveranno conforto i nostri affanni; ivi si trova il centro dove cessa l'inquietudine del nostro cuore. Non si dà modo di vita, né sorte di stato, né condizione di uomo, né grandezza di dignità, né abbondanza di ricchezza, né felicità di fortuna che abbia dato riposo in questo mondo. Per questo i Romani, quando innalzavano a qualche imperatore defunto una statua, non lo mettevano seduto, volendo così significare che tutta la felicità ch'egli godeva nel mondo non aveva potuto dare alla sua vita vera pace, perché l'uomo nacque per la fatica, come disse Giobbe. Fino alla morte non si potrà trovare riposo, né noi vogliamo cercarlo, anzi poniamo il trono del nostro gaudio in parte ferma e stabile, cioè nell'eternità, non nell'inquietudine delle cose temporali, perché per lo meno la morte lo getterà a terra. 

Altri dipingevano l'eternità in figure di serpenti per denotare questa medesima condizione di immutabilità. Questo animale non ha piedi, i quali sono le estremità degli animali, alla stessa guisa che l'eternità difetta di estremità e termine. Inoltre i serpenti, benché siano privi di piedi, di ali, di squame e di ogni altro organo estrinseco naturale, come li hanno gli altri animali, si muovono nondimeno leggerissimamente e vincono nella corsa gli altri animali che pure ne sono provvisti. Tutto questo lo devono alla loro vivacità. Così l'eternità, sebbene senza giorni, senza notti, senza vicende, che sono in certo qual modo i suoi piedi, vince ogni tempo. 

In più i serpenti hanno tale vivacità e vita così lunga che, dice Filone Biblio, se non sono uccisi non muoiono, sì da aver raramente morte naturale, perché non hanno la mutazione degli altri animali, dalla gioventù alla vecchiaia, dalla salute alla malattia sapendo sempre conservare la propria giovinezza, rinnovandosi di frequente con lasciare la scorza vecchia. 

Oltre a ciò i serpenti non hanno, come gli altri animali, un termine fisso della loro grandezza, ma sempre vanno crescendo più e più, come l'eternità, la quale non ha alcun termine, né declinazione, né alterazione. Questa circostanza dell'eternità è molto terribile ai rei i quali dovranno dimorare nei tormenti, senza aver sollievo di mutare un tormento nell'altro, né potersi voltare all'altro Iato. San Paolino disse di San Martino che il suo riposo consisteva in cambiare fatica. Ed invero, sebbene non si cessi dal faticare, il cambiare una fatica nell'altra, anche se non è minore, è un sollievo. Tale sollievo non avranno i dannati, né sarà loro permesso di mutare di lato. 

Cosa spaventevole è questa: dopo che cadde nell'inferno il primo uomo dannato, sono già trascorsi più di cinquemila anni, senza che a lui una sola mutazione abbia fino ad ora arrecato alcun sollievo. Eppure quante mutazioni si ebbero in questo mondo d'allora ad oggi! Mentre quel  miserabile è rimasto senza mutarsi nelle sue atrocissime pene, sono passate nel mondo alterazioni grandissime. 

Una volta fu tutto distrutto col diluvio, non restando vive che otto persone. Di poi lungo tempo tiranneggiarono il mondo gli Assiri, facendosi monarchi di tutto. Passò poi ai Babilonesi l'impero, cosicché in 1240 anni si succedettero trentasei re nel governo. Dipoi si trasferì tutta la potenza della monarchia ai Medi con lo scompiglio di tutta l'Asia. Dopo trecento anni passò ai Persiani; da questi ai Greci, andando il mondo un'altra volta sottosopra. Quindi passò ai Romani che fu una mutazione maggiore di tutte le altre già passate. Ma anche la monarchia dei Romani ha avuto la sua fine. Durante tutte queste rivoluzioni e mutazioni del mondo quel miserabile dannato non ne ha provato veruna. 

Inoltre che alterazione non ha patita la natura in questo corso di tempo? Quante isole non ha inghiottito il mare? Dice Platone di una di esse, sommersa nelle acque, che era maggiore dell'Africa e dell'Europa. Altre il mare ne ha balzato fuori. I terremoti che edifici hanno lasciato sicuri, o per meglio dire, che monti? Quante città si sono sprofondate! Quanti fiumi si sono asciugati o per differenti letti sviati! Quante torri non sono cadute, e mura non si sono disfatte, e memorie non sì sono disperse! Quante cose non hanno mutato aspetto, quante volte ha girato l'anno e quanti regni potenti non si sono rivoluzionati! Quante primavere e quanti autunni sono passati! Quante notti, quanti giorni! E il povero dannato sta ancora in quella notte oscura come il primo giorno! Mentre il sole ha roteato attorno a lui milioni di volte, il povero dannato non si è mutato neppure una volta e non ha fatto neppure un passo fuori del luogo dov'è caduto. 

Quante fatiche non hanno compiuto fino a questo punto innumerevoli uomini, già trapassati! Quante infermità hanno patito, quanti tormenti hanno sofferti, quanti dolori hanno provati? Tutti questi sono già dimenticati, ma nessun dolore, nessun tormento di quel miserabile ha potuto passare in cinquemila anni e neppure s'è in alcun modo alterato. Tolomeo urlava per la sua gotta, Aristarco era molestato dalla sua idropisia, Cambise pativa della sua sincope, Teopompo era afflitto per la sua etisia, Tobia per la sua cecità e il santo Giobbe soffriva la lebbra. Tutte queste infermità però ebbero fine; ma non l'hanno e non l'avranno giammai tutti i mali di quel miserabile. 

Gli abitanti di Rabath furono segati per mezzo, altri arsi vivi nelle fornaci, altri fatti a pezzi; ma tali tormenti già non sono più; Anassarco fu stritolato in un mortaio, ma già è passato quel dolore; Perillo fu arrostito in un bue di bronzo, ma già è passata quella pena terribile; quel povero miserabile invece non ha cessato e neppur ha cominciato a passare attraverso a quegli orribili tormenti. Da qui a centomila anni questi saranno tanto vivi come al principio. Che disperazione sarà la sua, vedendo tanta mutazione nelle cose e nessuna nelle sue pene e nei suoi tormenti! Se gli stessi diletti di questa vita non variassero, si convertirebbero in tante pene, e come si soffriranno tante pene senza mutazione? Che dispetto sarà per lui vedere che le fiamme di San Lorenzo, le flagellazioni di San Clemente d'Andrà, la croce di Sant'Andrea, i digiuni di Sant'Ilarione, il cilicio di San Simeone Stilita, le discipline di San Domenico, tutte le torture dei Martiri e le penitenze dei Confessori già sono passati e si sono cambiati nei gaudi eterni, mentre le sue pene non passano, non si mutano, né c'è speranza che finiscano in eterno. Questi sono mali da temersi, non i temporali, che si cambiano e sono di sollievo e finiscono, se non in vita, certamente almeno con la morte.  

P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J. 


mercoledì 14 febbraio 2024

TEMPO ED ETERNITÀ

 


Il valore dell'eternità è incalcolabile. 


In tutte le opere nostre dovremmo sempre pensare: Per sempre dovrò essere premiato per quello che faccio di bene e castigato per quello in cui pecco gravemente. Con questo pensiero il cristiano si animerà a compiere sempre opere buone e a compierle bene. Scrive Eliano d'Ismenia, ambasciatore dei Tebani (Lib. I Variar. hist.. cap. 2) presso il re della Persia, che “avendo egli da esporre la sua ambasciata al re gli conveniva, prima di dir parola, di adorarlo; sembrandogli però che questo onore fosse soverchio per un re barbaro, ma non potendo sottrarsene, si valse del seguente partito. Preso l'anello dal suo dito che anticamente era un grande distintivo di stima e segno di autorità di chi lo portava, lo gettò vicino ai piedi del re, dicendo tra se stesso, mentre stava prosteso dinanzi al re: Non a te, ma all'anello”. Se noi altri in tutte le nostre azioni mirassimo all'eternità, non troveremmo difficoltà in nessuna opera buona. In tutte le opere nostre fissiamo dunque i nostri occhi nell'eternità che ci si dà in premio per quello che facciamo in un momento. Benedetto sia Dio per tutta la eternità che ci darà un premio senza fine per fatiche così brevi, che appena si può dire che abbiano principio. 

Si lamentò una volta Euripide, insigne poeta dei Greci, perché in tre giorni interi non poté comporre che tre versi e con grande fatica. Stava presente un altro poeta, per nome Alcestide, il quale  disse che per far cento versi gli bastava un giorno e senza difficoltà. Gli replicò Euripide: “Non fa meraviglia, perché i tuoi versi non hanno vita che per tre giorni, mentre i miei sono per l'eternità”. 

Nella stessa maniera Zeusi, pittore famoso, ma lentissimo, interrogato perché tanto tardasse a terminare le sue tele, rispose: “Dipingo adagio perché dipingo per l'eternità". S'ingannò certamente questi, poiché non vi ha traccia di sua pittura e di Euripide si sono perdute molte opere, mentre nessuna opera del giusto si perderà. 

