Studia leggi nella città di Pavia, e vi è dottorato. An. 1554
Finito ch'ebbe Carlo il corso degli studi d'umanità, il conte suo padre lo mandò a studiar leggi civili e canoniche nella città di Pavia, ove è lo studio pubblico, l’anno di nostra salute 1554 ed il sedicesimo della sua età. Quivi sebbene la solita licenza de' giovani studenti e le frequenti occasioni di peccare che il demonio suole tendere, come tanti lacci, all'incauta gioventù, lo potevano facilmente levare dalla buona strada incominciata, massimamente essendo allora i costumi de' giovani di quello studio pur troppo corrotti, non si lasciò però egli mai muovere né pure un puntino e né meno rallentare; anzi si applicò davvero agli studi e vi attese con ogni assiduità e diligenza. Onde oltre le pubbliche lezioni, soleva anche per il desiderio che aveva di far profitto, andare ogni giorno a conferire i suoi studi con Francesco Alziato, suo lettore, - che egli poi fece promuovere al cardinalato - col quale si tratteneva per molto tempo ricevendone particolari aiuti; sicché egli fece gran progresso. Ma per essere alquanto impedito nella pronuncia, molto dedito alle cose dello spirito e solito serbare gran silenzio, molti, i quali non lo conoscevano intrinsecamente, stimavano che avesse i sensi sopiti e non fosse di molta capacità di lettere; benché la cosa fosse in tutto contraria, come dagli effetti si vide poi nel progresso della vita sua. Come si legge anche dell'angelico dottore san Tomaso d'Aquino, il quale era poco stimato dai suoi condiscepoli per l'istessa cagione di serbare lungo silenzio, onde solevano chiamarlo bue mutolo.
E non solamente fu diligente Carlo ed assiduo negli studi, ma si mostrò ancora pubblicamente uno specchio d'onesti e cristiani costumi; poiché vestì sempre l'abito clericale con molta modestia, guardandosi da ogni peccato e mal esempio non solamente nelle opere, ma eziandio nel parlare, fuggendo sino le parole leggi ere e vane; custodì immacolata la sua pudicizia, schivando ogni minima occasione che la potesse macchiare. E sebbene egli era da' scolari e da' cittadini ancora molto onorato e corteggiato, non volle però mai pigliare intrinseca famigliarità con alcuno, tanto per non restare impedito nella perseveranza delle sue solite divozioni; orazioni e frequenza de' santi sacramenti, quanto per isfuggire le occasioni che apportar suole molte volte la compagnia di commettere qualche eccesso nella conversazione. Ma per quanto egli stesse in questa guisa assai ritirato, si seppe nondimeno accomodare anche in tal maniera alla conversazione degli altri, che praticò molto bene quella virtù che vien chiamata da Aristotile con voce greca eutrapelia, che noi chiamiamo urbanità, avverò civiltà e piacevolezza. Sicché non si mostrava cogli amici né difficile, né rustico, come dice il detto filosofo; ma serbando una prudente mediocrità procedeva con tanta sapienza, che non era sprezzato come aspro, né spregiato come persona vile. Onde, accompagnando la sua modestia e gravità con molta piacevolezza ed affabilità, si rendeva amabile a tutti e veniva perciò ad essere amato e riverito da tutte le nazioni che allora erano in quello studio. E tanto più che di già sin d'allora cominciava a spirare soavi odori di santità, la quale obbliga molto le persone all'amore e riverenza. E gli uomini prudenti veggendo questo suo santo procedere, facevano giudizio che egli fosse di grandissima aspettazione e riuscita, come si vide poi seguirne meravigliosi effetti.
Mentre perseverava Carlo negli studi con felicissimo corso, si compiacque Dio di chiamare a se il conte Giberto suo padre, che era in età d'anni quarantasette. Per la qual cagione gli convenne lasciare lo studio e pigliarsi il carico del governo di casa sua; poiché sebbene il conte Federico suo fratello fosse maggiore di lui, fu nondimeno giudicato che ad esso convenisse questo peso per la rara sua bontà e prudenza. Il che fu come un preambolo e preparazione al governo che poscia egli aver doveva di questa Chiesa di Milano. Onde pensar possiamo che ciò avvenisse per Divina Provvidenza, affinché egli cominciasse sin d'allora ad esercitarsi nella pratica e modo di ben governare; poiché tra le condizioni del buon vescovo annoverate dall'apostolo san Paolo, una è di saper governar bene la casa sua, dicendo egli, che se di questa non sa aver cura, non sarà né anche diligente nel governo della Chiesa a lui commessa. E davvero ci diede grandissimo saggio di se stesso e del suo talento grande nel governare, avendo in quel poco spazio di tempo che si fermò a casa, disposte talmente bene le cose di casa sua, che ognuno ne restò con meraviglia soddisfatto.
Né solamente si vide in lui allora questa prudenza e attitudine, ma mostrò anche un ardente desiderio di riforma circa la disciplina ecclesiastica ed i costumi cristiani, che egli nel suo cuore acceso aveva, come apparve chiaramente dal seguente fatto. Servivano nella chiesa della sua abazia in Arona alcuni monaci di quegli antichi della religione di san Benedetto, i quali non ritenevano quasi più altro che l'abito della loro monastica professione; nel resto erano molto indisciplinati, licenziosi e discoli. Occorrendo a Carlo di fermarsi nel detto suo castello di Arona, mentre attendeva alla cura di sua casa, ebbe piena informazione della mala vita di questi monaci, e dispiacendogli infinitamente che la chiesa sua fosse servita da religiosi di mal esempio e che le cose del culto divino fossero maltrattate, fece ferma risoluzione di provvedervi; e sebbene egli fosse così giovane e molto occupato ed anche inesperto in somiglianti cose, si pose nondimeno all'impresa della riforma di essi monaci, e con efficacissimi rimedi eziandio di prigione e di altre penitenze corporali, li ridusse all'osservanza del loro istituto con gran mutazione di vita e non senza ammirazione del popolo di quel castello.
