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lunedì 7 ottobre 2024

VITA DI SAN CARLO BORROMEO

 


Studia leggi nella città di Pavia, e vi è dottorato. An. 1554  

Finito ch'ebbe Carlo il corso degli studi d'umanità, il conte suo padre lo mandò a studiar leggi civili e canoniche nella città di Pavia, ove è lo studio pubblico, l’anno di nostra salute 1554 ed il sedicesimo della sua età. Quivi sebbene la solita licenza de' giovani studenti e le frequenti occasioni di peccare che il demonio suole tendere, come tanti lacci, all'incauta gioventù, lo potevano facilmente levare dalla buona strada incominciata, massimamente essendo allora i costumi de' giovani di quello studio pur troppo corrotti, non si lasciò però egli mai muovere né pure un puntino e né meno rallentare; anzi si applicò davvero agli studi e vi attese con ogni assiduità e diligenza. Onde oltre le pubbliche lezioni, soleva anche per il desiderio che aveva di far profitto, andare ogni giorno a conferire i suoi studi con Francesco Alziato, suo lettore, - che egli poi fece promuovere al cardinalato - col quale si tratteneva per molto tempo ricevendone particolari aiuti; sicché egli fece gran progresso. Ma per essere alquanto impedito nella pronuncia, molto dedito alle cose dello spirito e solito serbare gran silenzio, molti, i quali non lo conoscevano intrinsecamente, stimavano che avesse i sensi sopiti e non fosse di molta capacità di lettere; benché la cosa fosse in tutto contraria, come dagli effetti si vide poi nel progresso della vita sua. Come si legge anche dell'angelico dottore san Tomaso d'Aquino, il quale era poco stimato dai suoi condiscepoli per l'istessa cagione di serbare lungo silenzio, onde solevano chiamarlo bue mutolo.  

E non solamente fu diligente Carlo ed assiduo negli studi, ma si mostrò ancora pubblicamente uno specchio d'onesti e cristiani costumi; poiché vestì sempre l'abito clericale con molta modestia, guardandosi da ogni peccato e mal esempio non solamente nelle opere, ma eziandio nel parlare, fuggendo sino le parole leggi ere e vane; custodì immacolata la sua pudicizia, schivando ogni minima occasione che la potesse macchiare. E sebbene egli era da' scolari e da' cittadini ancora molto onorato e corteggiato, non volle però mai pigliare intrinseca famigliarità con alcuno, tanto per non restare impedito nella perseveranza delle sue solite divozioni; orazioni e frequenza de' santi sacramenti, quanto per isfuggire le occasioni che apportar suole molte volte la compagnia di commettere qualche eccesso nella conversazione. Ma per quanto egli stesse in questa guisa assai ritirato, si seppe nondimeno accomodare anche in tal maniera alla conversazione degli altri, che praticò molto bene quella virtù che vien chiamata da Aristotile con voce greca eutrapelia, che noi chiamiamo urbanità, avverò civiltà e piacevolezza. Sicché non si mostrava cogli amici né difficile, né rustico, come dice il detto filosofo; ma serbando una prudente mediocrità procedeva con tanta sapienza, che non era sprezzato come aspro, né spregiato come persona vile. Onde, accompagnando la sua modestia e gravità con molta piacevolezza ed affabilità, si rendeva amabile a tutti e veniva perciò ad essere amato e riverito da tutte le nazioni che allora erano in quello studio. E tanto più che di già sin d'allora cominciava a spirare soavi odori di santità, la quale obbliga molto le persone all'amore e riverenza. E gli uomini prudenti veggendo questo suo santo procedere, facevano giudizio che egli fosse di grandissima aspettazione e riuscita, come si vide poi seguirne meravigliosi effetti.  