Per guadagnare un'eternità non c'è bisogno di spendere un giorno, perché con un atto di contrizione che si fa in un momento guadagnarne il gaudio senza fine. Perciò dobbiamo far profitto della considerazione di Euripide e di Zeusi, non solamente per fare opere buone, ma per compierle bene, giacché non operiamo soltanto per questa vita, bensì per l'eternità, che sempre deve stare nella nostra memoria. 

Il profitto che la considerazione dell'eternità produsse nel reale Profeta Davide fu la risoluzione di cambiare vita, mutandosi in un altro uomo, animandosi alla più esatta osservanza e alla più alta e celestiale perfezione. Così in quel salmo in cui dice che pensava ai giorni antichi e agli anni eterni, aggiunge subito l'effetto della sua meditazione, dicendo che aveva da incominciare di nuovo, perché la mutazione che sperimentò nel suo cuore, era effetto della potentissima mano di Dio. Considerando che l'eternità non finisce mai e sempre incomincia e tutto è principio senza fine, si decise di dare tale principio a nuovo fervore e vita più perfetta, che giammai venisse meno nel suo proposito, volendo in questo imitare l'eternità. Come questa sempre incomincia, così egli voleva sempre incominciare a meritarla. Come si ha sempre da incominciare da principio ciò che abbiamo da godere o da soffrire, così sempre principiamo a eritare l'uno e a Subire l'altro. Il riposo non avrà mai fine ed il merito deve sempre essere come nel suo principio. Di questa considerazione fece molto tesoro Sant'Arsenio, facendo conto anche dopo moltissimi anni di vita santissima, che allora incominciava, ripetendo il detto di Davide: Dissi, ora comincio. [Ego dixi, nunc coepi (Ps. 76, 11)] Non dobbiamo voltare gli occhi a quello in cui ci siamo affaticati, ma animarci a lavorare sempre più per Dio, come faceva l'Apostolo San Paolo (Ad Philipp. 3) il quale disse di sé che si dimenticava di tutto il passato ed allargava il suo cuore stendendolo nell'avvenire. 

Ciò disse l'Apostolo quando già aveva fatto tanto progresso e dopo aver sostenuto tante fatiche nel servizio di Dio e per il bene delle anime, più che non tutti gli altri Apostoli insieme, affrontando tanti pericoli di vita e soffrendo tale persecuzione a Damasco, che, se non si fosse fatto calare dalle mura, lo avrebbero ucciso; dopo che in Arabia aveva convertito molta gente, dopo aver convertito molti a Tarso ed Antiochia, dopo esser stato rapito fin al terzo cielo, dopo esser stato scelto dallo Spirito Santo per Apostolo ed aver fatto grandi miracoli e grandi prodigi, dopo aver perlustrato più volte l'Asia Minore, tutta la Grecia e la miglior parte dell'Europa, dopo aver fatto grandi elemosine, raccogliendole con gran fatica sua e portandole ai poveri di Gerusalemme, dopo aver patito innumerevoli persecuzioni ed essere stato depredato molte volte, dopo essere stato flagellato e fatto prigioniero più volte, dopo aver reso infiniti servizi alla Chiesa; dopo tutto questo gli sembrava di non aver fatto nulla per Cristo. Di tutto dimenticandosi, si comportava come il primo giorno della sua conversione ed era deciso di far di più, di soffrire di più, di faticare maggiormente e di cominciare di nuovo, ritenendosi dopo tante fatiche e tanti servizi per servo inutile, come ci consigliò Cristo quando disse: Dopo di aver fatto tutto quello che vi ho comandato, dite: Siamo servi inutili, abbiamo fatto ciò che dovevamo fare (Lc 17, 10). Paragoni uno i suoi lavori, il suo zelo, la sua predicazione, la sua carità con quelli dell'Apostolo, e troverà di non aver neppure cominciato. Infatti, se l'Apostolo, dopo di essere giunto a meriti così sublimi, si dimenticò di essi e giudicò di non aver fatto nulla, noi che non ancora abbiamo incominciato, perché abbiamo da stancarci prima d'incominciare? Cominciamo sempre di nuovo, giacché l'eternità che ci aspetta è sempre nuova e sempre sull’incominciare [Non gloriemur in meritis vitae prioria, nec aliquid aestimemus nosmetipsos, sed quotidie tam recenter tamque frequenter agamus, ac si eodem die primum inchoaremus, atque morituri essemus (DIONYS. CARTH., in Ps. 76)]. 

P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J. 

sabato 8 aprile 2023

TEMPO ED ETERNITÀ

 


L'eternità è immutabile. 

Chi potrebbe tollerare che gli si abbrustolisse un fianco per un anno intero? Ma che dico? Abbrustolirsi un fianco? anche solo star disteso sul medesimo fianco per un anno intero, senza mai potersi voltare sull'altro? Questa fu una penitenza rigorosa fatta dal Profeta Ezechiele, perché Dio gli aveva comandato di star giacente su un lato senza muoversi mai per lo spazio di trecentonovanta giorni. 

Il santo Profeta compì ciò colla grazia di Dio, ma fu certamente una penitenza rigorosissima. Infatti se soltanto lo star giacente da un solo fianco per un anno fa tanto soffrire, che sarà lo star un'eternità, in quella notte oscura dell'inferno, steso in un letto di fuoco, sotto la pioggia di tutti i mali senza termine? Qual cristiano ben considerando questo, sì da farsene un vivo concetto, non si convertirebbe? Chi potrà permettersi un gusto illecito momentaneo della terra, mentre corre rischio di cadere nei dolori eterni dell'inferno? Chi oserà peccare col rischio di dover penare tanto? Oh quanto efficace rimedio sarebbe questo contro i costumi scorretti dei peccatori, se essi pensassero che l'eternità non ha fine ed ha da durare sempre! Oh se ogni giorno, o almeno ogni settimana si pensasse un po' a questo, come ciascuno migliorerebbe la propria vita! 

Non si deve però pensare a questo solo di corsa, ma adagio, con attenzione, ben ponderando tutto, ben riflettendo nel proprio animo che cosa sia l'eternità, in quanto non ha fine, mai, mai, mai. Come non masticando bene e digerendo male il cibo, esso non torna a profitto, così l'eternità, solo quando è ben pensata, ruminata e digerita, sarà di grande utilità alle anime nostre. 

La forza di questa considerazione ben ponderata apparisce nel caso riferito da Benedetto Renato (BENED. RENATO, lib. V Magn. Ordo Cist) di un uomo mondano, molto svagato e vizioso, il quale si chiamava Fulcòn. Questi, essendosi dato ad ogni genere di piaceri, non voleva che gli mancasse quello del letto morbido e del sonno lungamente protratto. Una notte però, non riuscendogli di pigliare sonno, la passò tutta in voltarsi e rivoltarsi, ora su un fianco ora sull'altro, sospirando ogni momento che si facesse giorno. Mentre così vegliava gli si presentò questa considerazione:  

“Purché soffri tanto nello stare in questa guisa? Che sarebbe poi se tu dovessi stare così per due o tre anni in tenebre senza conversare coi tuoi amici e senza il divertimento dei tuoi giuochi, pur stando in un letto così molle di piume? Certamente sarebbe questa una pena insopportabile. Orbene hai da sapere che ti capiterà qualche cosa di simile. Per ben che vada, avrai da cadere infermo in un letto, dove dovrai passare delle notti pessime, se non muori improvvisamente, il che sarebbe ancora peggio. All'uscire dal tuo letto di morte sai tu che letto t'aspetta? Sai di qual letto la morte ti rende ospite? Il tuo corpo avrà per materasso la dura terra e sarà divorato dai vermi; ma dell'anima tua che potrai tu dir di sicuro? Sai dove deve andare? Certamente conforme alla tua vita presente hai da andare all'inferno. Quivi, che terribile letto di fuoco ti aspetta, dove non due o tre anni, ma un'intera eternità avrai da star in tenebre e tormenti perpetui! Mille ed altre migliaia e milioni di anni non basteranno a scontare uno solo dei tuoi piaceri illeciti. Là non vedrai mai più né il sole, né il cielo, né Dio. Oh me miserabile, oh povero me! se non posso soffrire questa breve veglia agitatissima, come potrò soffrire gli eterni tormenti? Quel che è necessario dunque è il cambiare vita, perché per questa si va nella perdizione", 

Con queste considerazioni egli si fece un tal concetto vivo dell'eternità che non poteva cacciare da sé questo pensiero, finché si decise di entrare come religioso in un convento, dicendo tra sé molte volte: "Che faccio qui, io miserabile? Godo del mondo e non ne piglio gusto; soffro molte cose che non vorrei; manco di molte altre che desidererei; mi affanno per le cose di questa vita, ma che premio riceverò per questa fatica vana? Non ho godimento completo; ma se anche lo avessi, quanto potrebbe durare? Non vedo ogni giorno coloro che muoiono ed entrano nell'eternità? O eternità, o eternità! Se non sei nel cielo, ovunque tu possa essere, sarai penosa, anche se io fossi in un letto morbidissimo. Assicuriamoci il cielo e non perdiamo il molto per il poco, né l'eterno per il temporale”. Così disse e fece, entrando in un monastero dell'Ordine dei Cistercensi. 

