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lunedì 23 settembre 2024

Ella domandava l'acqua viva, ma non sapeva che prima bisognava scavare il pozzo.

 


VITA DI CRISTO

«Signore dammi quest'acqua, e io non avrò più sete e non verrò più qua ad attingere» (Giov.4: 15)  

Egli non era più «Giudeo», né «uomo», ma «signore». Ella non aveva ancora le idee chiare, in quanto supponeva che la promessa di Lui le avrebbe risparmiato la fatica di venire al pozzo. Nostro Signore parlava dalla vetta dell'intelligenza spirituale; la donna, dalle profondità della conoscenza dei sensi. Così sudicie di peccato erano diventate le finestre della sua anima da impedire di scorgere il significato spirituale racchiuso nell'universo materiale.  

A questo punto, il Nostro Signor Benedetto, vedendo ch’ella non riusciva a comprendere la lezione spirituale, la fece convinta del motivo per cui non poteva capire quel ch'Egli intendeva dire: la sua vita, ecco, era immorale. E nella coscienza di lei penetrò mutando alquanto bruscamente discorso:  

«Va' a casa, chiama tuo marito, e torna qua» (Giov.4,16)  

Egli intendeva fari a consapevole della vergogna e del peccato.  

«Va' ... Torna ... Va' ad affrontare la verità della vita che conduci; torna a ricevere l'acqua viva». Rispose la donna:  

«Non ho marito» (Giov. 4: 17)  

Era, nella misura in cui fu fatta, una confessione onesta e veridica; ma non andò più oltre. Ella domandava l'acqua viva, ma non sapeva che prima bisognava scavare il pozzo. Il suo spirito era, in profondità, potenzialmente atto a ricevere il dono di Lui; ma le acque della grazia non potevano scorrere, impedite com'erano dalle aspre rocce del peccato, dai molti strati della trasgressione, dalle abitudini forti come argilla, e dai molti depositi di pensieri carnali. Tutte cose ch’ella doveva vangare, per poter avere l'acqua viva. Il peccato andava confessato perché ella potesse ottenere la salvezza. La coscienza doveva ridestarsi. Magistralmente, Nostro Signore mise in evidenza l'intera vita scondottata di lei e, fulmineo, le gravò la coscienza d'un senso di colpa.  

Ribadì Nostro Signore:  

«Bene dicesti: 'Non ho marito".» (Giov. 4: 17)  

Elogiava, così, l'onesta confessione della donna. Probabilmente, un medico inesperto dell'anima umana l'avrebbe vivamente redarguita per aver celato la verità; Nostro Signore, invece, affermò: «Bene dicesti». Ma aggiunse:  

«Perché hai avuto cinque mariti, e quello che hai attualmente non è tuo marito: e in questo, hai detto la verità» (Giov. 4: 18)  

L'uomo col quale ella viveva non era suo marito: così in basso ella era caduta da evitare la sanzione legale del matrimonio, diversamente da come in altri tempi avrebbe fatto.  

La donna capì che Nostro Signore «si immischiava»; che sondava la sua morale e la sua condotta e che le significava come, data la vita che conduceva, ella non potesse ricevere il dono Suo. E fece allora ciò che milioni di persone hanno sempre fatto ogni volta che la religione esigeva ch'esse riformassero i propri costumi: cambiò argomento. Della religione, voleva fare un oggetto di discussione; non di decisione. Il Nostro Signor Benedetto aveva portato la discussione intorno all'ordine morale, cioè intorno al modo com'ella si era personalmente comportata dinanzi a Dio e dinanzi alla propria coscienza: per evitare il problema morale, ella tentò dapprima l'adulazione, indi introdusse un problema speculativo:  «Signore, vedo che sei un profeta» (Giov. 4: 19)  

Lei, che prima Lo aveva chiamato «Giudeo», poi «uomo», indi «signore», ora Lo chiamava «profeta». Abbassava l'argomento della religione a un livello meramente intellettuale, perché non avesse a investirla nell'ordine morale. E aggiunse:  «I nostri padri hanno adorato su questo monte, mentre voi dite che il luogo dove bisogna adorare è Gerusalemme» (Giov. 4: 20)  

La donna fece uno sforzo disperato per non abboccare all'amo: tentò di sbarrare la strada con un'aringa affumicata sollevando l'antica disputa religiosa. I Giudei adoravano in Gerusalemme, i Samaritani sul monte Garizim. Ella si provò a deviare la freccia diretta alla sua coscienza intavolando un argomento speculativo, cosicché alla sua anima non ne sarebbe venuto danno alcuno.  

Ma Egli ribatté:  «Credimi, donna: viene l'ora in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete più il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quel che conosciamo, perché la salute viene dai Giudei. Ma viene l'ora, ed è questa, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in ispirito e verità, ché tali sono appunto gli adoratori che il Padre domanda. Iddio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in ispirito e verità» (Giov. 4: 22,24)  

Le disse così che le piccole dispute locali sarebbero ben presto svanite. La controversia tra Gerusalemme e Samaria sarebbe stata eliminata, perché, come Simeone aveva predetto, Egli sarebbe stato una Luce per i Gentili. Nondimeno, Nostro Signore difese i Giudei dicendo:  «Perché la salute viene dai Giudei» (Giov. 4: 22)  

Di tra essi, infatti, e non di tra i Samaritani, sarebbe sorto il Messia, il Figlio di Dio, il Salvatore. La «Salute» s'identifica col Salvatore, poiché Simeone, mentre reggeva tra le braccia l'Infante, aveva affermato che i suoi occhi aveva n visto la «Salute». Israele era il tramite per cui Dio avrebbe portato la salute al mondo. Era l'albero che per secoli era stato innaffiato e che ora aveva prodotto il fiore perfetto: il Messia e Salvatore.  

Le parole di Nostro Signore trascinarono la povera peccatrice in acque più profonde di quelle ch’ella potesse dominare, la trasportarono in un regno di verità troppo vasto perché ella potesse comprenderlo. Ma, delle cose da Lui dette, una sola, e precisamente quella relativa all'approssimarsi dell'ora della vera adorazione del Padre, ella confusamente intuì, perché anche i Samaritani credevano, a modo loro, nel Messia. Talché rispose:  «Io so che viene il Messia, vale a dire il Cristo; quando dunque sarà venuto ci farà conoscere ogni cosa» (Giov. 4: 25)  

Non Lo chiamò ancora col titolo di «Messia», ma tosto Lo avrebbe riconosciuto come tale. I Samaritani conoscevano abbastanza l'Antico Testamento per sapere che Dio avrebbe mandato il Suo Unto; ma, dato il pervertimento della loro religione, Egli non era che un profeta, al modo stesso che, secondo il pervertito intendimento dei Giudei, Egli non era che un re politico. Sennonché, con quella sua affermazione, ella voleva dire che aspettava Colui che il Signore aveva promesso. In risposta alla debole credenza di lei, Nostro Signore dichiarò:  «Sono io che ti parlo» (Giov. 4: 26)  

Ormai era stabilito: il centro dell'adorazione non doveva essere più Gerusalemme o il monte Garizim, ma Cristo medesimo. 

Venerabile Mons. FULTON J. SHEEN 

venerdì 3 novembre 2023

VITA DI CRISTO

 


SALVATORE DEL MONDO  

Dopo che Nostro Signore ebbe purificato il tempio, operato miracoli a Gerusalemme, e detto a Nicodemo di esser venuto a morire per quanti erano stati morsi dal serpente del peccato, si diparti da Gerusalemme, che Lo aveva respinto, e andò nella «Galilea dei Gentili». La strada più battuta tra il paese di Giuda, a sud, e la Galilea, a nord, passava attraverso Perea: i Giudei la prendevano per evitare di passare attraverso la regione dei Samaritani. Ma Nostro Signore non la prese. Aveva dichiarato che il tempio era aperto a tutte le nazioni: Egli era stato chiamato a operare per tutte le razze e per tutti i popoli.  

«E attraverserò com'era necessario la Samaria» (Giov. 4: 4)  

Della Sua morte e Redenzione, il Vangelo parla come di un «dovere». Ciò ch’era accaduto nella Samaria era connesso col fatto ch’Egli avrebbe dovuto offrire, sostitutivamente, la Propria vita per l'umanità.  

A separare le due provincie di Giudea e di Galilea c'era una striscia di terra abitata da una gente eterodossa e semistraniera: i Samaritani. Tra loro e i Giudei, durava un odio lungo. I Samaritani erano una razza ibrida, formatasi alcuni secoli prima, quando gli Israeliti erano stati portati in cattività. Gli Assiri avevano mandato alcuni dei loro tra i Samaritani, al fine di una mescolanza e della creazione di una nuova razza. I primi colonizzatori della Samaria avevano portato seco l'idolatria, ma più tardi si verificò l'introduzione di un giudaismo spurio: i Samaritani accettarono i cinque libri di Mosè e alcune profezie, ma respinsero tutti gli altri libri storici in quanto narravano la storia dei Giudei, che essi disprezzavano. Il loro culto aveva luogo in un tempio sul monte Garizim.  

Nessun Giudeo pronunziava mai la parola «Samaritano», cosicché il dottore della legge, quando gli domandavano chi fosse il suo prossimo, adoperava una circonlocuzione; e, d'altro canto, il termine più ingiurioso con cui i Giudei potessero rivolgersi ad alcuno era «Samaritano», come una volta avevano chiamato Nostro Signore, il quale ignorava l'accusa. Ma più tardi, nel narrare la storia del Buon Samaritano, Gesù adombrò Se stesso in «un Samaritano», ad indicare l'umiliazione e l'onta accumulatesi su di Lui fin dalla Sua venuta sulla terra.  

Il Nostro Signor Benedetto non evitò codesta gente. Il Creatore di tutti i mondi deve passare attraverso la residenza dell'umanità «straniera», che è sulla strada che Lo conduce al trono celeste. Un amore sovrano Gli imponeva questa necessità. Era quasi l'ora sesta, e il Nostro Signor Benedetto era «stanco del viaggio», tal ché sedette al pozzo di Giacobbe. Ma insieme con codesta spossatezza, ecco palesarsi la Sua Onniscienza, poiché Egli lesse nel cuore di una donna. Cristo, insomma, era stanco nel compimento della Sua opera, non stanco della Sua opera. Due delle più importanti conversioni che siano mai state compiute dal Nostro Signor Benedetto, cioè quella della donna siro-fenicia e quella della donna di cui ora diremo, si produssero entrambe nei momenti della Sua stanchezza. Allorché sembrava quanto mai incapace di assolvere i compiti commessigli dal Padre, proprio allora li assolveva. San Paolo fu tratto dall'azione al carcere, ma convertì alcuni carcerieri e scrisse le Epistole. Ché non v'è cuore di buona volontà che non sappia creare le occasioni a lui propizie.