Mentre perseverava Carlo negli studi con felicissimo corso, si compiacque Dio di chiamare a se il conte Giberto suo padre, che era in età d'anni quarantasette. Per la qual cagione gli convenne lasciare lo studio e pigliarsi il carico del governo di casa sua; poiché sebbene il conte Federico suo fratello fosse maggiore di lui, fu nondimeno giudicato che ad esso convenisse questo peso per la rara sua bontà e prudenza. Il che fu come un preambolo e preparazione al governo che poscia egli aver doveva di questa Chiesa di Milano. Onde pensar possiamo che ciò avvenisse per Divina Provvidenza, affinché egli cominciasse sin d'allora ad esercitarsi nella pratica e modo di ben governare; poiché tra le condizioni del buon vescovo annoverate dall'apostolo san Paolo, una è di saper governar bene la casa sua, dicendo egli, che se di questa non sa aver cura, non sarà né anche diligente nel governo della Chiesa a lui commessa. E davvero ci diede grandissimo saggio di se stesso e del suo talento grande nel governare, avendo in quel poco spazio di tempo che si fermò a casa, disposte talmente bene le cose di casa sua, che ognuno ne restò con meraviglia soddisfatto.  

 Né solamente si vide in lui allora questa prudenza e attitudine, ma mostrò anche un ardente desiderio di riforma circa la disciplina ecclesiastica ed i costumi cristiani, che egli nel suo cuore acceso aveva, come apparve chiaramente dal seguente fatto. Servivano nella chiesa della sua abazia in Arona alcuni monaci di quegli antichi della religione di san Benedetto, i quali non ritenevano  quasi più altro che l'abito della loro monastica professione; nel resto erano molto indisciplinati, licenziosi e discoli. Occorrendo a Carlo di fermarsi nel detto suo castello di Arona, mentre attendeva alla cura di sua casa, ebbe piena informazione della mala vita di questi monaci, e dispiacendogli infinitamente che la chiesa sua fosse servita da religiosi di mal esempio e che le cose del culto divino fossero maltrattate, fece ferma risoluzione di provvedervi; e sebbene egli fosse così giovane e molto occupato ed anche inesperto in somiglianti cose, si pose nondimeno all'impresa della riforma di essi monaci, e con efficacissimi rimedi eziandio di prigione e di altre penitenze corporali, li ridusse all'osservanza del loro istituto con gran mutazione di vita e non senza ammirazione del popolo di quel castello.  

Mentre questo religioso giovane stava occupato pieno di santi pensieri intorno al governo delle cose sue famigliari in Arona, il nemico dell'umana generazione che molto odiava la sua bontà e particolarmente la castità tanto da esso pregiata e custodita, pensò che fosse allora tempo molto opportuno di poterlo deviare dalla retta sua strada, e farlo cadere in quegli errori ne' quali l'incauta gioventù facilmente trabocca: poiché essendo egli allora di sì verde età, sciolto da' legami dell'ubbidienza paterna e signore molto ricco, poteva agevolmente, volendo, darsi ad ogni piacere e diletto avendone tanta comodità, quanto un altro suo pari bramar potesse; e ciò sarebbe stato anche senza scandalo per la corruttela di quei miseri tempi, non parendo disdicevole allora a un giovane il prendersi que' piaceri e passatempi ch'egli voleva. Onde per l'opportunità del tempo e della comodissima occasione tese il demonio a Carlo molto astutamente le sue insidiose reti. E perché egli poco praticava cogli altri e guardavasi benissimo da tutte le occasioni di offender Dio, trovò strada il maligno ingannatore di dargli comodità buonissima di peccare in segreto. Perciò suggerì ad uno di casa sua di molta autorità - a cui dispiaceva quella sorta di vita tanto ritirata che egli faceva, desiderando che vivesse con maniera e conversazione cavalleresca - di condurgli segretamente in camera una vaga giovane in ora comodissima per far male; ma il casto giovane che portava fisso nel cuore il timor di Dio, restò dalla vista di lei tutto impaurito, veggendosi tanto vicino al precipizio; e come fosse stata un velenoso serpe, subitamente fuggì da lei, come che il rimedio migliore per schivare il vizio carnale sia la fuga di ogni sua occasione. E benché poi quel tale lo schernisse, dicendogli che egli era uomo inetto e di niun valore ed altre cose simili vilipendiose, attribuendo la virtù a dappocaggine, egli punto non si curò di quelle menzogne, stimando più il timor di Dio, che i vani e fallaci detti degli uomini mondani.  