P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J. 

domenica 11 dicembre 2022

TEMPO ED ETERNITÀ



L'eternità è senza fine. 


L'eternità non ha limiti. 

In riguardo alla prima condizione, cioè del non aver fine, disse Cesario che l'eternità è un giorno senza sera, perché l'eternità dei Santi non vedrà mai tramontare il sole della sua chiarezza, Vespere carens et unicus dies est tota aeternitas, quoniam nulla sequente nocte, ultra mundana lux excipitur (cap. 3), quella dei peccatori è una notte che non sarà giammai illuminata dal sole. In un buio eterno devono stare i corpi ardendo e le anime degli infelici in tormento. Se al febbricitante cui fugge il sonno, benché si trovi in un letto agiatissimo, un'ora della notte sembra un secolo, e gli par mille anni che venga il mattino, che sarà lo stare senza dormire una notte eterna, per coloro che dormirono in questa vita, quando era ora di stare desti, e che sarà patire tanti strazi in un letto di fuoco, senza speranza mai del mattino? Certamente, anche se non vi fosse nell'inferno altra pena fuor di quella di stare in quell'oscurità senza fine, ciò sarebbe sufficiente per spaventarci. 

Questo stesso carattere dell'eternità, cioè il non aver fine, vien simboleggiato dagli antichi nella figura dell'anello, perché nell'anello non vi ha fine. Con più profondo significato Davide la chiamò corona, la cui rotondità, secondo Dionisio Cartusiano, manca pure del termine, per significare che l'eternità senza fine dev'essere il premio e la corona delle nostre buone opere e la pena per le opere cattive. Dovremmo tremare sentendo questa voce: senza fine, per le opere cattive. Dovremmo giubilare a questa parola senza fine, per le opere buone, se comprendiamo ciò che vuol dire durare senza fine, perché nessuno potrà mai esagerare nel dire ciò che è, e sempre ne dirà di meno. Se un dannato, come riflette San Bonaventura, (De Inferno, cap. 49) di cento in cento anni spargesse una lacrimuccia e si conservassero tutte, finché dopo innumerevoli anni fossero tanto le raccolte da uguagliare i mari, quanti milioni di anni sarebbero necessari per uguagliare, non dico un solo mare, ma un ruscello? Ora, dopo di aver riempito un mare col corso di tanti milioni di secoli, si potrà forse dire: questa è l'eternità, qui è il termine? No, anzi non è che l'inizio. Si torni a mettere insieme un'altra volta le gocce delle lacrime di quel dannato, in uno spazio maggiore di tempo l'una dall'altra, e si riempia un'altra volta l'oceano; dopo tanti anni passati a centinaia di milioni, finirebbe qui l'eternità? No, anzi qui incomincerebbe, come se fosse il primo giorno. Si ripeta la stessa cosa altre dieci, altre cento, altre centinaia di migliaia di volte e si riempiano altri centomila oceani con gli intervalli e le distanze suddette, e maggiori ancora, si giungerebbe per ventura a toccare il fondo dell'eternità? 

No, anzi ci troveremmo sulla superficie, tanto è profonda ed inarrivabile l'eternità. Non v'è numero, né algebra che possa comprendere gli anni dell'eternità, perché, se tutti i cieli fossero tante pergamene, tutte scritte da una parte e dall'altra di figure aritmetiche, non arriverebbero tutte a dire la minima parte dell'eternità. Essa non ha parte, ma è tutta intera; se anche vi fosse oceano che tenesse innumerevoli gocce, o montagna composta di innumerevoli grani di arena, non si potrebbero contare per mezzo di essi gli anni dell'eternità. 

C'erano al tempo di Archimede certi filosofi che dicevano essere infinito il numero dei granelli dell'arena del mare; altri, sebbene dicessero non essere infinito, pensavano però non potersi comprendere in numero alcuno. Per confutare gli uni e gli altri Archimede compose un libro dotto e profondo, dedicandolo al re Cerone di Siracusa, nel quale dimostrava con prove che, quando anche il mondo fosse pieno di arena e fosse molto più grande di quello che è ora, tutta quella moltitudine di arena sarebbe limitata e si potrebbe quindi ridurre ad un numero. Dopo questo filosofo, il P. Clavio contò con quanti granelli di sabbia verrebbe a riempirsi tutto quanto lo spazio che sotto il firmamento è occupato dall'acqua e dall'aria e dal fuoco ed i cieli, cioè lo spazio che si trova sotto le stelle fisse, e supponendo ogni granello di arena così piccolo ed indivisibile che di diecimila di essi si facesse un granello di papavero o di senapa, venne ad assommarne in così breve spazio la quantità, che la strinse tutta in una riga, giacché il numero di essi non consta più che di un'unità e cinquantuno zero. Supposto poi che tanta moltitudine di milioni di granelli si contiene in una somma così breve, si pensi che cosa saranno gli anni infiniti dell'eternità. 

Non dico solo una facciata di un libro, ma se tutto un libro fosse di algebra, e non solo un libro ma quanta carta trovasi nel mondo e quantunque il mondo tutto, fino al firmamento, fosse pieno di carta e il firmamento fosse tutto scritto di numeri: tutto questo non comprenderebbe che una piccolissima parte dell'eternità. La moltiplicabilità è tanta che, aggiungendo ad ogni numero uno zero, lo si moltiplica per dieci, se si aggiunge un altro, per cento e se si aggiunge un terzo, per mille; in questo modo si hanno dei prodotti iperbolici, moltiplicando con tanta velocità. Dalla qual cosa ognuno può considerare che, aggiungendo cento zeri, si ottiene un tale numero quale nessuna immaginazione può concepire. Ed allora che sarebbe se si aggiungessero tanti zeri quanti stanno in una pergamena grande  come il cielo? Tutto questo numero non è tanto grande come la minima parte dell'eternità, perché dopo passati tanti anni, quanti sono indicati da quel numero, l'eternità sarebbe ancora al primo giorno, Tutti quegli anni verrebbero alla fine e altrettanti milioni di volte, mentre l'eternità sempre sarà e continuerà dopo queste migliaia di secoli, come se incominciasse allora. 

Pensi il cristiano quanto sarebbe lunga la vita di centomila anni; eppure non avrebbe passato nulla dell'eternità. Pensi dieci volte centomila anni: non ha fatto nulla. Pensi mille volte mille milioni: ancora non ha fatto in questa cognizione nessun progresso. Pensi altri milioni di volte altrettanto: ancora non ha toccato l'eternità, anzi essa starà sempre nel suo principio. Onde disse ottimamente Lattanzio: Con quali anni si può saziare l'eternità, giacché non ha fine? [Quibus annis satiarì potest aeternitas, cuius nullus est finis? (LACT., De falsa Relig.. lib. 1, cap. 12)] Si troverà sempre nel principio, perché tutto è principio. E veramente in questa maniera si potrebbe definirla con profondo significato: "L'eternità è un perenne principio senza fine". Perché sempre sta nel suo principio e non arriva alla fine; sempre è nuova, sempre è intera e niente la può diminuire. Si tolgano dall'eternità tanti anni quante gocce di acqua ha il mare, quanti atomi ha l'aria, quante foglie hanno le piante, quanti grani di arena ha la terra, quante stelle sono in cielo; essa ancora resterà tutta intera. Le si aggiungano altrettanti anni, non per questo essa diventa maggiore, né più lontana dalla sua fine, perché essa è senza fine e senza principio. Mai, e poi mai essa avrà fine e sempre sarà nel principio. 

Si immagini un monte di arena che dalla terra arrivi al cielo e che un angelo ne levi ogni mille anni solamente un granello, quante migliaia di anni occorrerebbero per vedere quel monte spianato? Si ponga pure il più destro contabile a far i conti: quanti anni passerebbero fino a ridurre alla metà quel monte, diminuendolo l'angelo tanto adagio? Sembra che non sia possibile vederne la fine; eppure la nostra mente s'inganna, poiché quel monte avrà fine e arriverà un tempo che si sarà consumata non solo la metà, ma tutto il monte. Arriverà il tempo in cui sparirà anche l'ultimo granello; l'eternità invece non arriverà mai alla fine e quando sarà consumato tutto quel monte di arena, nessuna diminuzione avrà avuto luogo in essa, ma starà come al principio dopo aver passati milioni di secoli. Dopo di aver consumati milioni di quei monti, le pene dei dannati saranno tanto intere, fiammanti ed atroci come al principio. Questo pare che intendesse significare Abacuc quando disse: Le montagne secolari furono stritolale.. dai passi della loro eternità. [Contriti sunt montes saeculi, incurvati sunt colles ab itineribus aeternitatis eius (Habacuc., 3, 6).] Migliaia di monti e di colli, grandi come tutto il mondo, potranno disfarsi mille volte mentre sopra di essi passa l'eternità dei dannati e questa non finirà mai di passare. Così i miserabili dannati passeranno in mezzo a quel fuoco vorace ed a quei tormenti eterni migliaia e milioni di anni senza avvicinarsi mai alla fine più che il primo giorno. 