«Venne una donna samaritana ad attingere acqua» (Giov. 4: 7)  

Era un fatto piuttosto insolito, in un paese orientale, che una donna si recasse ad attinger acqua durante la calura meridiana: più innanzi si scoprirà la ragione di codesta condotta inconsueta. Niente di più casuale, nell'ordine della logica terrena, che una donna venisse a portar la brocca al pozzo, e, nondimeno, fu proprio una di queste comuni, quotidiane provvidenze divine che contribuì a sciogliere l'enigma di un'anima. Ella ignorava qual beneficio per lei si nascondesse in quella insidia. Egli si trovava già là. Aveva scritto difatti Isaia:  

«Mi hanno trovato quelli che non mi cercavano» (Isaia 65: 1)  

Fu Nostro Signore a trovar Zaccheo, e non già Zaccheo a trovar Lui; e quanto a Paolo, anch'Egli fu trovato quando non cercava il suo Signore. Più tardi il Maestro sottolineò il potere di attrazione della Divinità:  

«Nessuno può venire a me se non vi è attratto dal Padre che mi ha mandato» (Giov. 6: 44)  

Ella doveva aver già tentato, quando empi la brocca, di evitare il Signor Benedetto, ché in Lui aveva riconosciuto le fattezze della fisionomia giudaica, con la quale i Samaritani non avevano nulla in comune. Ma, con suo stupore, lo Straniero seduto al pozzo le si rivolse con una richiesta:  

«Dammi da bere» (Giov. 4: 9)  

Ogni volta che voleva fare una grazia, Nostro Signore cominciava col chiederne una. Non cominciava mai con un rimprovero, ma con una richiesta. La prima delle quali fu: «Dammi!» L'umano dev'esser sempre svuotato prima di poter essere colmato del Divino, perché il Divino ha svuotato Se stesso per colmare l'umano. L'acqua, argomento predominante nella mente di lei, divenne il comune denominatore tra l'Innocente e una peccatrice.  

«Come mai tu, Giudeo, domandi da bere a me, che sono samaritana?» (Giov.4:9)  

Durante quel lungo dialogo, si produsse un processo spirituale, che si concluse col riconoscimento, da parte di lei, del Cristo, del Salvatore. Per la sua imperfetta capacità d'intendere, ella si burlò dapprima di Lui, sol perché apparteneva a una determinata razza. In un primo momento, Egli fu soltanto «un Giudeo». La risposta di Nostro Signore significò che in realtà Egli non era il ricevente, ma il donatore. Epperò ella si era sbagliata nel credere che fosse Lui ad aver bisogno di lei, quando in effetti era lei ad aver bisogno di Lui.  

«Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è Colui che ti dice: 'Dammi da bere', tu stessa gli avresti fatto questa domanda, ed egli ti avrebbe dato dell'acqua viva» (Giov.4:9) 

Egli si rivelò sotto l'immagine dell'acqua, come, poco dopo, agli uomini che Gli avrebbero domandato il pane che nutre, si sarebbe rivelato sotto l'immagine del pane. Sebbene Egli parlasse di Sé come del Dono di Dio, la donna non vide in Lui che un uomo stanco, e impolverato dal viaggio, d'un'altra razza: i suoi occhi non potevano penetrare di sotto alla forma esterna la Natura Divina in essa serbata. Ella vide il Giudeo, non il Figlio di Dio; l'uomo stanco, non tutte le altre anime stanche; il viandante assetato, non Colui che poteva estinguere la sete del mondo. Il castigo di quanti vivono troppo accosto alla carne è di non comprendere mai lo spirituale. Ma cresce in lei il rispetto per Lui, perché aggiunge:  

«Tu non hai che attinger acqua, e il pozzo è profondo: donde hai dunque tu dell'acqua viva? Sei forse uomo da più del padre nostro Giacobbe, il quale ci ha dato questo pozzo e ne bevve egli stesso ed i suoi figli e i suoi armenti?» (Giov.4: 11,12)  

Non l'aveva chiamato «Giudeo», adesso, ma «uomo». La donna sospettò, benché non potesse intendere appieno le di Lui parole, che, in quanto Giudeo, Egli volesse diffamare in certo modo le tradizioni del popolo cui ella apparteneva. Ed Egli rispose che era da più di Giacobbe:  

«Chi beve di quest'acqua avrà sete ancora; chi invece beve dell'acqua che io gli darò non avrà più sete; anzi l'acqua data da me diventerà in lui una sorgente d'acqua zampillante nella vita eterna» (Giov.4: 13, 14)  

Sta qui il senso Suo della vita. Tutti gli appagamenti umani delle brame del corpo e dell'anima hanno un difetto: che non appagano per sempre. Servono solo ad attutire temporaneamente il desiderio: non riescono mai ad estinguerlo. Cosicché il desiderio si rinnova sempre. Le acque che dà il mondo ricadono sulla terra, ma l'acqua viva data da Lui è un impulso soprannaturale, e sospinge fino al cielo.  

Il Nostro Signor Benedetto non tentò di rimuovere le infrante cisterne del mondo senza offrire in cambio qualcosa di meglio; non condannò i fiumi della terra, né li vietò: disse soltanto che se ella si limitava ai pozzi della felicità umana non sarebbe mai stata del tutto paga.  

Ella non poteva scorgere la grazia, cioè il potere celeste, sotto l'analogia dell'acqua per il corpo, ché per molto tempo si era dissetata alle più limacciose pozzanghere del piacere sensuale. E così ella continua:  

***

Venerabile Mons. FULTON J. SHEEN

domenica 2 aprile 2023

NICODEMO, IL SERPENTE E LA CROCE

 


VITA DI CRISTO

Gesù non avendo ricevuto una buona accoglienza nel tempio che era la casa del Padre Suo, non volle il successo per forza: il tempio terreno sarebbe svanito, e Lui, il vero Tempio nel quale Dio ha la Sua dimora, sarebbe risorto nella gloria. Si limitò, per il momento, a provare, con la predicazione e con i miracoli, di essere il Messia. In quei pochi giorni, operò molti più miracoli che non siano stati registrati, e il Vangelo afferma che molta gente, vedendo i miracoli ch'Egli compiva, credete in Lui. Uno dei membri del Sinedrio ammise non solamente che i miracoli erano autentici, ma anche che Dio doveva essere con Colui che operava tali prodigi.  

«Un Fariseo, ch'era uno dei capi dei Giudei, venne di notte a trovare Gesù» (Giov. 3: 1,2)  

Sul piano del mondo, Nicodemo era, sotto tutti gli aspetti, un savio: molto versato nelle Scritture, era un uomo religioso, in quanto apparteneva a una setta, quella dei Farisei, che insisteva sulle minuzie dei riti esteriori. Ma, perlomeno in un primo tempo, Nicodemo non era un uomo coraggioso, giacché per parlare col Nostro Signor Benedetto scelse un'ora in cui il manto delle tenebre lo celava agli occhi degli uomini.  

Nicodemo è il «personaggio notturno» del Vangelo, perché lo incontriamo sempre nell'oscurità. Di notte, secondo una precisa descrizione, avvenne quella prima visita; e di notte, più tardi, fu appunto lui, Nicodemo, nella sua qualità di membro del Sinedrio, a parlare in difesa di Nostro Signore, dicendo che nessun uomo può essere giudicato se prima non sia stato ascoltato; e il Venerdì Santo, nelle tenebre che seguirono la Crocifissione venne Giuseppe di Arimatea:  

«E con lui era Nicodemo, ch'era venuto la prima volta a Gesù di notte, portando circa cento libbre d'una mistura di mirra e d'aloe» (Giov. 19: 39)  

Benché gli impedimenti di ordine sociale fossero tali da poterlo dissuadere dal manifestare un qualunque interessamento per il Nostro Divin Signore, si recò a trovarLo quando Egli era a Gerusalemme per la Pasqua: si recò a fare atto di ossequio a Cristo, e subito conobbe come quel genere di ossequio non fosse sufficiente. Disse a Lui Nicodemo:  

«Maestro, noi sappiamo che sei venuto da parte di Dio, come un dottore, poiché nessuno può fare i miracoli che tu fai, se Dio non è con lui» (Giov. 3: 2)  

Ma, sebbene avesse visto i miracoli, Nicodemo non era ancora disposto a riconoscere la Divinità di Colui che li operava. Era ancora un po' esitante, dato che celava la sua vera personalità sotto l'ufficialità di quel «noi». E una furbizia cui ricorrono qualche volta gli intellettuali per sottrarsi alle responsabilità personali, e con la quale sottintendono che se un mutamento è necessario deve esserlo per la società in generale piuttosto che per i loro singoli cuori. Dopo, nel corso di quella conversazione notturna, Nostro Signore rimproverò a Nicodemo d'ignorare, quantunque fosse un «maestro», parecchie profezie. In tal modo, Nostro Signore palesò d'essere anch'Egli un Maestro; ma, prima che l'alba giungesse a metter fine alla loro lunga discussione, Nostro Signore proclamò di non essere soltanto un Maestro, bensì anzitutto e soprattutto un Redentore, e affermò che non la verità umana della mente, ma una rinascita dell'anima, acquisita attraverso la Sua morte, era la condizione essenziale per essere tutt'uno con Lui. Nicodemo aveva cominciato col chiamarlo «dottore»: al termine del loro colloquio, Nostro Signore aveva proclamato la Propria essenza di Salvatore.  

La Croce si riverberò su ogni episodio della Sua vita, ma non splendette mai così fulgida come in quella notte su un esperto dell'Antico Testamento. Quel Fariseo aveva creduto che Egli fosse soltanto un Maestro o Rabbi, ma alla fine scopri che la guarigione stava in ciò che fino allora era stato sempre considerato una maledizione: ossia in una Crocifissione.  