Rassettate ch'egli ebbe le cose di casa sua, ritornò a Pavia, ove si diede con tanta assiduità a finire il corso de' suoi studi, che si cagionò una grave infermità di catarro che lo travagliò assai e lo astrinse a tralasciarli di nuovo per attendere a curarsi. E ordinandogli i medici che egli si pigliasse qualche ricreazione per sollevamento del male, non volle ammettere altro che la musica sola a lui naturalmente grata; e questa ancora parcamente per non aprire la strada a qualche sensuale diletto, né a cosa disdicevole alla modestia clericale. Si riebbe poi da quel male ma non però perfettamente, perché il catarro gli fu famigliare fino appresso gli ultimi anni suoi, essendosegli poi essiccato per la somma sua astinenza, in modo tale che era venuto in proverbio: il rimedio del cardinale Carlo Borromeo. Mentre egli perseverava nello studio in Pavia, il cardinale de Medici, suo zio, gli conferì due dignità ecclesiastiche, l'abazia di Romagnano e il priorato di Calvenzano, i quali titoli accettò egli con animo di impiegarli bene ed onoratamente; ed ebbe sin d'allora il pensiero di aiutare la patria sua ed ancora altri paesi con fondare un collegio in quella città per aiutare molti poveri giovani studiosi di virtù, i quali non hanno le facoltà necessarie per mantenersi allo studio, desiderando principalmente che fossero ammaestrati ne' buoni costumi e nella disciplina cristiana: il che egli eseguì poi, come si dirà a suo luogo.  

A vendo finalmente posto termine al corso de' suoi studi, fu dottorato nelle leggi civili e canoniche, essendo entrato nell'anno ventesimosecondo dell'età sua; e ciò fu nel fine dell'anno 1550 allora appunto quando il Sacro Collegio de' Cardinali era in Conclave per l'elezione del nuovo Pontefice. Circa quest'azione del dottorato non si hanno da tacere alcuni segni che l'accompagnarono con dimostrazioni di quanto seguir doveva nella persona di lui. Poiché non solamente fu numeroso e straordinario il concorso de' togati, de' cavalieri, de' soldati e grande l'applauso e la festa della città di Pavia, mostrando ognuno particolare allegrezza di questa sua promozione; ma avvenne ancora che essendo nell'atto del dottorato l'aria tutta nuvolosa e oscura, quando Giovanni Francesco Alziato milanese, primario lettore di quello studio, diede principio all'orazione che fece nel dottorarlo, videsi subito l'aula luminosa e chiara per l'apparire di un improvviso raggio risplendente di sole. Dal che l'oratore, quasi divino presagio del futuro, prese bellissima occasione di predire come dovevano nel mondo lampeggiare le sante e gloriose imprese di esso laureando; ed alla scoperta egli manifestò le grandezze che poi si videro a meraviglia risplendere in lui. E a questo detto dell'Alziato accostandosi molti altri, andavano predicando poscia pubblicamente che egli doveva essere un grande uomo nella Chiesa di Dio.

 

giovedì 2 maggio 2024

VITA DI SAN CARLO BORROMEO

 


Nascita di Carlo, e suoi progressi ne' primi anni. 


Nacque Carlo nel castello di Arona lungi da Milano quaranta miglia - luogo principale tra le molte castella che possedé casa Borromea sul Lago Maggiore - l'anno di nostra salute 1538 in mercoledì, il secondo giorno di ottobre, nel pontificato di Paolo III, reggendo il sacro impero Carlo V, in una camera della Rocca, che si dimandava la Camera dei tre Laghi per vedersi da essa il Lago da tre parti, la quale fa poi dedicata ad uso pio, per ospitale degl'infermi di quella fortezza. La cui natività fu particolarmente favorita dalla Maestà Divina con un mirabile segno celeste; poiché apparve in quell'ora miracolosamente sopra la camera un lucidissimo splendore a guisa d'una fascia di sole larga circa sei braccia che si estendeva da una parte all'altra della Rocca, cioè dalla torretta fino al falcone, luoghi di sentinella, e che durò da due ore avanti giorno (a tal ora fu il nascimento di Carlo) fino all'apparir del sole, rendendo l'oscura notte quasi chiarissimo giorno, non senza gran meraviglia del castellano, de' soldati ch'erano in guardia e di molti altri che ciò videro, come si legge ne' processi prodotti per la canonizzazione di questo Santo dal detto di cinque testimoni giurati. Il che fu poi giudicato, che volesse denotare il lume meraviglioso che Carlo apportar doveva a tutta la Chiesa santa, quando a risplendere cominciarono nel mondo le sue grandi virtù ed eroiche operazioni, a somiglianza dello sciame d'api che discese in bocca a sant'Ambrogio essendo nella culla, e di altri santi illustri le cui natività accompagnate furono da simili segni prodigiosi, significanti gli effetti ed opere stupende ch'eglino poscia nel mondo produrre dovevano. Il Surio particolarmente nel tomo II racconta, che apparve un simile splendore parimente nel nascimento di san Suvitberto vescovo Verdense in Inghilterra. 