P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J. 


sabato 10 settembre 2022

TEMPO ED ETERNITÀ


L'eternità è senza fine. 


L'eternità è inscrutabile. 
  
Tutte queste dichiarazioni e definizioni dell'eternità non sono ancora sufficienti per far concepire al vivo la sua grandezza; né alcuno può intendere bene, come dice Plotino, ciò che sentirono quelli che vollero definirla. Si potrebbe dir di essa ciò che disse Simonide, (CICERO, De natura deorum. Lib. II) quando Cerone, re di Sicilia, l'interrogava: che cosa fosse Dio. Il filosofo si prese un giorno di tempo a rispondere, per poter frattanto pensarci sopra. Passato quel giorno, disse di aver bisogno di maggior tempo e chiese due altri giorni; passati quelli, ne chiese altri quattro: trascorsi questi, disse che più vi pensava più doveva meditare e minor facilità trovava per rispondere. 
Lo stesso si può dire dell'eternità, la quale è un abisso tanto profondo da non potersi scrutare senza che il pensiero umano vi si affoghi. Così disse San Dionigi Areopagita, (De Myst. Theologia) che Dio non poteva dirsi ciò che era, ma solamente ciò che non era e come a tutto sovrasta. Similmente non può dichiararsi altro dell'eternità che ciò che essa non è e come supera ogni comprensione. L'eternità non è tempo, non è spazio, non è secolo, non è milioni di secoli; ma è sopra ogni tempo, sopra ogni secolo, sopra milioni di secoli. Non è eternità questa vita che godi e presto ha da finire; non è eterna la salute che hai; non sono eterni i tuoi divertimenti; non sono eterni i tuoi possedimenti; non sono eterni i tuoi tesori; non sono eterni coloro nei quali confidi; non sono eterni i beni nei quali ti compiaci, poiché devi lasciare tutto. Più gran cosa è l'eternità, e sopra i regni, sopra gli imperi e sopra ogni felicità sono le cose eterne. Per questo Lattanzio (LACTANTIUS, De falsa Religione, lib. I, cap. 12) ed altri autori dichiarano l'eternità per ciò che non è, dicendo gli uni che l'eternità è ciò che non ha fine, altri ciò che non ha mutazione, altri ciò che non ha confronto, ossia ciò che non è limitato, non è mutabile, non è paragonabile. Basta spiegare ed analizzare queste tre condizioni dell'eternità, non per far comprendere cosa sia, ma per incuterci almeno spavento e stima di essa, che è quanto più ci conviene, insieme a un gran disprezzo di tutto ciò che è temporale, limitato, mutabile e meschino. 

P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J. 

martedì 24 maggio 2022

TEMPO ED ETERNITÀ

 


Che cosa sia l’eternità secondo San Bernardo. 

In un altro modo illustra San Bernardo (Sermo I in fest. omnium Sanctorum) l'eternità dicendo: È la durata che abbraccia ogni tempo, il passato, il presente ed il futuro. Non v'è né giorno, né anno, né secolo che eguaglino  l'eternità. Questa sola assorbe tutti i tempi possibili ed immaginabili e il suo seno sarà mai ricolmo. 

  

L'eternità è un istante immobile. 

Oltre questo, essa abbraccia tutto il tempo, perché gode in ogni istante ciò che ha da godere in tutto il tempo; per cui Ficino chiamò l'eternità momento eterno, ed il nostro Lessio dice che essa è insieme lunghissima e brevissima: lunghissima, perché eccede tutto il tempo e durerà per spazi infiniti di tempo; brevissima, perché in un istante di tempo ha tutto quello che può avere per un tempo infinito. Come il tempo è un istante che vola e passa, giacché non c'è nel tempo che il momento presente che sta sempre correndo e mutandosi ad ogni istante da uno all'altro, così l'eternità non è più che un istante che rimane, che sta sempre fisso e stabile, perché in essa tutte le cose sono insieme e consistenti sempre nel medesimo stato. Per essa passano tutti i tempi succedentisi gli uni agli altri, essa invece è sempre presente e perseverante in tutti. 

Il tempo e tutte le cose temporali sono come un fiume precipitoso, nel quale furiosamente le onde si rincorrono le une le altre, senza smettere mai il loro mutarsi perpetuo. L'eternità, invece, è come una roccia fermissima, donde scaturisce il medesimo fiume, le cui onde le passano davanti le une dopo le altre, senza più ritornare a farsi vedere, mentre essa rimane sempre nello stesso luogo. Così sono tutte le cose temporali: senza permanenza e senza costanza alcuna vanno, senza ritornare mai più, passando leste dinanzi all'eternità. Come la roccia della sorgiva, pur standosene ferma, contiene tutte le acque del fiume, così l'eternità abbraccia tutti i tempi. 

L'eternità è altresì come il punto centrale di un circolo, il quale punto corrisponde a tutta la circonferenza e ha uguale distanza da ogni punto di  essa; così l'eternità corrisponde a tutto il tempo ed a tutti gli istanti del tempo e tiene presente in modo meraviglioso ciò che avrà presente per tutti i secoli. È così un istante solo che equivale a tempi infiniti, perché non v'è un prima ed un poi, ma bensì tutta l'estensione del tempo sta raccolta in un istante, di modo che in ogni momento di tempo vi è tutto insieme ciò che potrebbe estendersi per distanze infinite di tempo. 

Come la immensità di Dio ha in un punto solo tutta la grandezza divina che senza termine e senza limite si estende per ogni parte, sì da non aver meno in un punto che in milioni di leghe, così l'eternità raccoglie in un istante tutta la durata divina, benché questa s'estenda per tempi infiniti. A questa eternità partecipano le creature ragionevoli nell'altra vita in quel modo che sono capaci quanto all'essenza della loro gloria o pena. 

  

Solo l'eternità dà il vero valore alle cose . 

Da ciò segue una cosa da ben ponderarsi, ed è che quel bene col quale si congiunga l'eternità, si rende infinitamente migliore, sia perché bene infinito, sia per la durata eterna. Così per il contrario quel male che si rende eterno si fa pure infinitamente peggiore e ciò per due motivi: per la sua durata eterna che è infinita, e perché un male è tanto più penoso quanto maggiore si stima la sua durata. Il contento di un giorno non è così grande come quello di una settimana; però molto maggiore è quello di un mese; più grande ancora quello di un anno; più grande ancora quello di centomila anni; più ancora crescerà la sua stima, se dura di più. Perciò quel che dura infinitamente è infinitamente più stimabile; nella stessa guisa che il dolore che dura  di più è un male maggiore e, se dura infinitamente, sarà un male infinito. Questo eccederà qualsiasi altro male, anche se un tal male per sé sia più grande; cosicché, se ad uno dessero da  scegliere tra lo starsi a bruciare vivo in un forno di calce, soffrendo nello stesso tempo tutte le malattie ed i dolori che conosce la medicina e quanti generi di tormenti hanno patito i Martiri e quanti sono i supplizi atroci che hanno subito i malfattori, e tutto questo per un tempo lunghissimo, come sono duecento miliardi di anni; o d'altra parte patire un'emicrania od un dolore di denti per tutta l'eternità senza aver mai fine; questi dovrebbe scegliere tutti quei tormenti riuniti piuttosto che questo dolore solo, perché, sebbene quei tormenti siano più grandi, questo unico dolore li eccede per la sua durata. Insomma, quelli, benché tanto eccessivi, sarebbero temporali; questo, sebbene tanto minore, sarebbe eterno. L'eternità aumenta il male infinitamente. In quei tormenti v'è la speranza che finiscano, in questo dolore non v'è rimedio. 

Io voglio immaginare che, se ai dannati, per il vivo concetto che hanno dell'eternità, si concedesse di scegliere, o di alleviare i loro tormenti rimanendosi con un sol mal di testa eternamente o di patire tutti i tormenti dei sensi riuniti in tutti i dannati per lo spazio determinato di tanti miliardi di anni, preferirebbero questo secondo caso, perché, pur essendo le pene tanto maggiori, avrebbero però fine, mentre il mal di testa, benché tanto minore, sarebbe eterno. 

Ci pensino un po' gli stimatori delle cose temporali. Se i tormenti dell'inferno, pur tanto eccessivi, sono sopportabili per il solo supporli temporali, tanto che si sceglierebbero questi piuttosto che un solo dolore eterno, benché leggero, come non soffriranno con pazienza un solo male leggero per un tempo così breve, quale è quello della vita presente, pur di non soffrire poi eternamente i tormenti dell'inferno? Come non ci muove un inferno eterno, mentre temiamo un dolore temporale? Come non facciamo penitenza? Come non abbiamo pazienza nei nostri mali? Come non soffriamo quanto c'è da soffrire in questa vita, per non soffrire un solo tormento nell'eternità? Non si devono temere le pene di questa valle di lagrime, perché avranno fine, mentre sono da temersi quelle che non avranno mai fine. Siamo dunque contenti di patire qui, dove si patisce poco e per poco tempo, per non patire là, dove si patisce molto e per sempre. 