Il Nostro Signor Benedetto gli rispose esortandolo ad abbandonare lo spirito del mondo:  

«In verità, in verità ti dico che se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio» (Giov. 3: 3)  

All'inizio della discussione tra Nicodemo e Nostro Signore prevalse il concetto che la vita spirituale differisce dalla vita fisica, o intellettuale che sia. V'è più differenza, disse in sostanza Gesù al Suo interlocutore, tra la vita spirituale e la vita fisica che tra un cristallo e una cellula vivente. La vita spirituale non scaturisce da una sorgente sotterranea: è bensì un dono che viene dall'alto. Un uomo non riesce a diminuire il proprio egoismo e ad accrescere il proprio spirito di generosità se non diventa seguace di Cristo: occorre pertanto una seconda nascita generata dall'alto. Ciascuno di noi nasce una prima volta dalla carne, ma Gesù disse che ad una vita spirituale è necessaria una seconda nascita generata dall'alto; e a tal punto questa è necessaria che, senza di essa, un uomo «non può» entrare nel Regno di Dio. E non disse: «Non entrerà», in quanto l'impossibilità è assoluta. Come non si può vivere una vita fisica se ad essa non si è nati, così non si può vivere una vita divina se non si è nati da Dio. In virtù della prima nascita, siamo figli dei nostri genitori; in virtù della seconda, figli di Dio. Importante non è tanto il progresso quanto la rigenerazione; non tanto il perfezionamento del nostro stato attuale quanto il mutamento assoluto della nostra condizione.  

Sopraffatto dalla nobiltà del concetto propostogli, Nicodemo chiese maggiori lumi. Perché, se riusciva a comprendere come un uomo sia quel che è, non riusciva a comprendere come un uomo possa diventare quel che non è. Nicodemo capiva come si possa migliorare un vecchio, ma non capiva come si possa creare un uomo interamente nuovo. Di qui la domanda:  

«Come mai un uomo può nascere quando è già vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel seno di sua madre e nascere di nuovo?» (Giov. 3: 4)  Nicodemo non negava la teoria di una seconda nascita. Egli era un filologo e, come tale, dubitava della giustezza del verbo «nascere». A quella obiezione, il Nostro Signor Benedetto rispose:  

«In verità, in verità ti dico che se uno non rinasce dall'acqua e dallo Spirito Santo, non può entrare nel regno di Dio. Ciò che è generato dalla carne è carne, ciò che nasce dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se io ti ho detto: Bisogna che voi nasciate di nuovo» (Giov. 3: 5-7)  

L'argomentazione di Nicodemo era insufficiente, in quanto si riferiva solo al dominio della carne. Certo che Nicodemo non sarebbe potuto entrare una seconda volta nel grembo della madre per nascere di nuovo; ma ciò che è impossibile alla carne è possibile allo spirito. Nicodemo aveva sperato delucidazioni e ammaestramenti, e invece era stato esortato alla rigenerazione e alla nascita. Il Regno di Dio veniva raffigurato come una nuova creazione. Quando un uomo esce dal grembo della propria madre è soltanto una creatura di Dio, come, in un ordine inferiore, una tavola è una creazione del falegname. Nell'ordine della natura, nessun uomo può dare a Dio il nome di «Padre»; per poter far ciò, bisogna che l'uomo diventi quello che non è. In virtù di un dono divino, deve partecipare della natura di Dio, allo stesso modo che ora partecipa della natura dei propri genitori. L'uomo produce quello che non gli rassomiglia, ma genera quello che gli rassomiglia. Un pittore dipinge un quadro, ma questo non rassomiglia al pittore sul piano della natura; una madre procrea un figlio, e il figlio le rassomiglia sul piano della natura. Nostro Signore, in questa sede, propone il concetto che al di sopra del livello della produzione e creazione sta il livello della procreazione, della rigenerazione, della rinascita, in conseguenza di che Dio diventa il Padre nostro.  

Evidentemente, lo spirito meramente intellettualistico con cui Nicodemo considerava la religione era stato scrollato, perché il Nostro Signor Benedetto gli disse: «Non meravigliarti». Nicodemo si domandava come potesse prodursi l'effetto della rigenerazione, e Nostro Signore spiegò che il motivo per cui Nicodemo non capiva in che cosa consistesse la rinascita stava nel fatto ch’egli ignorava l'opera dello Spirito Santo, e dopo un po' gli fece intendere che, come la Sua morte avrebbe riconciliato l'umanità con il Padre, così l'umanità si sarebbe rigenerata per virtù dello Spirito Santo. La rinascita di cui parlava Nostro Signore non viene avvertita dai sensi e si rivela unicamente attraverso gli effetti che produce sull'anima.  

Nostro Signore adoperò un'immagine per illustrare codesto mistero: «Tu non puoi capire la direzione del vento, ma obbedisci alle sue leggi e ti fai trascinare pertanto dalla sua forza: così è con lo Spirito. Obbedisci alle leggi del vento, ed esso gonfierà le tue vele e ti trasporterà: obbedisci alle leggi dello spirito, e conoscerai la rinascita. Non trascurare la parentela con codeste leggi sol perché non sei in grado di scandagliarne il mistero con la mente».  

«Il vento soffia dove vuole e tu odi la voce, ma non sai donde venga né dove vada: così capita a ogni cosa nata dallo Spirito» (Giov. 3: 8)  

Libero è lo Spirito di Dio, e opera sempre liberamente: non v'è calcolo umano che possa prevederne i movimenti. Nessuno può dire quando la grazia stia per venire, né in che modo agirà sull'anima; e neppure se verrà in conseguenza del disgusto del peccato, o dell'anelito a una bontà superiore. La voce dello Spirito è nell'anima stessa; e la pace ch'Esso reca, la luce ch'Esso spande, la forza ch'Esso conferisce sono inequivocabili, ma sempre nell'ambito dell'anima. Ché l'occhio umano non può discernere direttamente la rigenerazione dell'uomo.  

Sebbene fosse un sottile erudito, Nicodemo rimase perplesso dinanzi alla sublimità della dottrina espostagli da Colui ch'egli aveva chiamato Dottore. In quanto Fariseo, non s'era interessato della santità personale, ma della gloria di un regno terreno. E ora invece domandò:  

«Com'è possibile che questo avvenga?» (Giov. 3: 9)  

Nicodemo comprese che la vita divina nell'uomo non è solo questione di essere e che implica anche il problema del divenire attraverso un potere che non risiede nell'uomo ma unicamente in Dio.  

Nostro Signore spiegò che nessun essere meramente umano avrebbe mai potuto intendere pienamente il di Lui insegnamento. L'ignoranza del Fariseo veniva pertanto a essere, in certo modo, giustificata. Dopo tutto, nessun uomo era mai salito al cielo per apprendere i segreti celesti ed era poi tornato sulla terra per divulgarli. L'unico che poteva conoscerli era Colui ch'era disceso dal cielo, Colui che essendo Dio si era fatto uomo ed ora parlava a Nicodemo. Per la prima volta Nostro Signore parlò di Se stesso come del Figlio dell'Uomo, e, contemporaneamente, fece intendere d'essere qualcosa di più: d'essere anche il Divin Figliuolo unigenito del Padre Celeste. Asserì difatti e la Propria Natura Divina e la Propria natura umana.  

«Nessuno è salito al Cielo all'infuori di Colui che è disceso dal cielo, il Figliuol dell'Uomo che è in cielo» (Giov. 3: 13)  

Non fu l'unica volta che Nostro Signore parlò della Sua riascesa al cielo o del fatto d'esser disceso dal cielo. A uno degli Apostoli disse:  

«In verità, in verità vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figliuol dell'Uomo» (Giov. 1: 51)  

«Sono disceso dal cielo per fare non la mia volontà, ma la volontà di chi mi ha inviato» (Giov. 6: 38)  

«Chi viene dall'alto sta sopra a tutti; chi viene dalla terra è della terra e parla di terra. Chi viene dal cielo sta sopra a tutti» (Giov. 3: 31)  

«E [i Giudei] dicevano: Non è forse costui Gesù, il figlio di Giuseppe, di cui conosciamo il padre e la madre? Come mai può dire: 'Io sono disceso dal cielo?'» (Giov. 6: 42)  

«E [che cosa penserete] quando vedrete il Figliuol dell'Uomo ritornare colà dov'era prima?» (Giov. 6: 63)  

Nostro Signore non parlò mai della Sua Gloria Celeste o Risorta senza far cenno della ignominia della Croce. Qualche volta, come adesso con Nicodemo, parlò principalmente della gloria, la cui condizione però doveva essere la Crocifissione. Nostro Signore viveva e una vita celeste e una vita terrena; una vita celeste in quanto Figlio di Dio, una vita terrena in quanto Figlio dell'Uomo. Pur continuando a essere tutt'uno col Padre Suo nei Cieli, si sacrificava per gli uomini sulla terra. E a Nicodemo dichiarò che la condizione da cui dipendeva la salvezza degli uomini sarebbe stata la Sua Propria Passione e morte, e ciò chiari alludendo alla più nota prefigurazione della Croce che si trovi nell'Antico Testamento:  

«Come Mosè ha innalzato il serpente nel deserto, così è necessario che il Figliuol dell'Uomo sia innalzato, affinché chiunque creda in lui non perisca, ma abbia la vita eterna» (Giov. 3: 14, 15)  

Il Libro dei Numeri racconta che quando il popolo prese a parlar contro Dio un linguaggio ribelle, venne punito col flagello di serpenti infocati, così che molti perirono. Poi, pentitosi il popolo, Iddio disse a Mosè di fare un serpente di bronzo e di erigerlo come segnale; e tutti quelli ch’erano stati morsi dal serpente, guardando tale segnale risanarono. Adesso, il Nostro Signor Benedetto dichiarava ch'Egli sarebbe stato innalzato, com'era stato innalzato il serpente; e, come il serpente di bronzo aveva l'apparenza di un serpente ed era tuttavia senza veleno, così Egli, quando sarebbe stato innalzato sulle sbarre della Croce, avrebbe avuto l'apparenza di un peccatore e sarebbe stato tuttavia senza peccato; e come tutti coloro che per aver guardato il serpente di bronzo erano guariti dal morso del serpente, così tutti coloro che avessero guardato a Lui con amore e con fede sarebbero guariti dal morso del serpente del male.  

Non bastava che il Figlio di Dio scendesse dai cieli e apparisse come il Figlio dell'Uomo, ché in tal caso Egli sarebbe stato soltanto un gran dottore e un grande esempio, ma non un Redentore. Più importante, per Lui, era la realizzazione del fine della Sua venuta: redimere gli uomini dal peccato pur essendo incarnato in un uomo. I maestri trasformano gli uomini con l'esempio della propria vita: il Nostro Signor Benedetto avrebbe trasformato gli uomini con l'esempio della Sua morte. Le esortazioni dei savi e le riforme sociali non sarebbero stati sufficienti a guarire il veleno dell'odio, della sensualità e dell'invidia che è nel cuore degli uomini. Il prezzo del peccato è la morte, e, pertanto, con la morte appunto si sarebbe dovuto espiare il peccato. Come nei sacrifici antichi il fuoco consumava simbolicamente, insieme con la vittima, il peccato scaricato su di essa, così sulla Croce il peccato del mondo sarebbe stato tolto con le sofferenze di Cristo, perché Egli sarebbe stato eretto come un sacerdote e prostrato come una vittima.  