Nell'uscire dalle fasce cominciò a mostrarsi Carlo tutto pio e divoto e molto inclinato alla professione ecclesiastica, abborrendo le cose aliene dal culto divino; e fatto più adulto, fuggendo le leggerezze e i trattenimenti fanciulleschi, mostrava di non aver altro diletto e gusto, che di fabbricare altarini, cantar lodi al Signore e fare altre somiglianti cose, che davano manifesto indizio della singolar sua vocazione. Così scrive il Metafraste di quel gran vescovo Atanasio, il quale essendo ancor fanciullo, per certi trattenimenti che imitavano il vescovo, Iddio lo scoprì ad Alessandro patriarca d'Alessandria per vescovo suo successore. Né solamente Iddio manifestò questo figliuolo in quei primi anni per un gran sacerdote, ma anche per uomo di primo governo; poiché essendosi egli rinchiuso un giorno nascostamente in una camera del paterno castello di Lunghignana. vi si tratteneva in far diversi compartiti di certi pomi che ivi erano; ed essendo ripreso assai da un servitore che quivi lo ritrovò, perché si fosse nascosto in quel luogo con gran travaglio de' suoi parenti i quali dubitavano ch'egli si fosse affogato nella fossa del castello, gli rispose con mirabile sentimento in questa guisa: perché mi cercavate voi? Io ero qua a compartire il mondo in diverse parti e regioni: dando ad intendere come i suoi pensieri erano indirizzati a grandi imprese e governi; e se ne vide l'effetto particolarmente nel pontificato di Pio IV, quando egli appunto ebbe in mano il governo di tutta la Chiesa, come poi a suo luogo diremo.  

 Ora crescendo egli negli anni profittava insieme ancora nella divozione verso Dio, mostrando ogni dì maggiore inclinazione alle cose sacre ed alla professione ecclesiastica. Il che scorgendo il conte Giherto suo padre lo fece ascrivere nella milizia clericale, vestendolo da prete prima che uscisse dallo stato della puerizia. Cosa che fu di sommo contento al divoto figliuolo, essendo ciò totalmente conforme alla sua naturale inclinazione; sforzandosi poscia egli con cristiani e religiosi costumi di non mostrarsi indegno di quell'abito santo. Però dopo lo studio, delle lettere, nel quale faceva i dovuti progressi conforme all'età sua, aiutato particolarmente da' buoni maestri (da uno de' quali, che fu poi anche mio maestro, intesi io molte cose de' buoni portamenti e del diligente studio di questo figliuolo) dopo lo studio, dico, si ritirava a' suoi altarini ed oratori, ricreandosi ivi spiritualmente, mentre i suoi compagni si trattenevano in giuochi puerili. E quando già fatto di maggior età, usciva alle volte di casa, finito lo studio, non andava con essi loro vagando per la città, ma visitava i sacri tempi; e perché egli era molto di voto della beatissima Vergine, frequentava assai le due chiese a lei dedicate in Milano, una appresso san Celso e l'altra nella piazza del castello.  

Era in oltre molto ritirato, modesto e sincero nel suo trattare, fuggendo i vani ragionamenti e tutte le cose che potevano distrarre i suoi santi pensieri dal servizio di Dio. Però quando si facevano in casa sua giuochi d'armi, o altri spassi, benché onesti, per trattenimento del conte Federico suo fratello, egli li fuggiva non volendo né menò starvi presente. E se talvolta era invitato a veder giuocare alla palla nella piazza avanti il suo palazzo, o non accettava l'invito, o se non ricusava, si accomodava almeno a una finestra in guisa che da altri non potesse esser veduto, per non far cosa che paresse indegna, o indecente all'abito e professione sua. 