Mentre questo religioso giovane stava occupato pieno di santi pensieri intorno al governo delle cose sue famigliari in Arona, il nemico dell'umana generazione che molto odiava la sua bontà e particolarmente la castità tanto da esso pregiata e custodita, pensò che fosse allora tempo molto opportuno di poterlo deviare dalla retta sua strada, e farlo cadere in quegli errori ne' quali l'incauta gioventù facilmente trabocca: poiché essendo egli allora di sì verde età, sciolto da' legami dell'ubbidienza paterna e signore molto ricco, poteva agevolmente, volendo, darsi ad ogni piacere e diletto avendone tanta comodità, quanto un altro suo pari bramar potesse; e ciò sarebbe stato anche senza scandalo per la corruttela di quei miseri tempi, non parendo disdicevole allora a un giovane il prendersi que' piaceri e passatempi ch'egli voleva. Onde per l'opportunità del tempo e della comodissima occasione tese il demonio a Carlo molto astutamente le sue insidiose reti. E perché egli poco praticava cogli altri e guardavasi benissimo da tutte le occasioni di offender Dio, trovò strada il maligno ingannatore di dargli comodità buonissima di peccare in segreto. Perciò suggerì ad uno di casa sua di molta autorità - a cui dispiaceva quella sorta di vita tanto ritirata che egli faceva, desiderando che vivesse con maniera e conversazione cavalleresca - di condurgli segretamente in camera una vaga giovane in ora comodissima per far male; ma il casto giovane che portava fisso nel cuore il timor di Dio, restò dalla vista di lei tutto impaurito, veggendosi tanto vicino al precipizio; e come fosse stata un velenoso serpe, subitamente fuggì da lei, come che il rimedio migliore per schivare il vizio carnale sia la fuga di ogni sua occasione. E benché poi quel tale lo schernisse, dicendogli che egli era uomo inetto e di niun valore ed altre cose simili vilipendiose, attribuendo la virtù a dappocaggine, egli punto non si curò di quelle menzogne, stimando più il timor di Dio, che i vani e fallaci detti degli uomini mondani.
Rassettate ch'egli ebbe le cose di casa sua, ritornò a Pavia, ove si diede con tanta assiduità a finire il corso de' suoi studi, che si cagionò una grave infermità di catarro che lo travagliò assai e lo astrinse a tralasciarli di nuovo per attendere a curarsi. E ordinandogli i medici che egli si pigliasse qualche ricreazione per sollevamento del male, non volle ammettere altro che la musica sola a lui naturalmente grata; e questa ancora parcamente per non aprire la strada a qualche sensuale diletto, né a cosa disdicevole alla modestia clericale. Si riebbe poi da quel male ma non però perfettamente, perché il catarro gli fu famigliare fino appresso gli ultimi anni suoi, essendosegli poi essiccato per la somma sua astinenza, in modo tale che era venuto in proverbio: il rimedio del cardinale Carlo Borromeo. Mentre egli perseverava nello studio in Pavia, il cardinale de Medici, suo zio, gli conferì due dignità ecclesiastiche, l'abazia di Romagnano e il priorato di Calvenzano, i quali titoli accettò egli con animo di impiegarli bene ed onoratamente; ed ebbe sin d'allora il pensiero di aiutare la patria sua ed ancora altri paesi con fondare un collegio in quella città per aiutare molti poveri giovani studiosi di virtù, i quali non hanno le facoltà necessarie per mantenersi allo studio, desiderando principalmente che fossero ammaestrati ne' buoni costumi e nella disciplina cristiana: il che egli eseguì poi, come si dirà a suo luogo.
A vendo finalmente posto termine al corso de' suoi studi, fu dottorato nelle leggi civili e canoniche, essendo entrato nell'anno ventesimosecondo dell'età sua; e ciò fu nel fine dell'anno 1550 allora appunto quando il Sacro Collegio de' Cardinali era in Conclave per l'elezione del nuovo Pontefice. Circa quest'azione del dottorato non si hanno da tacere alcuni segni che l'accompagnarono con dimostrazioni di quanto seguir doveva nella persona di lui. Poiché non solamente fu numeroso e straordinario il concorso de' togati, de' cavalieri, de' soldati e grande l'applauso e la festa della città di Pavia, mostrando ognuno particolare allegrezza di questa sua promozione; ma avvenne ancora che essendo nell'atto del dottorato l'aria tutta nuvolosa e oscura, quando Giovanni Francesco Alziato milanese, primario lettore di quello studio, diede principio all'orazione che fece nel dottorarlo, videsi subito l'aula luminosa e chiara per l'apparire di un improvviso raggio risplendente di sole. Dal che l'oratore, quasi divino presagio del futuro, prese bellissima occasione di predire come dovevano nel mondo lampeggiare le sante e gloriose imprese di esso laureando; ed alla scoperta egli manifestò le grandezze che poi si videro a meraviglia risplendere in lui. E a questo detto dell'Alziato accostandosi molti altri, andavano predicando poscia pubblicamente che egli doveva essere un grande uomo nella Chiesa di Dio.