I più grandi vessilli che siano mai stati spiegati furono il serpente innalzato e il Salvatore innalzato. E, nondimeno, tra loro correva una differenza infinita. Teatro dell'uno fu il deserto, e spettatori furono poche migliaia d'Israeliti; teatro dell'altro fu l'universo, e spettatrice l'umanità intera. Dall'uno consegui la guarigione del corpo, che di lì a poco la morte avrebbe di nuovo annullata; dallo altro scaturì la guarigione dell'anima, e sarebbe durata in eterno. Eppure, l'uno fu la prefigurazione dell'altro.  

Ma, sebbene fosse venuto per morire, Egli mise più volte in evidenza come lo facesse volontariamente, e non già perché fosse troppo debole per difendersi dai nemici. Unica cagione della Sua morte sarebbe stato l'amore, e perciò Egli disse a Nicodemo:  

«Infatti Dio ha talmente amato il mondo da dare il suo Figliuolo Unigenito, affinché chiunque creda in lui non perisca, ma abbia la vita eterna» (Giov. 3: 16)  

Quella notte, recatosi un vecchio a trovare il Divin Maestro che aveva meravigliato il mondo con i Suoi miracoli, Nostro Signore narrò la storia della Sua vita. Una vita che non cominciava in Betlemme, ma che esisteva da sempre nella Divinità. Colui che è il Figlio di Dio divenne il Figlio dell'Uomo perché il Padre Gli aveva affidato la missione di redimere gli uomini attraverso l'amore.  

Se c'è una cosa che un buon maestro desidera, è una vita lunga, così da poter divulgare il proprio insegnamento e acquistar sapienza ed esperienza. Per un grande maestro, la morte è sempre una tragedia.  

Quando a Socrate venne data la cicuta, il di lui messaggio fu troncato per sempre. La morte fu una pietra d'inciampo per Budda e per il suo insegnamento dall'ottuplice via. Con l'ultimo respiro di Lao- Tse calò il sipario sulla di lui dottrina del tao, ossia dell'«astenersi dall'azione», in quanto avversa all'aggressività dell'autodeterminazione. Socrate aveva insegnato che il peccato era dovuto all'ignoranza e che, quindi, la sapienza avrebbe reso il mondo buono e perfetto. Per i savi dell'Oriente, era oggetto di preoccupazione la possibilità che l'uomo venisse travolto da uno dei vortici del destino: di qui la raccomandazione di Budda nel senso che gli uomini imparassero a reprimere i propri desideri, per poter così trovare la pace. Quando, a ottant'anni, Budda venne a morte, non indicò se stesso, ma la legge da lui data. La morte di Confucio pose termine al di lui insegnamento circa il modo di perfezionare uno Stato mediante reciproci rapporti di benevolenza tra principe e suddito, tra padre e figlio, tra fratelli, tra marito e moglie, tra amico e amico.  

Nella Sua conversazione con Nicodemo, il Nostro Signore Benedetto asserì d'essere la Luce del Mondo. Ma il Suo insegnamento è particolarmente meraviglioso inquantoché Egli disse che nessuno avrebbe compreso codesto insegnamento fin quando Egli fosse stato in vita e che la Sua morte e Risurrezione sarebbero state le condizioni necessarie a tale comprensione. Nessun altro maestro ha mai detto che gli era indispensabile una morte violenta per far chiari i propri insegnamenti. Ed ecco invece un Maestro che così poca importanza dava al Proprio insegnamento da affermare che l'unico modo in Cui Egli avrebbe mai tratto gli uomini a Sé non sarebbe stato la Sua dottrina, non sarebbe stato ciò che diceva, ma sarebbe stato la Sua Crocifissione.  

«Quando avrete innalzato il Figliuol dell'Uomo, allora conoscerete che sono Io» (Giov. 8: 28)  

Non disse neppure che avrebbero compreso il Suo insegnamento, sebbene che avrebbero còlto la Sua Personalità. Solo allora avrebbero capito, dopo averLo messo a morte, ch'Egli aveva predicato la Verità. La Sua morte, quindi, invece che l'ultimo di numerosi fallimenti sarebbe stata un successo glorioso, il culmine della Sua missione sulla terra.  

Di qui, la grande differenza tra le statue e i dipinti che raffigurano Budda e le statue e i dipinti che raffigurano Cristo. Budda è sempre seduto, ha gli occhi chiusi e le mani incrociate sul corpo grasso. Cristo, invece, non è mai seduto: è sempre innalzato e intronizzato. La Sua Persona e la Sua morte sono il cuore e l'anima della Sua lezione. La Croce, con tutto ciò che comporta, sta ancora una volta al centro della Sua vita.  

Venerabile Mons. FULTON J. SHEEN


mercoledì 16 novembre 2022

IL TEMPIO DEL SUO CORPO

 


VITA DI CRISTO 


IL TEMPIO DEL SUO CORPO  

I templi son luoghi ove Dio ha la Sua dimora. qual era, allora, il vero tempio di Dio? Forse che il vero tempio era il gran tempio di Gerusalemme così ricco di magnificenza materiale? Ovvia dovevano stimare i Giudei la risposta a codesta domanda; sennonché, proprio allora, Nostro Signore si accingeva a fare intendere che esisteva un altro tempio. I pellegrini, in quei giorni, salivano a Gerusalemme in occasione della Pasqua, e tra essi, dopo aver brevemente sostato a Cafarnao, era Nostro Signore, con i Suoi primi discepoli. Il tempio costituiva uno spettacolo davvero stupendo, specie da quando Erode ne aveva quasi completato la ricostruzione e gli ornamenti: un anno dopo, dal monte degli Ulivi, gli Apostoli stessi, a vederlo brillare al sole mattutino, sarebbero stati a tal punto colpiti dal suo splendore da invitare Nostro Signore e guardarlo e ad ammirarne la bellezza.  

S'intende che chiunque si recasse a sacrificare doveva pensare a procurarsi gli animali da immolare; e, inoltre, le vittime da sacrificare dovevano venir stimate e valutate secondo le norme fissate nel Levitico; di conseguenza, era sorto un fiorente commercio d'ogni specie d'animali propiziatori. A poco a poco, i venditori di agnelli e di colombi s'erano spinti sempre più vicino al tempio, così da inzepparne le strade di accesso, e alcuni di essi, e soprattutto i figli di Anna, avevano perfino occupato l'ingresso al Portico di Salomone, dove attendevano a vender colombi e bestiame e a cambiar moneta. Ogni visitatore, in occasione dei festeggiamenti, doveva pagare mezzo siclo per contribuire a coprire le spese del tempio, e, poiché non si accettava valuta straniera, i figli di Anna, a stare a quel che racconta Giuseppe Flavio, trafficavano, presumibilmente con gran lucro, nel cambio di monete. Ci fu un tempo in cui una coppia di colombi veniva venduta per una moneta d'oro che, oggi, in valuta americana, varrebbe circa due dollari e cinquanta cents; ma questo abuso venne corretto dal nipote del grande Hillel, il quale ridusse il prezzo di circa la metà. Monete d'ogni sorta, che avevano corso a Tiro, in Siria; in Egitto, in Grecia e a Roma, circolavano nel tempio, dando luogo a un prospero mercato nero tra i cambiavalute. Tanta era la corruzione che Cristo definì il tempio «una spelonca di ladri»; e il Talmud stesso, difatti, protestava contro coloro che avevano in tal modo contaminato quel luogo sacro.  

Notevole interesse suscitò fra i pellegrini quel primo ingresso di Nostro Signore nel sacro recinto. Era quella non soltanto la Sua prima apparizione pubblica al cospetto della nazione ma anche la Sua prima visita al tempio in qualità di Messia. A Cana, aveva già operato il Suo primo miracolo: adesso veniva nella casa del Padre per asserire un diritto filiale. E, trovatosi al centro di quella scena assurda, in cui le preghiere si mescolavano con l'offerta blasfema dei mercanti, e il tintinnio delle monete si accompagna al gridio del bestiame, il Nostro Signor Benedetto si sentì pieno di zelo per la casa del Padre Suo; cosicché, fatto un piccolo flagello con alcune cordicelle che giacevano d'intorno e che probabilmente erano servite ad allacciare i colli degli animali, si diede a scacciare e questi e coloro che ne traevano guadagno. D'altra parte, forse perché invisi al popolo, forse perché paventavano lo scandalo, quegli sfruttatori si guardarono bene dall'opporre la benché minima resistenza all'azione del Salvatore. Ne risultò una scena selvaggia: le bestie si precipitavano all'impazzata in tutte le direzioni e i cambiavalute afferravano quanto più denaro potevano mentre il Salvatore ne rovesciava le tavole. Inoltre, Egli aprì le gabbie dei colombi e rese ad essi la libertà.  «Portate via di qui queste cose, e non cambiate la casa del Padre mio in un mercato» (Giov. 2: 16)  

Perfino quelli che più avevano dimestichezza con Lui dovettero stupire nel vederLo, col flagello in pugno e gli occhi fiammeggianti, scacciare uomini e bestie dicendo:  «La mia casa sarà chiamata casa di orazione per tutte le nazioni, ma voi l'avete ridotta una spelonca di ladri» (Marco 11: 17)  

«I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: 'Lo zelo della tua casa mi consuma'. (Giov. 2: 17)  La parte del tempio dalla quale Nostro Signore scacciò i mercanti era nota col nome di Portico di Salomone, costituiva il lato orientale dell'Atrio dei Gentili, e doveva servire a simboleggiare che tutte le nazioni del mondo sarebbero state colà bene accette; ma i mercanti l'avevano insozzata; e adesso Egli aveva chiarito che il tempio era destinato a tutte le nazioni, e non soltanto a Gerusalemme: che era casa di orazione per i Magi come per i pastori, per le missioni estere come per le missioni nazionali.  