Non gli parve di ricusare la musica per avere qualche lecita ricreazione, della quale piuttosto si dilettò; ma si guardò però sempre di non cantare cose lascive, e se a caso gli occorrevano, le taceva, cantando le note solamente; il cui modo serbò egli poscia anche negli anni più maturi. finché poi la lasciò affatto. Frequentava assai l'orazione, e, invitato dal buon esempio del conte Giberto suo padre, riceveva ogni settimana con molto apparecchio i santi sacramenti della confessione e comunione, come medicine salutari e cibi sostanziosi dell'anima sua.  

Non fu questo suo modo di vivere così innocente e senza le tentazioni ed insidie del nemico infernale,  eziandio in quella sua tenera età. Poiché i suoi compagni di scuola ed i propri domestici ancora si burlavano di lui e delle sue divozioni per distrarlo da esse; di che egli però poco si curava, mostrando di non far conto veruno de' vani giudizi e pareri del pazzo mondo. Vero è che altri, poi molto più saggi ed illuminati, l'ammiravano, e lo predicavano per figliuolo di bontà grande e per uno specchio di buon esempio massimamente in quei tempi che si viveva con molta libertà.  

E fra gli altri vi era un venerando sacerdote dimandato il sig. Bonaventura Castiglione, nobilissimo di sangue e di età grave e matura, proposto della collegiata chiesa di sant'Ambrogio maggiore di Milano, uomo di molta dottrina, zelantissimo della religione cattolica, della disciplina ecclesiastica e pieno d'immenso desiderio di vedere una vera riforma nella Santa Chiesa; come l'attesta in suo epitaffio intagliato in marmo, riposto vicino alla porta di detta chiesa che corrisponde alla canonica. Questo venerando vecchio ogni volta che vedeva Carlo, si fermava a rimirarlo come fosse cosa molto rara, e gli faceva riverenza e l'accarezzava, che rendeva ad altri non poca meraviglia. Ed essendo interrogato da alcuni gentiluomini una volta perché l'onorasse, quasi profetizzando, rispose loro in questa guisa: voi non conoscete questo giovanetto; egli sarà il riformatore della Chiesa e farà cose grandi.  

 Cresciuto Carlo negli anni, gli fu conferita dal conte Giulio Cesare Borromeo, suo zio, l'abazia de' santi Graziano e Felino posta nel già detto luogo d'Arona, la quale ha buonissime rendite. Ed egli considerando l'obbligo che hanno i commendatari e beneficiati di spendere bene le entrate ecclesiastiche, cominciò a pensare di voler aiutare i poverelli coi frutti di quest'abazia; come molto inclinato ch'egli era alla pietà e misericordia. E per eseguire questo suo pio disegno ne parlò a suo padre dicendogli, ch'ei conosceva molto bene come le rendite dell'abazia non si potevano unire con le entrate patrimoniali, né spendere per uso della casa; poiché sono patrimonio di Cristo, di cui  egli era semplice amministratore e non padrone assoluto, e che perciò ne aveva da rendere a Dio conto strettissimo. Pertanto lo supplicava a contentarsi che si effettuasse quanto conveniva. Il buon padre nelle cui mani era l'amministrazione di esse rendite, non si contristò punto di tal richiesta, anzi se né rallegrò grandemente scorgendo in questo figliuolo tanta pietà e religione. Onde lagrimando per tenerezza di cuore ne rese molte grazie a Dio, e con sommo suo contento lasciò a lui libera l'amministrazione di quelle entrate; e pigliando Carlo volentieri questo carico, soddisfece poscia al suo pio intento dando ai poveri tutto quello che gli avanzava del suo conveniente bisogno. E se talvolta gli accadeva di dar danari a suo padre per occorrente causa, ne faceva nota e voleva in ogni modo, che gli fossero restituiti per distribuirli a' poveri; così giusto dispensatore de' beni ecclesiastici si mostrò egli fin da quelli suoi teneri anni.  