La stessa considerazione reale, per i beni. Se uno, dopo aver goduto di tutti i tesori della terra e tutti i piaceri dei sensi per miliardi di anni, sarebbe felice, alla fine, di poterli tutti cambiare anche con un solo piacere eterno, come non cambieremmo noi tutti i gusti passeggeri della terra coi beni immensi che possederemo eternamente nel cielo? Tutti i beni temporali del mondo si possono spendere per un solo godimento eterno; perché allora talvolta non rinunziamo ad un solo piacere temporale per assicurarci tutti i diletti eterni? Tutti i beni temporali si dovrebbero dare in cambio di uno solo, del quale ci si assicuri che sia eterno. Perché allora non ci assicuriamo tutti i beni eterni in cambio di un solo bene temporale? Uno che fosse padrone di una casa per tutta l'eternità eccederebbe infinitamente colui che per quanto tempo si voglia, possieda tutto il mondo. 

Non v'è paragone fra il tempo e l'eternità. Ogni cosa temporale, per grande che sia, si deve stimare bassamente; ogni cosa eterna, per piccola che possa sembrare, si deve stimare grandemente. Perciò quello che è temporale, né per la sua grandezza, né per la sua durata ha confronto con una cosa eterna, anche piccola. E per esagerare fino all'impossibile, lo stesso essere di Dio, se fosse temporale, si potrebbe posporre ad un altro che fosse eterno. 

Potrà l'avaro sembrare molto contento del suo piccolo tesoro che domani la morte, e forse già oggi un ladro gli potrà togliere. E per questo bene  egli disprezza i beni eterni del cielo. È certo che quantunque Dio non ci promettesse nell'altra vita che un solo bene sensibile, ma eterno, dovremmo per meritarlo sacrificare tutti i piaceri della terra: quale dunque è la nostra pazzia se, avendoci Dio promesso per tutta l'eternità gli immensi gaudi del cielo, non abbiamo il coraggio, per meritarli, di abbandonare qualche piacere terreno? 

La seconda ragione per cui l'eternità rende il bene infinitamente migliore e il male infinitamente peggiore, è perché essa raccoglie in un solo istante se stessa; di maniera che in ogni istante possiede ciò che dura sempre. Come dura l'infinito, essa lo raccoglie in ogni istante, sentendo di possedere in ogni istante ciò che possiede nel presente e possiederà nel futuro. Dice un Dottore (LESSIO, De Perfectionibus divinis, lib. IV, cap. 3): Con l'eternità il bene, che si può possedere in questa vita successivamente in tempo indefinito, si raccoglie in un istante e si gode tutto unitamente, come se (tutto) il piacere che uno splendido pranzo può offrire successivamente per parte, di tempo infinito, si godesse tutto simultaneamente, e tutto si potesse godere per un tempo eterno, ciò che lo farebbe infinitamente migliore e di maggior valore. 

La medesima cosa fa l'eternità dei mali e delle pene, che riunisce in certo qual modo in uno e fa sì che si sentano simultaneamente. Pur non essendo essi mali attualmente uniti, succede però che si apprendano tutti riuniti e così causano nell'anima dolore senza confronto e senza fine. Questi sono i veri mali, perché sono mali sotto ogni aspetto per la loro estensione e per la loro intensità, per la loro durata e per la loro natura. In quanto alla durata non hanno fine e la loro natura non ha limiti. 

Chi è quel sofferente il quale, ben considerando questo, non avrà pazienza, mentre il suo  dolore è limitato ed avrà termine? I maggiori mali temporali sono punture di mosche rispetto al minimo male eterno, e così per sfuggire tutti i mali eterni è ben poca cosa il sopportarne uno temporale. Tremiamo dinanzi a queste lance dell'eternità, queste due infinità con cui aumenta i suoi mali, essendo due lance mortali che attraversano da parte a parte i dannati. Tutto quaggiù è burla e bagatella rispetto all'eternità, la quale abbraccia tutti i tempi e con i mali di tutti i tempi cade sopra i dannati ad ogni istante. 

  

L'eternità abbraccia anche il passato. 

Un'altra proprietà dei beni e dei mali eterni è che non solo li consolida ed aumenta il futuro, ma anche il passato quantunque temporaneo. I beati del cielo non solo stanno godendo in quest'ora della gloria che hanno e che avranno, ma anche di quella che ebbero in questa vita, come sono le virtù e le opere buone delle quali ora si ricreano e si congratulano per tutta l'eternità. In tal modo tutto il bene passato, presente e futuro concorre unitamente alla perfezione del loro gaudio e si accoglie nella loro felicità il bene di tutti i tempi. Quanto differenti sono i beni temporali, giacché neppur i presenti si lasciano godere! 

Non c'è cosa temporale a cui non aderisca o qualche difetto o qualche preoccupazione o qualche pericolo. Molto meno si lasciano godere nel futuro, poiché non essendone sicuro l'acquisto, ed essendo tanto lontani dal comunicare il loro godimento futuro, gli uomini si danno al piacere del presente per timore di perderlo. Questo stesso timore non lascia che il passato porga alla memoria conforto, anzi dal timore della perdita suole derivare tanto più pena, quanto prima il godimento si sperimentò maggiore. 

Da qualunque lato insomma si considerino, i beni eterni sono i migliori. Ad essi dunque ci  conviene aspirare e studiarci di conseguirli, quando anche ci costasse tutto quanto il temporale. 

  

Possiamo imitare l'eternità . 

In questa vita si può imitare l'eternità esercitando le tre virtù segnalate da San Bernardo: Povertà, mansuetudine e dolore [Paupertate, mansuetudine et fletu renovatur in anima similitudo quaedam et imago aeternitatis, omnia tempora complectentis, dum paupertate futura meretur, mansuetudine sibi praesentia vindicat, iuctu poenitentìa quoque recuperat (Ibidem)]. E veramente chiunque ha stima dell'eterno, a nessuna cosa con più studio dovrebbe applicarsi che all'esercizio di queste tre virtù. In primo luogo: lasciando, nella povertà di spirito, ogni cosa temporale e cambiandola con ciò ch'è eterno; non cercando nulla in questa vita per trovare tutto migliorato nell'altra, perché, mentre l'eternità accresce il bene o il male che si lascia, il tempo diminuisce grandemente tutto ciò che ha termine e lo trascina dietro di se. Non ci verrà molto ad abbandonare ciò che pur dovrà finire, ed un nulla deve ritenersi ciò che nel nulla dovrà pur ritornare. 

In secondo luogo, con la mansuetudine e la pazienza nell'operare il bene e vincere le difficoltà delle virtù, poiché sarà rimunerata eternamente la sua leggera fatica. Tutto ciò che si patisce in questa vita è un dono in confronto a quello che si patisce nell'altra. Chi, vedendo l'inferno aperto, anche se i suoi mali sono un abisso senza fondo, non sopporterà con pazienza il rigore della penitenza e con mansuetudine un'immeritata ingiuria, senza turbare la pace interna dell'anima, sforzandosi unicamente ad operare il bene e piacere al Divin Redentore? Chi, vedendo il cielo che l'aspetta, non si animerà a grande raccoglimento e a patire molto per Dio con  molto fervore e lena? Scrive Rufino (Rufinus, num. 107; Pelag. libell. 7, n. 28.) che una volta andò dall'Abate Aquilio un certo monaco, per raccontargli come nel custodire la cella sentiva molto tedio e tristezza. Il prudente Abate gli rispose: “Ciò deriva da questo, figlio mio, che tu non pensi ai tormenti eterni che temiamo, né al riposo e gaudio che speriamo, poiché, se tu vi pensassi, anche se la tua cella fosse piena e pullulasse di vermi e ti arrivassero fino alla gola, con tutto ciò tu rimarresti in mezzo ad essi e persevereresti nel tuo raccoglimento senza tedio e noia”. 

Il terzo si è che con lacrime e dolore dell'anima si deve procurare di risarcire per i peccati passati e di soddisfare per essi con contrizione dolorosa e amarezza di cuore, perché l'eternità dei beni che per causa di essi si è perduta si ricupera con la penitenza, essendo questa una virtù tanto efficace da riparare il passato. Benché si dica che il fatto non ha rimedio e sul passato non vi è potere alcuno, questa virtù ha tanto potere da disfare il fatto e da prevalere sul passato, togliendo i peccati del passato, come se non fossero stati commessi. 

P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J.

lunedì 1 novembre 2021

TEMPO ED ETERNITÀ

 


Che cosa sia l'eternità secondo Boezio e Plotino. 

  

L'eternità secondo Boezio . 

Ascoltiamo ora il parere di Severino Boezio e Plotino, due grandi filosofi ed il primo non minor teologo, intorno al mistero e segreto dell'eternità: Il possesso totale e perfetto di una vita interminabile. (BOEZIO, De consolatione philosophiae. lib, V. 6). Questa definizione conviene in primo luogo all'eternità di Dio, ma conviene anche all'eternità delle creature ragionevoli, le quali la godono in quanto conseguono il possesso totale e perfetto dei beni in una vita eterna che non finisce mai. Con ragione egli chiamò questa un possesso per la perfezione del gaudio, poiché il possesso di una cosa ne dà il godimento pieno a chi ne diventa il padrone perfetto. Colui che ha presso di sé qualche cosa in prestito e in deposito, non ne ha il godimento pieno, e benché ne abbia alcun piacere, non è con quella libertà di colui che la possiede perfettamente. 