Chiamò il tempio «casa del Padre mio», affermando in pari tempo la Propria parentela filiale col Padre Celeste. Quanto a coloro che erano stati scacciati dal tempio, non Gli misero le mani addosso, e neppure Lo biasimarono come se Egli avesse fatto alcunché di male: si limitarono, invece, a chiederGli un segno, od una garanzia, che giustificasse le Sue azioni. Solitario e austero Egli se ne stava fra le monete che si sparpagliavano, le bestie che si disperdevano, e i colombi che volavano in questa e quella direzione, quando gli domandarono:  «Qual segno ci dai per fare queste cose?» (Giov. 2: 18)  

Sbalorditi com'erano dalla capacità da Lui manifestata di dar libero corso a una giusta indignazione (che costituiva l'altro aspetto del carattere letificante che Egli aveva palesato a Cana), Gli chiedevano un segno. Egli aveva già dimostrato loro d'esser Dio, perché ad essi appunto aveva detto che avevano profanato la casa del Padre Suo; epperò, chiedere un altro segno era come chiedere una luce per vedere una luce. E tuttavia Egli diè loro un secondo segno:  «Distruggete questo tempio, e in tre giorni lo riedificherò» (Giov.2: 19)  

Coloro che udirono tali parole non le dimenticarono mai più: tre anni dopo, al processo, modificandone un tantino i termini, le avrebbero rivolte contro di Lui, accusandoLo di aver detto:  «Io distruggerò questo tempio fatto da mano di uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro» (Marco 14: 58)  

E di quelle Sue parole si ricordarono quando Egli fu crocifisso:  «Dicevano: 'Tu che distruggi il tempio di Dio e in tre giorni lo riedifichi, salva te stesso, scendi dalla croce!'» (Marco 15: 29, 30)  

E da quelle Sue parole erano ossessionati quando domandarono a Pilato di badare a che il di Lui sepolcro fosse custodito:  «Ci siamo ricordati che quell'impostore da vivo ha detto: 'Dopo tre giorni risusciterò'. Dà ordini dunque che il suo sepolcro sia custodito fino al terzo giorno, affinché i suoi discepoli non vengano a rubare il corpo» (Matt. 27: 63, 64)  

Il tema del tempio riecheggiò durante il processo e il martirio di Stefano, allorché i persecutori produssero contro di lui la seguente accusa:  «Quest'uomo non cessa di proferir parole contro il luogo santo» (Atti 6: 13)  

Certo è che nel dire: «Distruggete», Egli aveva lanciato una sfida. Non aveva detto: «Se distruggete ...» Li aveva direttamente sfidati a mettere alla prova il Suo potere regale e sacerdotale mediante una Crocifissione. Alla quale avrebbe risposto con una Risurrezione.  

È importante osservare che nell'originale greco del Vangelo Nostro Signore non impiegò la parola hieron, ch'era quella con cui i Greci denominavano di solito il tempio, bensì la parola naos, che significava il Santo dei Santi del tempio. In sostanza, Egli disse: «Il tempio è il luogo in cui Dio ha la Sua dimora. Ora, voi avete profanato il vecchio tempio; ma c'è un altro Tempio. Distruggete questo nuovo Tempio, crocifiggendomi, e in tre giorni io lo farò risorgere. Anche se distruggerete il mio Corpo, che è la casa del Padre mio, con la mia Risurrezione darò a tutti i popoli il possesso del nuovo Tempio». È assai probabile che, così dicendo, il Nostro Signore Benedetto alludesse al Proprio Corpo. Ché i templi possono esser fatti tanto di pietra e di legno quanto di carne e di ossa. Il Corpo di Cristo era un Tempio, perché in Lui dimorava, corporalmente, la pienezza di Dio. E immediatamente i Suoi provocatori ribatterono dicendo:  «Ci son voluti quarantasei anni a edificare questo tempio, e tu lo rimetteresti in piedi in tre giorni» (Giov. 2: 20)  

Può darsi che si riferissero al tempio di Zorobabel, a edificare il quale erano occorsi appunto quarantasei anni: iniziata nel 559 a. c., anno primo del regno di Ciro, la fabbrica era terminata infatti nel 513, anno nono del regno di Dario. E può darsi anche che si riferissero alle modificazioni intraprese da Erode, che proseguivano, forse, da quarantasei anni. Tali modificazioni iniziate verso il 20 a. C., non furono compiute prima del 63 d. C. Ma, com'ebbe a scrivere Giovanni, Egli:  «parlava del tempio del suo corpo. Più tardi, quando fu risuscitato dai morti, i discepoli si ricordarono ch'egli aveva detto questo» (Giov. 2: 21,22)  

La memoria del primo tempio di Gerusalemme era legata a grandi re, come Davide che lo aveva progettato, e Salomone che lo aveva edificato; il secondo tempio risaliva ai grandi condottieri del ritorno dalla cattività; mentre la restaurazione del tempio di cui parliamo, col suo sfarzoso splendore, era imprescindibile dalla stirpe regale di Erode. Ma tutte queste ombre di templi dovevano essere cancellate dal vero Tempio, ch'essi avrebbero distrutto il Venerdì Santo. Nel momento in cui esso venne distrutto, il velo che ricopriva il Santo dei Santi fu squarciato dall'alto in basso, e squarciato fu anche il velo della carne di Lui, rivelando in tal modo il vero Santo dei Santi, il Sacro Cuore del Figliuolo di Dio.  

In un 'altra occasione, parlando ai Farisei, Egli adoperò la medesima immagine del tempio:  «Ora io vi dico che v'è qui Uno più grande del tempio» (Matt. 12: 6)  In tal modo rispose alla loro richiesta d'un segno. Il segno sarebbe stato la Sua morte e Risurrezione. Più tardi, ai Farisei, promise il medesimo segno, sotto il simbolo di Giona: la Sua autorità non sarebbe stata provata solamente dalla Sua morte, bensì dalla Sua morte e dalla Sua Risurrezione. La morte sarebbe stata prodotta e dalla malvagità umana e dalla Sua compiacenza; la Risurrezione, solo dall'onnipotenza di Dio. Allora, Egli chiamò il tempio casa del Padre Suo; tre anni dopo, quando se ne dipani per l'ultima volta, non lo chiamò più casa del Padre Suo, perché il popolo Lo aveva sconfessato; sebbene disse:  «Ecco, la vostra casa vi sarà lasciata deserta» (Matt. 23: 38)  Esso non era più la casa del Padre, bensì la casa loro. Il tempio terreno cessa di essere la dimora di Dio allorché diventa il centro d'interessi mercenari. Senza di Lui, non era più il caso di parlar di tempio.  

Qui, come altrove, Egli provò di essere il Solo che fosse venuto al mondo per morire. La Croce non sopravvenne alla fine della Sua vita: fin dal principio d'ogni cosa era sospesa sopra di Lui. Egli disse loro: «Distruggete», ed essi Gli dissero: «Crocifiggilo». Mai Tempio fu distrutto più sistematicamente del Suo Corpo. La cupola del Tempio, la Sua testa, fu incoronata di spine; le fondamenta, i Suoi sacri piedi, furono perforate con chiodi; i transetti, le Sue mani, furono allungati in forma di croce; il Santo dei Santi, il Suo Cuore, fu trafitto con una lancia.  

Satana Lo aveva tentato a compiere un sacrificio apparente esortandoLo a lanciarsi giù dal pinnacolo del tempio, e Nostro Signore aveva respinto quella forma spettacolare di sacrificio; ma quando quelli che avevano insozzato la casa del Padre Suo Gli chiesero un segno, Egli offrì loro un segno di specie diversa: quello del Suo sacrificio sulla Croce. Satana Gli aveva suggerito di precipitarsi giù, e ora Nostro Signor Benedetto disse che, in verità, Egli si sarebbe precipitato nel disonore della morte; ma il Suo sacrificio non sarebbe stato un gesto d'insulso esibizionismo, bensì un atto di autoumiliazione redentrice. Satana Gli aveva proposto di esporre il Suo Tempio alla possibilità di crollare per amore di esibizionismo, di ostentazione; e Nostro Signore, invece, espose il Tempio del Suo Corpo alla certezza di crollare per amor di salvezza e di espiazione. A Cana, aveva detto che andava verso la Sua «Ora»; nel tempio, disse che quell'Ora Cruciale avrebbe portato alla Sua Risurrezione. La Sua vita pubblica avrebbe adempito il disegno di tali profezie.  

Venerabile Mons. FULTON J. SHEEN 


sabato 20 agosto 2022

VITA DI CRISTO

 


L'INIZIO DELL'«ORA»  

Ogni volta che nei Vangeli esplode, simile a tuono, l'avvertimento della Croce, gli si accompagna il baleno della gloria della Risurrezione; ogni volta che in essi vediamo avvicinarsi l'ombra della sofferenza redentrice, scorgiamo anche la luce della libertà spirituale che le succederà. Codesto contrappunto di letizia e di dolore nella vita di Cristo si ritrova nel Suo primo miracolo, ch'ebbe luogo nel villaggio di Cana. Rientra nel Suo disegno che, essendo venuto a predicare la crocifissione della carne inquieta, Egli dovesse cominciare la Sua Vita Pubblica partecipando a un convito nuziale.  

Nell'Antico Testamento, il rapporto tra Dio e Israele era stato paragonato al rapporto tra uno sposo e la sposa: Nostro Signore fece intendere che il medesimo rapporto sarebbe ormai intercorso tra Lui e il nuovo Israele spirituale ch'Egli si accingeva a istituire: e lo Sposo sarebbe stato Lui, e la sposa la Sua Chiesa. E giacché era venuto a stabilire questa sorta di unione tra Sé e l'umanità redenta, era giusto che iniziasse il Suo ministero pubblico assistendo a un matrimonio. Nessun concetto nuovo espresse dunque S. Paolo quando, tempo dopo, scrisse agli Efesini che l'unione tra l'uomo e la donna stava a simboleggiare l'unione di Cristo con la Sua Chiesa.  

«E voi, o mariti, amate le vostre mogli, così come Cristo amò la Chiesa e diè se stesso per lei» (Efesini 5: 25)  

Occasione di grande allegrezza è un banchetto nuziale, e come simbolo di tale allegrezza vi vien servito vino. Alle nozze di Cana, che ebbero appunto codesto valore simbolico, la Croce non proiettò la sua ombra sull'allegrezza: sebbene, prima venne l'allegrezza, e poi la Croce; sennonché, una volta terminata l'allegrezza, l'ombra della Croce si proiettò sul convito.  