GIOVANNI PIETRO GIUSSANO SACERDOTE MILANESE

domenica 12 novembre 2023

VITA DI SAN CARLO BORROMEO

 


Della patria e de' parenti di San Carlo  

La cura e protezione che Gesù Cristo nostro Signore promise avere della Chiesa sua, è stata sempre molto manifesta e particolarmente in questa sua Chiesa di Milano che fu fondata colla predicazione di san Barnaba apostolo, primo nostro vescovo (1), avendola provvista in tutti i tempi di ottimi pastori, in dottrina e bontà di vita, i quali come vivi empi della vita apostolica, l'hanno difesa da molte insidie del comune nostro nemico, illustrata colle loro famose gesta e governata con gran pietà e giustizia, ristorando sovente i danni che per la varietà de' tempi, rivoluzioni di Stati e per altri sinistri accidenti patiti aveva. Ond'ella ora si gloria fra il numero di centoventisei vescovi ed arcivescovi di vederne trentacinque numerati nel catalogo de' Santi e dalla Chiesa santa venerati, venti de' quali furono suoi cittadini discesi tutti da illustri famiglie, risplendendo fra così gloriosa schiera di beati pastori il gran dottore sant'Ambrogio, come Patrono e protettore suo principale.  

Ma in questo nostro secolo nel quale, per le lunghe guerre d'Italia e di altri regni e per molti contrari avvenimenti, erano ridotte le cose del culto divino e della disciplina cristiana a male stato non solamente in questa città e diocesi di Milano ma nella sua provincia ed in assai altre parti, molto singolare si può chiamare la grazia e raro il favore che l'infinita sua bontà si è degnala farle, con mandare a questo governo un arcivescovo dotato di virtù, di zelo pastorale e di santità così grande, che non solo ha ristorati i danni ch'ella patiti aveva, con restituire gli antichi santi istituti e riformare i costumi del clero e popolo suo, ma anche con la santissima vita, illustri esempi ed ottimi ordini da lui ritrovati è stato di norma e regola ad altri vescovi e pastori delle anime, con frutto universale di tutta la cristiana repubblica. Questi fu san Carlo Borromeo prete cardinale del titolo di santa Prassede, la cui vita e gesta gloriose mi sono io ora, col favore divino, proposto di scrivere.  

E per serbare lo stile degli altri scrittori dovrei cominciare dalla nobiltà del sangue della sua casa e narrare l'antichità della sua famiglia con le persone graduate ed illustrissime che da quella in tutti i tempi discesero. Ma perché ciò è notissimo al mondo, sapendosi come casa Borromeo da cui egli discese, è antichissima in Italia ed in Milano, congiunta in parentado co' primi principi e signori d'Italia, e da essa, come da proprio seminario di uomini famosi in armi, in lettere, in prelature, in governi di Stati ed in ogni altra nobile ed onorata professione, ne sono usciti sempre in tutti i secoli soggetti rari ed al  mondo molto utili, tralascerò questa narrativa e dirò solamente alcune buone qualità de' suoi genitori, affinché s'intenda, che come da albero buono (conforme all'oracolo divino) ne vengono buoni frutti; così da questi pii e religiosi parenti nacque al mondo un santo figliuolo.  

Il padre suo fu il conte Giberto figliuolo del conte Federico Borromeo nobilissimo milanese; e la madre Margherita de Medici, sorella di Giovan Giacomo de Medici - marchese di Melegnano famosissimo capitano dell'imperatore Carlo V e generale alcuna volta del suo esercito - e del cardinale Giovanni Angelo de Medici, che assunto al pontificato si chiamò Pio IV. Genitori veramente non meno chiari per lo splendore della singolar bontà di vita e costumi cristiani, che illustrissimi per la nobiltà del sangue (1). Il conte Giberto non tralignò punto dalla bontà de' suoi antecessori; perciò si mostrò egli sempre cavaliere onoratissimo di spirito e di religione cristiana singolare. Fu dotato di molta prudenza, in modo che in quelle rivoluzioni dello Stato di Milano, al tempo delle guerre d'Italia. si mantenne continuamente in possesso de' suoi feudi e dominii; conservandosi nella buona grazia delle due corone di Francia e di Spagna, fra se stesse allora nemiche; sicché essendo poi restato l'imperatore Carlo V signore di questo l'onorò col titolo di senatore, di colonnello e di altri gradi principali. Egli era molto timorato di Dio e tanto divoto che si confessava e si comunicava ogni settimana recitando genuflesso ogni giorno tutto l'uffizio del Signore, avendo per il lungo orare i calli duri sopra le ginocchia. Si rinchiudeva talvolta ancora a far orazione, vestito di sacco, in una cappelletta fabbricata a guisa di grotta nella Bocca di Arona, mostrando molta inclinazione  alla vita solitaria. Verso i suoi vassalli era tanto pio, che lo tenevano piuttosto in luogo di padre che di signore.  