Dice ancora che questo possesso è totale, in quanto e possesso di tutti i beni senza eccezione ed è di tutti i beni uniti, senza aver bisogno per goderli, di goderne uno dopo l'altro, giacché si possono godere tutti insieme. I beni di questa vita non hanno questa natura. Se uno avesse anche tutti i beni di essa, non potrebbe goderli tutti insieme, ma soltanto gli uni dopo gli altri, Eliogabalo, che più di ogni altro volle e cercò di godere di essi, per quanto impiegasse diligenza e sveltezza, solo una volta poté appena godere di due o tre beni insieme. Mentre era al banchetto non poteva attendere alla musica da ballo; mentre partecipava ai balli non poteva intervenire alle feste degli spettacoli; mentre si occupava con queste non poteva intrattenersi con la musica; mentre attendeva alla musica non poteva andare a caccia in montagna e mentre si dilettava in ascensioni sulle montagne non poteva allettare la sua sensualità. Per provare certi piaceri doveva lasciarne altri, di modo che, sebbene non li avesse mai tutti, giacché gli mancavano quelli di cui godevano altri uomini, anche di quelli che poté godere non li godette tutti insieme. Al giusto in cielo invece non manca bene alcuno ed avendo tutti i beni non ha bisogno di passare dall'uno all'altro per goderli, perché gode di essi tutti uniti. 

Il possesso della felicità è pure perfetto, prima di tutto per la sua sicurezza cui nessuno può disturbare, Nessuno glielo può contendere, nessuno lo può rubare, nessuno lo può turbare. 

Il possesso della felicità eterna è in secondo luogo perfetto, perché si gode interamente, non come i beni della terra, i quali non si possono godere in tal modo, o per la distanza del luogo o per l'imperfezione del senso, o per la mescolanza loro con qualche dolore, o per lo meno per la moltitudine degli oggetti e la loro opposizione. Ma quella felicità eterna si possiede tutta, e perfettamente se ne assapora tutto il piacere, si percepisce tutto il suo  gaudio e l'anima resta penetrata ed imbevuta di tutta l'essenza della sua dolcezza. Questa non può essere diminuita da mescolanza di pene, né da cure improvvise, né da incapacità di soggetto, né da distanze locali, né da grandezza di oggetto. Ivi infatti non si dà luogo a dolore e preoccupazione; il soggetto si eleva, l'oggetto si accomoda ed il gaudio eterno non ha proporzione con distanze o spazi locali. 

  

L'eternità secondo Plotino . 

Per tutto questo disse pure Piotino (Ennead. 3, lib. VII, c. 2.) che l'eternità è una vita tutta piena ed unita; in essa sarà perfetto godimento di tutti i beni, secondo tutta la capacità dell'anima, né vi sarà parte alcuna dell'uomo che non sia piena di dolcezza, di gioia e di riposo. La vita dell'udito sarà piena, perché sentirà musiche di bellissimi concerti; pieno pure sarà il senso dell'olfatto per la fragranza di odori soavissimi; la vita della vista sarà piena essendo rallegrata da ogni bellezza; piena pure sarà la vita dell'intelligenza, la quale conoscerà perfettamente il suo Creatore, e la volontà pure avrà una vita piena nell'amare e godere il Signore. 

La vita temporale non può aver questa pienezza di soddisfazione, neppure nelle cose minori; l'attenzione di un senso impedisce quella di un altro e quella del corpo impedisce quella dello spirito. 

Qui non si può godere la vita se non in parte ed anche questa diminuita! In quella felicita eterna invece, il vivere sarà pieno, totale il possedere, perfetto il godere, giacché colà vive tutto quello che qui può morire. Non cesserà per incompatibilità degli oggetti, né per impedimento dei sensi, né per incapacità dell'anima la potenza di godere tutti i beni uniti, con tutti i sensi e le facoltà insieme. In  più questo possesso così totale, così pieno e perfetto è per tutta una vita senza morte, per uno spazio senza termine, per un giorno che è eterno e vale per tutti i giorni, comprendendo tutti gli anni ed abbracciando tutti i secoli, superando anzi tutti i tempi sicché in essa nulla passò e nulla passerà. 

Tutto il contrario succede poi ai poveri peccatori, la cui miseria eterna è di natura simile nel male a quella dell'eternità dei beati nel bene. Essi infatti posseggono i mali non in un modo qualsiasi, bensì con tutto quello che sono, cioè con anima e corpo, con tutti i loro sensi, con tutte le loro potenze. Quello infatti si dice possesso che si acquista col corpo presente. Questi disgraziati, con tutto il corpo, con tutta la loro sostanza staranno in quei tormenti, non come in cosa prestata, ma bensì come in cosa loro tanto propria, che non potranno mai alienarli, perché non vi è cosa tanto propria e dovuta come la pena alla colpa. E non solo, ma di essi i mali prenderanno pieno possesso, perché i sensi, le membra, le articolazioni del corpo, le potenze dell'anima e le facoltà più spirituali saranno possedute dal fuoco, dall'amarezza, dal dolore, dall'ira, dal dispetto, dalla miseria e dalla maledizione, per cui il possesso di questi infelici sarà totale e di tutti i mali insieme. Non ne mancherà alcuno, perché si convergeranno tutte le disgrazie e tutti i tormenti. Non mancherà nel gusto l'amarezza, nell'appetito la fame, nella lingua la sete, nella vista l'orrore, nell'udito lo spavento, nell'olfatto il fetore, nel cuore la pena, nell'immaginazione il terrore, né il dolore in ogni membro, né il fuoco nelle stesse viscere. I dannati possederanno tutti, i mali e tutti, totalmente. Se anche potessero subirli uno alla volta, sarebbe già tremenda la loro sorte, dato il numero immenso di anni che avrebbero a soffrire, ma la massima loro infelicità è che devono patire i tormenti tutti insieme. Non speri il dannato che per il dolore di una parte del corpo  esso cessi in altra parte, né per la pena dello spirito finisca il fuoco che brucia la carne. Tutti i mali piombano sul peccatore dannato; uno ad uno e tutti di un colpo cadono su di lui. La goccia scava la pietra, e con quaranta giorni di pioggia Dio distrusse il mondo animato. Che sarà poi quando la sua giustizia pioverà fuoco di zolfo e tempeste sopra un dannato non solo per quaranta giorni, ma per tutta l'eternità? 

Non soltanto i dannati possederanno i mali tutti e tutti insieme, ma eziandio li avranno in modo perfetto ed intero. Non diminuirà il senso per la moltitudine ed il dolore, né si ottunderà perla loro grandezza. Tanto sveglio e vivo sarà per tutti come se ne patisse uno solo. Tanto perfettamente avranno da sentire il rigore intero di qualsiasi tormento, che il fuoco non penetrerà solo le ossa, il cuore e le viscere, ma giungerà fino alla stessa anima cui crucierà immediatamente col suo incendio, con tanti tormenti eterni. Il possesso della sua miseria sarà totale, perfetto, pieno; totale perché patirà tutti i mali; perfetto perché li patirà totalmente, pieno perché li patirà in tutti i sensi, in tutte le facoltà e potenze. Non è questa una morte per vivere dipoi; vivrà questa morte nei dannati, finché vivrà Dio e la sua miseria durerà finché Dio avrà la sua gloria. 

P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J. 

lunedì 20 settembre 2021

TEMPO ED ETERNITÀ

 


Che cosa sia l'eternità secondo l'insegnamento di San Gregorio Nazianzeno e San Dionigi. 


Cominciamo dunque a dare una qualche spiegazione di ciò che è inesplicabile, per formarci un qualche concetto di ciò che è incomprensibile, affinché i cristiani, conoscendo meglio o ignorando meno ciò che è eterno, temano di commettere una colpa o di lasciare un'opera di virtù, tremando al pensiero che in cambio di beni tanto da poco, come sono quelli della terra, si sperperino beni tanto grandi, come sono quelli del cielo. 

Vedendo Agrippina Romana lo sperpero di suo figlio, che profondeva oro e argento come se fosse acqua volle correggere la sua prodigalità. Una volta che il figlio aveva ordinato di preparargli la quarta parte circa di un milione, la madre fece mettere insieme altrettanto danaro, lo fece stendere su vari tavoli, per mostrarlo tutto insieme al figlio,  perché questi, vedendo coi suoi occhi la somma che così temerariamente aveva sprecato, si moderasse nella sua prodigalità. 

Lo spreco e la pazzia degli uomini non trovano altri rimedi; bisogna mettere dinanzi ai loro occhi ciò che perdono per un piacere contro la legge di Dio. 