Già nel Giordano Nostro Signore era stato chiamato l'Agnello di Dio, e di tra i seguaci di Giovanni il Battista aveva anche scelto cinque discepoli: Giovanni l'Evangelista, Andrea, Pietro, Filippo e Natanaele; e costoro condusse a quello sposalizio, ch’era già cominciato e che durò, complessivamente, parecchi giorni. Il padre della sposa, a quei tempi, aveva più oneri che non abbia oggi, perché i festeggiamenti, e le spese, potevano seguitare per otto giorni. Probabilmente, una delle ragioni per cui venne a mancare il vino fu che Nostro Signore si era tirato dietro tanti ospiti non invitati, ché, fin dal grande scalpore prodottosi sulle rive del Giordano allorché i cieli si erano aperti per confermare ch'Egli era il Figlio di Dio, la Sua presenza aveva, via via, attirato centinaia di vagabondi, venuti anch'essi al festino. A quelle nozze Egli non si recava come il falegname del villaggio, ma come il Cristo, o il Messia: prima che i festeggiamenti avessero fine, si sarebbe data infatti la rivelazione dell'appuntamento Suo con la Croce.  

Maria, la Madre Sua Benedetta, era presente al convito nuziale. È questa l'unica volta, nella vita di Nostro Signore, in cui Maria venga menzionata prima del Figlio. Sarebbe stata, Maria, lo strumento del primo miracolo di Lui, ovverossia del segna ch'Egli era davvero ciò che aveva asserito di essere: il Figlio di Dio. Già ella era stata lo strumento della santificazione di Giovanni il Battista ancora nel seno della madre; adesso, con la sua intercessione, fece echeggiare lo squillo annunziatone d'un lungo corteggio di miracoli, e così valida fu codesta intercessione da indurre, in ogni tempo, le anime a invocare il suo nome per il compimento di altri miracoli nell'ordine della natura e della grazia.  

Giovanni l'Evangelista, ch'era già stato scelto quale discepolo, partecipava al convito; e fu lui, appunto, uno dei testimoni oculari e auricolari insieme di ciò che Maria operò a Cana. Egli fu poi con lei anche ai piedi della Croce, e nel suo Vangelo consegnò fedelmente entrambi gli eventi. Nel tempio e nel Giordano, Nostro Signore aveva ricevuto la benedizione e il consenso del Padre a iniziare l'opera di Redenzione; a Cana, ricevé l'assenso della Sua genitrice umana. Più tardi, nel terribile isolamento del Calvario, si verificò un tenebroso momento quando il Padre parve ritrarsi da Lui, ond'Egli citò il salmo che così comincia:  

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Salmo 21: 2)  

E un altro tenebroso momento si verificò quando Egli parve ritrarsi dalla madre:  

«Donna, ecco tuo figlio» (Giov. 19: 26)  

Allorché a Cana venne a mancare il vino, giova osservare come Maria si desse pensiero degli ospiti più che non se ne desse il servo mescitore; perché fu lei, e non costui, ad accorgersi ch’essi mancavano di vino. Con spirito assoluto di preghiera Maria si rivolse al suo Divin Figliuolo e, interamente confidando in Lui, affatto certa della di Lui misericordia, disse:  

«Non hanno più vino» (Giov. 2: 3)  

La richiesta non era fatta a titolo personale: ella era già una mediatrice per tutti coloro che anelavano la pienezza della letizia. Non è mai stata, del resto, una mera spettatrice delle esigenze altrui, delle quali invece si è resa sempre totalmente e volontariamente partecipe. La madre usò quel particolare potere che appunto in quanto madre aveva sul Figlio, e che era generato dall'amore reciproco; ed Egli rispose con apparente esitazione:  

«Donna, che cosa è ciò per me e per te?» «L'ora mia non è ancor venuta» (Giov. 2: 4)  

Si considerino, anzitutto, le parole: «Che cosa è ciò per me e per te?» E una frase ebraica, difficilmente traducibile in inglese; S. Giovanni la rese affatto letteralmente in greco, e la Vulgata conservò codesto senso letterale in Quid mihi et tibi, che significa: «Che cosa a me e a te?»  

Il vocabolo «ciò» («that») non risulta nella frase originaria: è stato aggiunto nella versione inglese per rendere il concetto più intelligibile. Knox traduce liberamente: «Perché m'importuni con questo?» («Why dost thou trouble Me with that?»)  

Per meglio intendere quel ch’Egli voleva significare, si considerino le parole: «L'ora mia non è ancora venuta». L'«ora», è ovvio, si riferisce alla Sua Croce: la parola «Ora», ogni volta che viene impiegata nel Nuovo Testamento, viene impiegata in rapporto alla Sua Passione e Morte e Gloria. Sette volte il solo Giovanni allude a questa «Ora», e per esempio:  

«Perciò cercavano di prenderlo; ma nessuno gli mise le mani addosso, perché la sua ora non era ancora venuta» (Giov. 7: 30)  

«Queste parole disse Gesù nel gazofilacio, insegnando nel tempio; e nessuno lo prese perché non era ancora venuta l'ora sua» (Giov. 8: 20)  

Gesù rispose loro: 'È venuta l'ora nella quale il Figliuolo dell'Uomo sarà glorificato!» (Giov. 12: 23)  

«Ora la mia anima è turbata. E che dirò io? Padre, liberami da quest'ora. Ma io sono venuto appunto per quest'ora» (Giov. 12: 27)  

«Ecco, viene l'ora, anzi è già venuta, in cui voi sarete dispersi, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me» (Giov. 16: 32)  

«Così parlò Gesù. Poi, levati gli occhi al cielo, disse: 'Padre, l'ora è venuta: glorifica il tuo Figliuolo, affinché il tuo Figliuolo glorifichi te'.» (Giov. 17: 1)  

L'«Ora», quindi, si riferiva alla Sua glorificazione attraverso la Crocifissione e Risurrezione e Ascensione. A Cana, Nostro Signore si riferì al Calvario e disse che non era giunto ancora il momento prestabilito per l'inizio dell'opera di Redenzione. La madre Gli chiedeva un miracolo, ed Egli fece intendere che un miracolo rivelatore della Sua Divinità sarebbe stato il principio della Sua Morte. Quando agli uomini si fosse rivelato come il Figlio di Dio, se ne sarebbe attirato l'odio, perché il male può tollerare la mediocrità, ma non la suprema bontà. Il miracolo ch'ella chiedeva sarebbe stato inequivocabilmente legato alla Sua Redenzione.  

Due volte, nel corso della Sua vita, la Sua natura umana parve restia ad assumersi il fardello della sofferenza. Nell'Orto, Egli domandò al Padre se non fosse possibile rimuover da Lui quel calice di dolore; ma subìto dopo si sottomise al volere del Padre: «Non la mia volontà sia fatta, ma la tua». E la medesima apparente riluttanza manifestò dinanzi al desiderio della madre. Cana fu la prova generale del Golgota. Il problema ch'Egli si poneva non era se sapesse, o meno, in quel particolare momento, iniziare la Sua vita pubblica e andare a morte: tutto stava, bensì, nel sottomettere la Sua riluttante natura umana all'obbedienza alla Croce. Tra l'esortazione del Padre ad affrontare pubblicamente la morte e l'esortazione della madre a intraprendere la vita pubblica c'è una sorprendente similitudine. In entrambi i casi trionfò l'obbedienza: a Cana, l'acqua venne mutata in vino; sul Calvario, il vino si mutò in sangue.  

Alla madre, insomma, Egli disse ch'ella aveva virtualmente pronunziato la di Lui sentenza di morte. Poche sono le madri che mandano i figli a combattere; ma quella, adesso, sollecitava effettivamente l'ora del conflitto mortale del Figlio con le forze del male. Aderendo alla richiesta di lei, Egli avrebbe dato principio all'ora della Propria morte e glorificazione; cosicché sarebbe andato alla Croce investito d'un duplice mandato: l'uno del Padre Suo Celeste, l'altro della Sua madre terrena. Non appena ebbe acconsentito a iniziare la Propria «Ora», si affrettò a dirle che da quell'istante i suoi rapporti con Lui sarebbero mutati. Fino allora, fin quando cioè Egli aveva vissuto segretamente, ella era stata riconosciuta soltanto come la madre di Gesù; ma adesso ch'Egli era stato varato sull'onda dell'opera di Redenzione, ella non sarebbe stata più solamente la madre Sua, ma anche la madre di tutti gli umani fratelli ch'Egli avrebbe redenti. E per indicare questa nuova parentela, a lei si rivolse non già come «Madre», ma come «Madre Universale», cioè «Donna». Quale monito significarono codeste parole per quanti vivevano al lume dell'Antico Testamento! Alla caduta di Adamo, Iddio parlò a Satana, predicendogli che avrebbe messo inimicizia tra il di lui seme e «la Donna», perché il bene avrebbe avuto una progenie al pari del male. Il mondo non avrebbe avuto soltanto la Città dell'Uomo della quale Satana rivendicava il possesso, ma anche la Città di Dio. E «la Donna» ebbe un seme, ed era appunto il suo Seme quello che ora partecipava al convito nuziale: il Seme che sarebbe caduto nella terra e sarebbe morto e indi risorto a nuova vita.  

Nel momento in cui l’«Ora» cominciò, ella divenne «la Donna»: avrebbe cioè avuto altri figli, non secondo la carne, ma secondo lo spirito. Se Egli doveva essere il nuovo Adamo, il fondatore di una umanità redenta, ella doveva essere la nuova Eva, la madre di quella nuova umanità. In quanto che Nostro Signore era un uomo, ella era la madre Sua; e in quanto che Egli era un salvatore, ella era anche la madre di tutti quelli che Egli avrebbe salvati. Giovanni, ch'era presente a quello sposalizio, fu anche presente nel culmine dell'«Ora», sul Calvario, e udì Nostro Signore rivolgersi a lei dalla Croce chiamandola «Donna «e dicendole poi: «Ecco tuo figlio». E fu come se lui, Giovanni, fosse ora il simbolo della nuova famiglia di lei. Nostro Signore, dopo ch'ebbe risuscitato dai morti il figlio della vedova di Naim, disse: «Lo si renda a sua madre»; sulla Croce, consolò la madre Sua donandole un altro figlio, Giovanni, e con lui l'intera umanità redenta.  