Aveva particolarmente gran cura degli orfani e delle povere zitelle, maritandone molte; mostrandosi così liberale in far limosine a' poverelli, che ne veniva talora ripreso dagli amici per esser egli carico di figliuoli. Ai quali rispondeva in questa guisa: se io avrò cura de' poveri, Dio ancora terrà cura de' miei figliuoli. E con uno spirito quasi profetico disse così una volta: dopo la morte mia, i miei figliuoli saranno in istato grande e non avranno bisogno d'altri. Il che poi si vide appieno verificato. Osservava egli inviolabilmente questo santo costume di non mangiare, finché non aveva fatta la limosina ai poveri. Per le quali buone e rare qualità sue lasciò di se stesso una perpetua e felice memoria. Onde quando si videro risplendere nel mondo le opere meravigliose e la vita santissima di Carlo, dicevasi che Dio nostro Signore aveva voluto premiare i meriti del padre in dargli un santissimo figliuolo.    

Non punto fu a lui dissimile la contessa Margherita; poiché rilucevano in lei virtù tali che la rendevano come uno specchio di buon esempio e molto onorata fra le matrone milanesi; fuggendo ella in maniera il commercio del mondo pieno allora di mali esempi e di molte profanità, che quasi non usciva di casa se non per udire la Messa ogni mattina nella vicina sua chiesa parrocchiale e per visitare talora i monasteri delle sacre vergini ed altri luoghi divoti, mostrando nella sua modesta ed umile compostezza esterna, come di dentro ella era molto unita e congiunta con Dio. Tali furono i genitori di Carlo; e ben conveniva che un figliuolo di tanta santità di vita avesse origine da così pii e religiosi parenti.  

Ebbero sette figliuoli, due maschi e cinque femmine, che allevarono con gran diligenza e cura nel timore di Dio. Il primo fu il conte Federico, che dal Sommo Pontefice Pio IV, suo zio, venne poscia onorato con molte dignità e gradi, ed ebbe per moglie donna Virginia della Rovere  sorella germana del serenissimo Francesco Maria duca di Urbino, oggi vivente; l'altro maschio si chiamò Carlo, di cui tosto parleremo. La prima delle femmine, dimandata Isabella, si fece monaca nel monastero detto delle vergini in Milano, chiamandosi suor Corona. Le altre quattro si congiunsero in matrimonio tutte con principi grandi; cioè Camilla, con don Cesare Gonzaga principe di Molfetta; Geronima, con Fabrizio Gesualdo primogenito del principe di Venosa; Anna, con Fabrizio primogenito di Marc' Antonio Colonna principe romano; ed Ortensia col conte Annibale Sittich d'Altaemps, fratello del cardinale di questo nome, figliuolo di un'altra sorella di Pio IV, per nome Clara - non essendo Ortensia figlia della contessa Margherita, ma di un'altra signora della casa de' conti dal Verme che ebbe per moglie il conte Giberto dopo la morte della contessa Margherita.  

Queste signore furono tutte onoratissime e molto esemplari; ma donna Anna avanzò assai le altre in pietà e divozione; poiché invitata dall'esempio del fratello cardinale, si diede tutta al Signore, frequentando l'orazione ed i santi sacramenti con sentimenti e spirito tale, che dopo la sacra comunione particolarmente con sì gran forza d'affetto orando per lo spazio di due ore, con Dio si univa che pareva immobile. Amava sommamente i poveri, e per far loro maggiori limosine si levava fin del proprio vitto e vestito; e furono così segnalate tutte le altre sue virtù cristiane, ch'ella era tenuta e stimata come santa massimamente da' suoi domestici, i quali le virtù e bontà di lei più intimamente conoscevano. La quale dopo la morte di don Fabrizio suo marito - che passò a miglior vita oppresso da febbre acuta con segni nella guerra di Portogallo, generale delle galere di Sicilia - attese a Dio con più fervore ed al governo de' suoi figliuoli nella città di Palermo in Sicilia, ove Marc’Antonio suo suocero che l'amava unicamente, risiedeva per vice-re; e quivi poi morì santamente l'anno 1582 essendo da tutti pianta e particolarmente dai poveri, ai quali parve d'aver perduta la propria madre. 

GIOVANNI PIETRO GIUSSANO SACERDOTE