Infatti per una cosa molto piccola perdono ciò che è senza fine, ciò che deve durare sempre, insomma ciò che è eterno. Però chi potrà spiegare questo? L'eternità è un oceano immenso di cui non si può trovare il fondo; è un abisso oscurissimo nel quale si perde ogni intelletto umano; è un labirinto intricato donde nessuno può uscire; è uno stato perpetuo senza passato e senza futuro; è un circolo continuo il cui centro sta in tutte le parti e la circonferenza in nessuna; è un anno grande che sempre incomincia e mai tocca la fine; e ciò che non si può comprendere e sempre si deve conoscere e pensare. Ma perché possiamo dirne qualcosa ed apprendiamo ciò che è incomprensibile, sentiamo come la definiscono i santi. 

  

L'eternità secondo San Gregorio Nazianzeno . 

San Gregorio Nazianzeno non sa dire cosa sia l'eternità, ma solo ciò che non è, e scrive: L'eternità non è tempo, né parte del tempo, (Oratio in Christi Nativitate, 38) perché il tempo e le sue frazioni passano, mentre l'eternità non passa. Tutti i tormenti che un'anima condannata all'inferno patisce in principio, tanto terribili e vivi la tormentano dopo milioni di anni, e di tutti i piaceri che un'anima giusta prova quando entra nel cielo non ne verrà meno poi uno solo. Il tempo ha questo di proprio che ci assuefà alle cose e le diminuisce, perché di ciò che in  principio ci pareva nuovo perdiamo poi la sensazione. L'eternità invece è sempre intera, è sempre la stessa, nulla si cambia. I dolori con i quali comincia il dannato, dopo mille secoli sono ancora fiammanti e nuovi, la gloria che nel primo istante riceve chi si salva gli sembra sempre recente. L'eternità non ha parti, è tutta d'un pezzo, non si dà in essa né diminuzione, né difetto. Benché i piaceri di questa vita, che vanno col tempo, siano di tale natura da diminuire col tempo, sì da non avervi in questo mondo piacere che col lungo andare non si cangi in pena, così per il contrario, le pene col tempo diminuiscono e si curano. L'eternità ha una tela ben differente; tutto è uniforme, non vi è gioia che stanchi, né pena che scemi. 

  

L’eternità secondo San Dionigi. 

Secondo San Dionigi Areopagita ( De divinis nominibus, cap. 10) l'eternità è immutabilità, immortalità, incorruttibilità di una cosa che tutta esiste in un istante che non apparisce, ma che sempre è nello stesso modo. Dice il Savio: Dove cadrà il tronco ivi resterà (Eccle, 11, 3). Se cadrai come tizzone infernale nel profondo dell'abisso, ivi starai ardendo come sei caduto e nessuno verrà a levarti finché Dio sarà Dio; là starai senza poterti voltare da un lato all'altro. 

L'eternità è immutabile, perché con essa non è compatibile mutazione alcuna; è immortalità, perché non ha fine; è incorruttibilità, perché non avrà mai diminuzione. I mali di questa vita, per quanto possa essere disperato il trovarne rimedio, non difettano però della possibilità di trovarlo. Con il loro mutarsi sì alleviano, con la morte finiscono, con la corruzione diminuiscono. Tutto questo manca  ai mali eterni, i quali non avranno mai il sollievo del loro mutarsi, né il rimedio del loro finire, né la consolazione del loro diminuire. Mutare il lavoro suole essere un riposo. Un malato per quanto sia angosciato, si solleva col voltarsi da un Iato all'altro. I mali eterni invece in un medesimo punto e con la medesima intensità dureranno, finché Dio sarà Dio, senza modo alcuno di mutarsi. Se il cibo più gustoso e salutare del mondo, che fu la manna, solo perché fu continuo, causò nausea e vomito, quale tormento causeranno le pene che continueranno sempre e rimarranno sempre le medesime? 

Il mare ha il suo flusso e riflusso, i fiumi hanno le loro piene, i pianeti le loro posizioni diverse, l'anno ha le sue stagioni, le febbri maggiori hanno la loro decrescenza, ed anche i dolori, arrivati al sommo dell'acutezza, diminuiscono. Solo le pene eterne non avranno decrescimento e non vedranno mutazione. 

L'andar per una strada tutta piana, che sembra la meno faticosa, suole stancare, perché manca la varietà; quanto stancheranno il cammino dell'eternità quei dolori perpetui che non possono mutarsi né arrivare alla fine, né subire diminuzioni? Quelli che furono i tormenti di Caino tanti mila anni fa, lo sono ancora oggi, e ciò che sono oggi, lo saranno per altrettanti anni. Le frazioni del tempo si computano coll'eternità di Dio, e la durata della infelicità con quella della gloria di Dio. E finché Dio vive, essi lotteranno con la morte e moriranno in tutti gl'istanti. Quella morte dura eternamente e quella vita miserabile uccide, perché ha tutto il peggiore della vita e della morte. Vivono questi miserabili per patire e muoiono per non godere; non hanno il riposo della vita, né il termine della morte, ma per maggior tormento proprio hanno il tormento della morte e la durata della vita. 

Guarda invece quanto felice è la sorte di coloro che muoiono in grazia di Dio. La loro gloria sarà  immortale, senza timore che abbia a terminare. La loro fortuna sarà immutabile e non potrà invecchiare; la loro corona sarà incorruttibile e non potrà marcire. Non passerà giorno senza godere, e sempre la contentezza sarà nuova e la loro gloria rinverdirà sempre per tutta l'eternità. Perciò la felicità sarà sempre nuova; onde la gloria che San Michele aveva tante migliaia d'anni fa, è oggi ancora la stessa, e quella che oggi ha, sarà ancora nuova, dopo sei milioni di anni, come oggi. 

P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J.

lunedì 30 agosto 2021

TEMPO ED ETERNITÀ

 


Questa è una terribile imprudenza. 

Apriamo gli occhi e consideriamo il pericolo nel quale ci troviamo; guardiamo dove si pone il piede, perché non ci perdiamo, essendo lo stato di questa vita molto pericoloso. Con ragione Isidoro Clario lo paragonò a un ponte tanto stretto che appena vi stanno due piedi e sotto il quale si trova un lago di acque nere piene di serpenti, di fiere e di animali velenosi, i quali si nutrono di coloro che cadono dal ponte; da un lato e dall'altro vi sono giardini, prati, fontane ed edifici bellissimi. Come sarebbe grande pazzia di colui che passasse il ponte guardando prati ed edifici senza badare dove mette i piedi, così è grande pazzia quella che commette chi passa per questa vita guardando solo ai beni terreni e tenendo in non cale i suoi passi e le sue opere. Aggiunse Cesario Arelatense che questo ponte ha il più gran pericolo nel suo termine, dove è più stretto; ivi è il vero pericolo, perché è il passaggio strettissimo della morte. Guardiamo dunque in vita dove mettiamo il piede con sicurezza per il cielo, perché non abbiamo a metterlo nel vuoto e perdere con ciò l'eternità a cui tende la nostra vita. 

O eternità, o eternità, quanto pochi sono quelli che si preoccupano di te! O eternità, pericolo dei pericoli, rischio di tutti i rischi, se si sbaglia il passo! Come non si preparano ad essa i mortali e come non la temono? Non v'è pericolo maggiore che quello dell'eternità, né rischio più certo che quello della morte. Perché non ci prepariamo e ci armiamo per essa? Perché non ci preoccupiamo di ciò che sarà di noi? Questa vita dovrà durare ben poco, le forze ci verranno a mancare, i sensi si turberanno, le ricchezze ci verranno tolte, le comodità finiranno ed il mondo ci scaccerà. Perché allora non consideriamo ciò che dopo sarà di noi? In altra regione saremo mandati per sempre; perché non pensiamo che cosa dovremo fare colà? 

Acciocché dunque conosciamo questa nostra sorte e perché sappiamo essere prudenti, racconterò un'altra parabola del medesimo San Giovanni Damasceno. V'era una città molto grande e popolatissima, i cui abitanti avevano l'usanza di eleggere per loro re uno straniero, che non avesse conoscenza alcuna del loro regno o stato. Per un anno gli lasciavano fare liberamente tutto ciò che voleva. Ma dopo, quando egli se ne stava sicuro e senza sospetto, pensando di poter regnare per tutta la vita, essi arrivavano improvvisamente, lo spogliavano delle sue vesti regali e trascinandolo nudo per la città lo portavano ad un'isola molto lontana, dove aveva da soffrire estrema povertà, senza aver di che mangiare, né di che vestirsi. Così impensatamente si cambiava la sua fortuna in tutto l'opposto: le sue ricchezze in povertà, la sua gioia in tristezza, i suoi diletti in fame, la sua porpora in nudità. 

Avvenne però una volta che fu eletto re un uomo molto prudente ed astuto. Questi, avendo sentito da uno dei suoi consiglieri di quella usanza dei cittadini e della loro notoria incostanza, non s'inorgoglì della sua dignità del regno che gli avevano affidato, soltanto curava come doveva pensare per sé, affinché, nel temuto prossimo esilio, privo del regno e relegato in quella isola, non dovesse  perire di povertà e di fame. Il divisamento che attuò fu questo: mentre durava il regno fece passare con gran segreto, tutti i tesori di quella città, che erano molto grandi, a quella isola dove doveva poi andare a finire. Fatto questo, vennero alla fine dell'anno con grande tumulto i cittadini per deporlo dalla sua dignità e dal suo ufficio di re, come avevano fatto coi suoi predecessori, e mandarlo in esilio. Egli partì per quella destinazione senza pena alcuna, perché aveva mandato avanti grandi tesori, con i quali visse in abbondanza e splendore mentre gli altri re vi perivano di fame. 