E quando risorse, si rese a lei, per dimostrare che, mentre aveva acquistato altri figli, ella non aveva perduto Lui. A Cana, trovò conferma la profezia fatta da Simeone nel tempio: da quel momento, cioè, qualunque cosa avesse coinvolto il Figlio suo avrebbe coinvolto anche lei; qualunque cosa fosse accaduta a Lui sarebbe accaduta a lei. Se Egli era destinato alla Croce, anch'ella vi era destinata; e se adesso Egli era sul punto di cominciare la Sua vita pubblica, anch'ella era sul punto di cominciare una vita nuova, non più soltanto come la madre di Gesù ma come la madre di tutti coloro che Gesù, il Salvatore, avrebbe redenti. Egli dava a Se stesso il nome di «Figlio dell'Uomo», un titolo che abbracciava tutta l'umanità; d'ora innanzi, ella sarebbe stata la «Madre degli Uomini». Com'ella Gli stava accanto mentre Egli dava inizio alla Propria Ora, così Gli sarebbe stata accanto nel momento culminante del termine di essa. Quando, fanciullo dodicenne, Lo aveva portato via dal tempio, aveva agito in base alla convinzione che la Sua Ora non era ancora venuta; ed Egli, allora, le aveva obbedito ed era ritornato con lei a Nazaret. Adesso, Egli le aveva detto che la Sua Ora non era ancora giunta, ma ella Lo esortò a principiarla, ed Egli obbedì. A Cana, ella diè Lui, Salvatore, ai peccatori; sulla Croce, Egli diè lei, rifugio, ai peccatori.  

Quando Egli fece intendere che il Suo primo miracolo Lo avrebbe tratto alla Croce e alla morte, e che da quel momento ella sarebbe diventata una Madre Dolorosa, ella si rivolse subito ai servi mescitori, dicendo:  

«Fate tutto quello che vi dirà» (Giov. 2: 5)  

Che stupendo commiato! Mai più ella tornerà a parlare nella Scrittura. Sette volte, nelle Scritture, aveva parlato, ma adesso che Cristo si era rivelato, come il sole nel pieno fulgore della Sua Divinità, lei, la Madonna, si oscurò come la luna, quale ebbe a descriverla successivamente Giovanni.  

Le sei brocche vennero riempite di acqua, per una capacità complessiva di cinquecento litri circa, ed ecco, per adoperare la bella immagine di Richard Crashaw, «le acque inconsapevoli videro il loro Dio e si fecero rosse». Il primo miracolo somigliò in qual certo modo la creazione: si compi, cioè, in virtù del «Verbo». Così buono era il vino da Lui creato che lo sposo fu rimproverato dal capo del banchetto con le seguenti parole:  

«Tutti servono in principio il vino buono; poi, quando sono brilli, quello meno buono; tu invece hai riservato il buono fino a questo momento» (Giov. 2: 10)  

Invero il vino migliore era stato riservato. Fino a quando non si era data la rivelazione, il vino meno buono erano stati i profeti, i giudici e i re, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Giosuè: tutti simili all'acqua che aspettava il miracolo dell'Atteso delle Nazioni. Di solito, i piaceri del mondo precedono la feccia e l'amaro; ma Cristo invertì l'ordine e ci diede il convito dopo il digiuno, la Risurrezione dopo la Crocifissione, la gioia della Pasqua dopo il dolore del Venerdì Santo.  

«Gesù in Cana di Galilea compi questo suo primo miracolo e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui» (Giov. 2: 11)  

La Croce è dappertutto. Un uomo che distenda le braccia in posizione di riposo compone inconsapevolmente l'immagine della ragione dell'avvento del Figlio dell'Uomo. Parimenti, a Cana l'ombra della Croce si proiettò attraverso una «Donna», e il primo rintocco dell'«Ora» risuonò come la campana annunziatrice d'una esecuzione capitale. In tutti gli altri episodi della Sua vita venne prima la Croce, poi la letizia; a Cana, invece, venne prima la letizia delle nozze - le nozze dello Sposo con la Sposa dell'umanità redenta - e solo in un secondo tempo ci sovviene che la Croce è la condizione di tale estasi.  

Cosicché, durante un convito nuziale Egli fece ciò che non aveva fatto nel deserto, operò sotto gli occhi degli uomini ciò che si era rifiutato di operare alla presenza di Satana. Satana Lo aveva esortato a mutar le pietre in pane così da poter divenire un Messia di natura economica; la madre Lo esortò a mutare l'acqua in vino così da poter divenire un Salvatore. Satana Lo aveva tentato dalla morte; Maria Lo «tentò» alla morte e alla Risurrezione. Satana aveva cercato di distoglierLo dalla Croce; Maria lo mandò verso di essa. Più tardi, Egli avrebbe preso il pane che Satana aveva detto mancare agli uomini, e il vino che la madre Sua aveva detto mancare ai convitati alle nozze, ed entrambi avrebbe mutato nella figurazione della Sua Passione e morte, invitando poi gli uomini a rinnovarla, codesta figurazione, «fino alla consumazione dei secoli». L'antifona della Sua vita continua a risuonare: Chiunque altro sia venuto al mondo è venuto per vivere; Egli è venuto per morire.  

Venerabile Mons. FULTON J. SHEEN


lunedì 31 gennaio 2022

VITA DI CRISTO

 


L'AGNELLO DI DIO

Ora che aveva signoreggiato la tentazione suprema di diventare il Re degli uomini empiendone gli stomachi, o solleticandoli con prodigi d'ordine scientifico, o concludendo un trattato col principe delle tenebre, Nostro Signore era pronto per presentarsi innanzi al mondo come una vittima da offrirsi in sacrificio per il peccato. Dopo il lungo digiuno ed il cimento, vennero gli angeli e Lo servirono. Indi Egli fece ritorno al Giordano e si mescolò, inosservato per un po' di tempo, alla folla che stava intorno al Battista.  

Il giorno innanzi, Giovanni aveva parlato di Nostro Signore con una delegazione di sacerdoti e Leviti del tempio di Gerusalemme, venuti a domandargli: «Chi sei tu?» Sapevano, costoro, che il tempo era maturo per l'avvento di Cristo, o Messia, ed ecco il perché del loro deliberato domandare. Però Giovanni aveva risposto di «non essere il Cristo», ma solo la Voce che annunziava il Verbo. Come Cristo aveva rifiutato i titoli del potere esteriore, così Giovanni rifiutò il titolo che i Farisei volevano conferirgli, ed era anzi il più alto: quello d'Inviato di Dio.  

Il giorno dopo, Nostro Signore si trovava nella folla, e Giovanni Lo riconobbe di lontano, e immediatamente si riportò alla eredità ebraica del simbolo e della profezia ben nota a tutti i suoi ascoltatori:  «Ecco l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo» (Giov. 1: 29)  

Giovanni affermò così che l'oggetto principale della nostra aspettativa non doveva essere un maestro, né un dispensatore di precetti moralistici, né un operatore di miracoli: l'oggetto principale della nostra aspettativa doveva essere, invece, Colui ch'era stato indicato come un sacrificio per i peccati del mondo. La Pasqua si avvicinava e le strade erano piene di gente che spingeva o trascinava al tempio agnellini d'un anno da offrire in sacrificio. Fra tutti quegli agnelli, Giovanni indicò l'Agnello che, quando fosse stato sacrificato, avrebbe messo fine a tutti i sacrifici che si compivano nel tempio, perché avrebbe tolto i peccati del mondo.  

Giovanni era la voce integratrice dell'Antico Testamento, nel quale l'agnello aveva avuto una parte così importante. Nella Genesi, troviamo Abele che offre un agnello, la primizia del suo gregge, in un sacrificio cruento per l'espiazione del peccato; tempo dopo, Dio chiese ad Abramo il sacrificio del figlio Isacco: simbolo profetico del sacrificio che il Padre Celeste avrebbe offerto nella persona del Figlio Suo stesso. Quando Isacco domandò: «Dov'è l'agnello?», Abramo rispose:  «Figlio mio, Dio si preparerà da sé la vittima per l'olocausto» (Genesi 22: 8)  

In risposta alla domanda: «Dov'è l'agnello da sacrificare?», mossa al principio della Genesi, aveva risposto adesso Giovanni, indicando Cristo e dicendo: «Ecco l'Agnello di Dio». Dio aveva finalmente provveduto l'Agnello. La Croce, ch’era stata difesa durante le tentazioni, si mostrava ora sulle rive del Giordano.  

Non v'era famiglia che non si preoccupasse d'avere il proprio agnello pasquale; e coloro che adesso portavano i propri agnelli a Gerusalemme, dove l'Agnello di Dio diceva che doveva essere sacrificato, sapevano che l'agnello era il simbolo della liberazione d'Israele dalla schiavitù politica dell'Egitto; e Giovanni disse ch'esso era anche il simbolo della liberazione dalla schiavitù spirituale del peccato. L'Agnello sarebbe venuto in forma di uomo, perché il profeta Isaia aveva predetto:  «E il Signore fece ricadere su di lui le iniquità di tutti noi. È stato sacrificato perché lo ha voluto, e non ha aperto la sua bocca» (Isaia 53: 6, 7)  

Il più delle volte l'agnello veniva usato come vittima di sacrificio per la sua innocenza e. mitezza; sicché era un emblema quanto mai adatto al carattere del Messia. È supremamente significativo che Giovanni il Battista abbia chiamato Cristo l'Agnello di Dio, ché Egli non era l'agnello delle genti, né l'agnello dei Giudei, né l'agnello di questo o quel padrone umano, ma l'Agnello di Dio. Quando infine l'Agnello venne sacrificato, ciò non accadde perché Egli fosse vittima di coloro ch'erano più forti di Lui, ma perché adempì il Suo volontario compito d'amore verso i peccatori. Non fu l'uomo a offrire questo sacrificio, sebbene fosse l'uomo a sgozzare la vittima: fu Dio che diede Se stesso.  

Pietro, ch'era un discepolo di Giovanni e che quel giorno, probabilmente, si trovava là, avrebbe più tardi chiarito il significato dell'«Agnello» scrivendo:  «Voi ben sapete che non a prezzo di cose corruttibili, quali l'oro e l'argento, siete stati riscattati ... ma col prezioso sangue di Cristo, dell'Agnello immacolato e incontaminato» (1Pietro 1: 18, 19)  

Dopo la Risurrezione e l'Ascensione, l'Apostolo Filippo s'imbatté in un ministro della regina degli Etiopi, il quale andava leggendo un passo del profeta Isaia che prediceva l'Agnello:  «Lo han menato al macello come una pecora; e come un agnello muto dinanzi a colui che lo tosa, così egli non ha aperto la bocca» (Atti 8: 32)  

E Filippo gli spiegò che quell'Agnello era stato appunto sacrificato ed era risorto da morte e asceso al cielo. San Giovanni l'Evangelista, anche lui quel giorno al Giordano (perché discepolo di Giovanni il Battista), ristette poi ai piedi della Croce quando l'Agnello venne sacrificato; e, alcuni anni dopo, scrisse che l'Agnello sgozzato sul Calvario era stato sgozzato nell'intenzione fin dal principio del mondo. La Croce non era stata un pensiero successivo.  

«... l'agnello sgozzato fin dalla fondazione del mondo» (Apocalisse 13: 8)  Il che significa che l'Agnello era stato sgozzato, diciamo, per decreto divino da ogni eternità, anche se il compimento temporale aveva dovuto aspettare il Calvario. La Sua morte era stata conforme al progetto eterno di Dio, al disegno prestabilito di Dio; ma il principio dell'amore che s'immola era eterno. La redenzione era nella mente di Dio prima che si gettassero le fondamenta del mondo: Dio, che è al di fuori del tempo, aveva previsto da ogni eternità la caduta del genere umano. E la sua redenzione. E la terra stessa sarebbe stata il teatro di questo grande evento. L'agnello era l'antetipo eterno d'ogni sacrificio. Quando giunse l'Ora della Croce e il centurione trafisse con la lancia il costato di Nostro Signore, si compi la profezia dell'Antico Testamento:  «E volgeranno lo sguardo a me, ch'essi hanno trafitto» (Zaccaria 12: 10)  

La locuzione adoperata da Giovanni il Battista per significare come l'Agnello di Dio «togliesse» il peccato del mondo si ritrova parallela e in ebraico e in greco; il Levitico descrive il capro espiatorio che  «porterà via in luogo disabitato tutte le loro iniquità, e sarà lasciato andar nel deserto» (Levitico 16: 22)  

Come il capro espiatorio cui erano stati addossati i peccati veniva condotto fuori dalla città, così l'Agnello di Dio, che toglieva davvero i peccati, sarebbe stato condotto fuori dalla città di Gerusalemme.  

Cosicché, l'Agnello che Dio promise di provvedere ad Abramo perché potesse offrirlo in sacrificio, e tutti gli agnelli e capri successivi offerti nel corso della storia dagli Ebrei e dai pagani, traevano valore dall'Agnello di Dio che stava davanti a Giovanni. Non fu Nostro Signore, questa volta, a profetizzare la Croce; fu, invece, l'Antico Testamento per i l tramite di Giovanni, il quale dichiarò esser Egli, per indicazione divina, un sacrificio per il peccato, e il solo rimovitore delle colpe degli uomini.  

Gli Israeliti avevano per lungo tempo compreso come la remissione del peccato fosse, in certo modo, connessa con le offerte espiatorie, ed erano giunti pertanto a supporre che nella vittima fosse innata una qualche virtù: il peccato era nel sangue, e perciò il sangue doveva essere versato. Nessuna meraviglia, dunque, se, dopo l'offerta della Vittima sul Calvario e la Sua Risurrezione da morte, Egli riaffermò come Gli fosse stato necessario patire.  

L'applicazione a noi dei meriti di quel sangue redentore divenne il tema del Nuovo Testamento. Nell'Antico Testamento, quando si sacrificavano gli agnelli, un po' del sangue veniva asperso sul popolo; e quando l'Agnello di Dio venne ad immolarsi, taluni chiesero, con orrenda ironia, che anche questa volta il sangue venisse asperso!  

«Il sangue suo ricada su noi e sui nostri fìgli!» (Matt. 27: 25)  Ma dall'aspersione del Sangue dell'Agnello tanti e tanti altri uomini ricevettero anche la gloria. Così poi Giovanni l'Evangelista li raffigurò nella gloria eterna:  

«E vidi e udii una voce di molti angeli intorno al trono e agli animali e ai vecchi, ed era il loro numero miriadi di miriadi, migliaia di migliaia, che dicevano a gran voce: 'Degno l'agnello, che è stato sgozzato, di ricever la potenza e la ricchezza e la sapienza e la forza e l'onore e la gloria e la benedizione.  'E ogni creatura ch'è nel cielo e sulla terra e sotto la terra e sul mare, e tutte le cose in essi contenute, udii che dicevano:  'A colui che siede sul trono e all'agnello, la benedizione e la gloria e il potere per i secoli de' secoli! '» (Apocalisse 5: 11-13)  

Mons. FULTON J. SHEEN

mercoledì 17 novembre 2021

VITA DI CRISTO - «Tu vuoi essere adorato, Satana; ma adorar te significa servirti, e servire a te è schiavitù.

 


La terza tentazione  

L'assalto finale avvenne sulla cima del monte. Fu il terzo tentativo di distoglierLo dalla Sua Croce, e questa volta mediante un invito alla coesistenza del bene con il male. Egli era venuto sulla terra a istituire un regno comportandosi come l'Agnello che vada al sacrificio: o che non poteva scegliere un modo più rapido d'istituire il Suo regno, concludendo una convenzione in base alla quale ottenesse tutto quel che desiderava, ossia il mondo, ma senza la Croce?  

«Il diavolo lo condusse su di un alto monte e gli mostrò in un attimo tutti i regni della terra, dicendogli: 'Io ti darò tutta questa potenza e tutta la gloria di questi regni, perché a me sono stati dati e li dò a chi voglio. Se dunque ti prostrerai per adorarmi, sarà tutto tuo'.» (Luca 4: 5-7)  

Tutte millanterie, in verità, risuonano le parole di Satana. Gli erano stati effettivamente consegnati i regni del mondo? Nostro Signore chiamò Satana «il principe del mondo», ma non era stato Dio a consegnargli alcuno dei regni del mondo, sebbene il genere umano, attraverso il peccato. E tuttavia, pur se Satana, secondo quanto affermava, governava i regni della terra col consenso dei popoli, non era davvero in suo potere darli a chi volesse. Satana mentiva per tentar di nuovo Nostro Signore ad allontanarsi dalla Croce, mediante una scorciatoia. A Nostro Signore offriva il mondo a una condizione: ch’Egli adorasse Satana. L'adorazione, s'intende, comportava servitù e la servitù, consisteva in questo: che, essendo il regno del mondo soggetto al potere del peccato, il nuovo Regno che Nostro Signore stava per istituire doveva essere soltanto una continuazione del vecchio regno. Insomma, Egli poteva aver la terra purché promettesse di non mutarla; poteva avere il genere umano sempre che promettesse di non redimerlo. Una sorta di tentazione, questa, che il Nostro Signor Benedetto si trovò, poi, ad affrontare un'altra volta, allorché la folla tentò di fare di Lui un re terreno.  

«Sapendo che sarebbero venuti a rapirlo per farlo re, fuggi di nuovo solo sul monte» (Giov. 6: 15)  

E dinanzi a Pilato, disse che avrebbe istituito un altro Regno, ma che esso non sarebbe stato di quelli che poteva offrir Satana. Quando Pilato Gli domandò: «Sei tu dunque re?», rispose Gesù:  «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi combatterebbero perché non fossi consegnato ai Giudei; ma ora il mio regno non è di qua» (Giov. 18: 36)  

Il regno che offriva Satana era del mondo, e non dello Spirito. E sarebbe stato ancora il regno del male, e i cuori dei suoi sudditi non sarebbero stati rigenerati.  

Satana, in effetti, aveva detto: «Tu sei venuto, o Cristo, per conquistare il mondo ma il mondo è già mio; e io te lo darò se verrai a un compromesso e mi adorerai. Dimentica la tua Croce, il tuo Regno dei Cieli. Se vuoi il mondo, eccolo, è ai tuoi piedi. Sarai salutato con osanna più clamorosi di quelli che Gerusalemme abbia mai cantato ai suoi re, e ti saranno risparmiate le pene e le sofferenze della Croce di contraddizione».  

Ma Nostro Signore, sapendo che quei regni potevano essere conquistati solo dalla Sua passione e morte, rispose a Satana:  «Va' via, Satana; poiché sta scritto: 'Adora il Signore Dio tuo, e servi a lui solo'.» (Matt. 4: 10) 

È lecito immaginare che queste terse e inequivocabili parole siano così risonate all'orecchio di Satana: «Tu vuoi essere adorato, Satana; ma adorar te significa servirti, e servire a te è schiavitù. Io non voglio il tuo mondo, fin quando esso rechi il terribile fardello della colpa. In tutti i regni che tu affermi essere tuoi, i cuori dei tuoi sudditi desiderano tuttora qualcosa che tu non puoi dargli, ossia la pace dell'anima e l'amore disinteressato. Io non voglio il tuo mondo, del quale neanche tu sei padrone.  

«Anch'io sono un rivoluzionario, come la madre mia cantò nel suo Magnificat. Insorgo contro di te, principe del mondo. Ma la mia rivoluzione non si compie mediante la spada vibrata esternamente per vincere con la forza, sebbene internamente contro il peccato e contro tutte le cose che mettono la guerra fra gli uomini. Prima vincerò il male nel cuore degli uomini, e poi potrò vincere il mondo. Vincerò il tuo mondo penetrando nei cuori dei tuoi disonesti collettori d'imposte, dei tuoi falsi giudici, dei tuoi Commissari del Popolo, e li redimerò dalla colpa e dal peccato, e li rimanderò mondi ai loro mestieri. Dirò loro che nessun vantaggio potranno mai conseguire dalla conquista del mondo intero se perderanno le loro anime immortali. E tu, tienti pure i tuoi regni, intanto. Meglio perdere tutti i tuoi regni, meglio perdere il mondo intero, che perdere una sola anima! l regni del mondo devono essere innalzati al Regno di Dio; il Regno di Dio non sarà abbassato al livello dei regni del mondo. Per ora, tutto quel che voglio di questa terra è uno spazio sufficiente a erigervi una Croce: là ti permetterò di espormi dinanzi ai crocicchi del tuo mondo! Là ti permetterò d'inchiodarmi in nome delle città di Gerusalemme, Atene e Roma, ma io risorgerò da morte, e allora ti accorgerai, tu che credevi d'aver vinto, di essere stato schiacciato, mentre io marcerò vittorioso sulle ali del mattino! Vorresti, o Satana, ch'io diventassi l'anticristo: dinanzi a questa richiesta blasfema, la pazienza deve far posto alla giusta collera. 'Allontanati da me, o Satana!'»  

Nostro Signore discese dal monte, povero come quando lo aveva salito. Terminata la Sua vita terrena e risorto da morte, su un altro monte avrebbe parlato agli Apostoli:  

«Quanto agli undici discepoli, andarono in Galilea, sul monte indicato loro da Gesù.  

Vedendolo, l'adorarono ... Gesù avvicinandosi parlò loro così:  

'Ogni potere è stato dato a me in cielo e in terra.  

Andate dunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto quanto v'ho comandato.  

Ed ecco io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo'.» (Matt. 28: 16-20)  

Venerabile Mons. FULTON J. SHEEN