Questo è ciò che avviene nel mondo e ciò che deve fare colui che vuole essere prudente. Quella città infatti significa questo mondo pazzo, vano ed incostante, nel quale, mentre uno pensa di poter regnare, in un momento viene spogliato di tutto e nudo va a finire nel sepolcro, proprio quando meno lo aspettava e più era intento a godere dei suoi beni passeggeri e caduchi, come se fossero immortali e perpetui; senza rammentarsi affatto dell'eternità, dove in breve sarà esiliato; regione tanto lontana ed estranea al suo pensiero, dove va senza pensarci, nudo e solo, per perdersi nella morte eterna; solo vive per andare a penare in quella terra di morti scura e tenebrosa, dove non entra luce, ma orrore e tenebre sempiterne. 

Il prudente invece è colui che, considerando ciò che ha da accadergli tra breve, di uscire cioè spogliato di tutto da questo mondo, si prepara per l'altro, utilizzando il tempo di questa vita per trovarlo nell'eternità. Con opere sante di penitenza, di carità e di elemosine fa passare i suoi tesori a quella regione dove ha da abitare per sempre, ordinando qui bene tutta la vita. Pensiamo dunque all'eterno, perché ordinando bene qui le cose temporali, acquistiamo là quelle temporali e quelle eterne. 

San Gregorio (S. GREG., in Cant.. 2.) riteneva che la considerazione dell'eternità era raffigurata in quella dispensa ben provvista di vino prezioso, nella quale la sposa dice di essere stata introdotta dallo sposo e di aver quivi dato ordine alla carità. Dice infatti che chiunque consideri nell'animo suo con attenzione alquanto profonda l'eternità, potrà gloriarsi dicendo: ordinò in me la carità: perché amerà meno se stesso e più Dio e per Dio, e solo per l'eternità farà uso delle cose temporali anche le più necessarie. 

P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J. 

lunedì 12 luglio 2021

TEMPO ED ETERNITÀ

 


L’inutile ridda dei piaceri .

In questa immagine vediamo rappresentato lo stato degli uomini, i quali, dimentichi dei pericoli di cui questa vita è così piena, si danno ai loro piaceri. L'unicorno è la morte che insegue l'uomo fin dalla sua nascita. La fossa è il mondo ch'è pieno di mali e di miseria. Quell'albero è il corso della vita. I sorci che rodono le sue radici, uno bianco ed uno nero, sono il giorno e la notte, i quali succedendosi continuamente, le vanno ad ogni istante distruggendo. I quattro serpenti sono gli elementi che costituiscono il nostro essere; eccedendo uno di essi, tutto il composto umano viene intaccato e si esaurisce e con esso la vita. Quell'orribile e spaventoso drago è l'eternità dell'inferno, che spalanca la sua bocca per inghiottire i peccatori. Le gocce di miele sono i piaceri ed i divertimenti di questa vita; e ne sono così avidi gli uomini, che per un breve piacere non avvertono i gravissimi pericoli a cui sono esposti! 

Pur vedendosi accerchiati da tutte le parti da tanti pericoli di morte, quanti sono i modi e le cause del morire, infiniti e sempre aperti come altrettante bocche dell'eternità, essi stanno assaporando in una goccia di miele un piacere momentaneo, che li farà poi soffrire per tutta l'eternità. 

Spaventosa dimenticanza questa, ma anche più incomprensibile che non ci atterrisca un tanto rischio. E come! in ogni momento ci minaccia un'eternità, eppure ci trascuriamo per tanti giorni e mesi? Qual uomo anche il più forte e vigoroso può dire di aver un anno in cui non lo raggiunga la morte, che lo lanci di botto nell'abisso dell'eternità? Ma che dico un anno? un mese dell'anno? una settimana del mese, un giorno della settimana, un'ora del giorno, un istante di ogni ora? E allora come possiamo mangiar senza preoccupazione, come dormire sicuri, come godere con gusto di questo mondo? 

Se uno, entrato in un campo pieno di pericoli e trappole segrete, sì che ponendo il piede in una di queste abbia da cadere sopra alabarde e lance o nella bocca di un dragone, e vedendo che altri uomini, entrati con lui nel campo, vanno cadendo e scomparendo in queste trappole, egli andasse ballando e correndo in quel campo senza badare a nulla, chi non direbbe che quell'uomo è pazzo? Certamente più stolto sei tu, poiché, vedendo che il tuo amico è caduto nella trappola della morte, che l'eternità ha già inghiottito il tuo vicino e che tuo fratello è disceso già nella tomba, tu te ne stai tanto sicuro, come se non ti aspettasse altrettanto. 

Sebbene sia incerto il tempo del morire, ti dovresti svegliare al solo dubbio o pericolo della morte. Essendo certo che presto o tardi devi cadere nella bocca dell'eternità, che cosa devi fare? 

Stupisce vedere come gli uomini sanno prevenire i pericoli anche incerti. Se sentono dire che vi sono per una strada degli assassini che derubano la gente, nessuno vi passa da solo e senza armarsi; se uno viene a sapere che vi sono delle pestilenze, cerca degli antidoti e rimedi contro la peste; se sospetta che dovrà patire la fame, si provvede per tempo di frumento. E allora, sapendo noi che la morte viene, che c'è un giudizio di Dio, che esiste l'inferno, l'eternità, perché non stiamo all'erta e non ci apparecchiamo? 

P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J. 

venerdì 14 maggio 2021

TEMPO ED ETERNITÀ

 


Il miserando oblio dell'eternità che hanno gli uomini in questa vita. 

  

La dimenticanza della eternità . 

Prima di spiegare le condizioni dell'eternità, cosa tanto necessaria per vivere santamente e virtuosamente, poniamo dinanzi agli ocelli l'oblio e l'inganno miserando in cui i figli di Adamo tengono una cosa tanto importante. Vivono essi infatti del tutto dimentichi dell'eternità, la quale ad ogni momento li minaccia e da cui non distano che due dita, come disse un filosofo. 

Che cosa vi ha tra i naviganti e la morte, se non lo spessore di una tavola? Che cosa vi ha tra il collerico e l'eternità, se non il filo di una spada; tra il soldato e la sua fine, se non essere colpito da una palla; tra un ladro e la forca, se non la distanza tra essa e il carcere? Finalmente che distanza v'è tra l'uomo più sano e robusto e l'eternità, se non quella che esiste tra la vita e la morte? Questa è una distanza immediata, e perciò si deve aspettarla da un momento all'altro. La vita dell'uomo non è che un cammino pericoloso che conduce alla sponda dell'eternità, con la certezza di cadervi dentro. Come possiamo vivere trascurati? Come terrebbe aperti gli occhi e con quale precauzione porrebbe i suoi piedi chi camminasse sull'orlo di un grande precipizio non più largo del piede stesso ed anche quello pieno d'inciampi? E allora, come mai coloro che vanno lungo il precipizio dell'eternità, non attendono al loro pericolo? 

San Giovanni Damasceno spiegò molto bene questo rischio ed inganno degli uomini con una ingegnosa parabola, nella quale ci propone al vivo lo stato di questa vita. Dice che un uomo andava fuggendo da un furioso unicorno, che col solo suo bramito faceva tremare i monti e risonare le valli; e fuggendo in tal guisa, senza badare dove andasse, cadde in una fossa profonda; cadendo però distese le mani per attaccarsi dove meglio poteva; e trovò dei rami di un albero e s'attaccò ad essi fortissimamente, ben contento di poter ivi fermarsi pensando di aver con questo scampato il suo pericolo. Mirando però alla radice dell'albero, vide due grandi sorci, uno nero e l'altro bianco, che continuamente e con molta fretta l'andavano  rodendo, sicché già stava per cadere. Guardando poi al fondo dell'abisso, vi scorse un dragone deforme, dai cui occhi si sprigionava fuoco e lo stava fissando con aspetto terribile e con la bocca spalancata, aspettando che cadesse per inghiottirlo. Guardando poi alla parete dell'abisso dal lato dell'albero, vide che quattro velenosi serpenti sporgevano la loro testa per morderlo mortalmente. Osservando però anche le foglie dell'albero, avvertì che alcune di esse stillavano alcune gocce di miele. Per questo, egli, molto contento, dimentico degli altri pericoli che da tante parti lo minacciavano, si divertiva a cogliere goccia per goccia il miele, senza più badare, né far caso della furiosa voracità dell'unicorno che stava in alto, né al dragone terribile che stava di sotto, né ai serpenti velenosi che gli stavano al lato, né alla fragilità dell'albero che stava per cadere, né al pericolo di perdere il sostegno dei piedi e di precipitare, perché una goccia di miele, alla cui raccolta era tutto intento, gli faceva dimenticare tutto questo.

P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J.