Ildegarda, parlando di Jutta, la sua maestra nell’eremo, dice così: “A quella donna, poi, Dio infuse per sua grazia, quasi un rivo, alimentato da molte acque, sicché ella non lasciò al suo corpo nessuna quiete, nessun riposo, in veglie, in digiuni ed in altre opere buone, finché non ebbe fine la sua vita terrena”. Così Ildegarda scrive nelle sue note autobiografiche su Jutta. Assieme a Jutta, Ildegarda trascorse ventiquattro anni sul monte di San Disibodo, da quel novembre del 1112, quando con Jutta di Spanheim ed un’altra compagna, sua coetanea, ricevette il velo dalle mani del santo vescovo Ottone di Bamberga. Fino alla morte di Jutta nel 1136 ci rimase. Precedentemente Ildegarda aveva trascorso altri sei anni assieme a Jutta sotto la guida della pia vedova Uda di Gingelheim, non si sa bene, se nella casa di Jutta a Spanheim, oppure a Magonza. Il racconto della vita di Jutta, scritta da un monaco, farebbe credere che Jutta seguisse l’esempio del San Disibodo, nell’estrema austerità, digiuni, penitenze, eccetera. Non viene detto se lo esigesse anche dalle sue compagne. Certo è, che Ildegarda, nella sua spiegazione della Regola di San Benedetto, mostra di attenersi alla norma del santo, che è ispirata da una saggia discrezione, e non identifica la santità con digiuni e mortificazioni, che pure non esclude.
Secoli prima, forse nel VII secolo, al tempo della fondazione del monastero sul monte alla confluenza dei due fiumi Glan e Nahe, che prenderà poi il nome del fondatore, al monaco pellegrino irlandese Disibodo, era successo qualcosa di simile. Nella vita, che di lui scrisse Ildegarda, leggiamo: “Egli non aveva preso per sé l’abito della conversazione dei suoi monaci, cioè, non aveva seguito la loro regola di vita, ma aveva concesso ai suoi sudditi di seguire la Regola del beato Benedetto, più mite di quanto lo fosse quella sua propria e l’aveva fatto per questo motivo, affinché egli, nel caso che avesse avuto la regola in comune con loro, senza voler però rinunciare alla rigorosa durezza di digiuni, veglie ed altre mortificazioni della carne, col sottrarsi all’osservanza delle consuetudini della Regola di San Benedetto, non avesse a portare alla distruzione la vita comune”.
La storia del monastero sul monte Disibodo è un susseguirsi di cambiamenti, a volte improvvisi e violenti, il monastero subì l’invasione degli Ungari, alla fine del X secolo, fu chiuso dal vescovo Hatto II alla fine del anno 1000, dal suo successore Willigis fu affidato ai canonici della Regola di Sant’Agostino, che vi abitavano per circa 110 anni. Fu ridato ai monaci benedettini dal vescovo Ruthard e in un giro di pochi anni, durante l’esilio di Ruthard, fu di nuovo consegnato ai canonici. Al suo ritorno, venne nel 1106 affidato ancora una volta ai benedettini, che, insieme al nuovo abate, Burkhardt, erano stati chiamati dal monastero di San Giacomo in Magonza. Quest’ultimo monastero lo conosciamo per il fatto dolorosissimo avvenuto nel 1160, quando il vescovo Arnold I venne invitato in monastero e fu ucciso. Dopo 1106 incominciò un periodo di intenso lavoro di ricostruzione, sicché le future abitanti dell’eremo non vi si poterono stabilire che nel 1112. Da Ildegarda sappiamo che lei stessa vide costruire la chiesa, che venne consacrata probabilmente nel 1125.
La vita eremitica
Una descrizione ideale della vita eremitica la troviamo nel secondo libro dei Dialoghi di San Gregorio Magno, al capitolo 4: “Il nome del solitario ci è ben noto, si tratta del venerabile Benedetto, vir Domini Benedictus, il luogo dove egli vive è la solitudine di una grotta, il modo, o la regola, di vita è l’abitare con se stesso, habitare secum”. Abitare con se stessi non è poca cosa, significa la capacità di vivere in solitudine e in pace con se stesso e in se stesso, la volontà di conoscere se stesso, accettarsi, senza rassegnazione, senza ribellione e senza illusione. Abitare con se stesso deve essere in fondo la meta, difficilmente raggiungibile, ma alla quale si deve sempre tendere, di ogni vita spirituale, eremitica, monastica o laica. Abitare con se stesso domanda una grande vigilanza, non però ansiosa né scrupolosa, sui pensieri e intimi movimenti dello spirito e una grande prudenza per prevedere, conoscere in precedenza, la conseguenza di ciò che si fa. Queste sono le caratteristiche della vita spirituale.
San Gregorio ci parla di Benedetto, definendolo “venerabile”. Il vocabolo in buon latino viene adoperato unicamente per Dio. Se Gregorio scrive in buon latino e usa questa espressione parlando di Benedetto, vuol dire che veramente la presenza di Benedetto richiamava a Dio. C’è una regola di eremiti che non sono ancora venerabili e conosciamo l’autore della Regula solitariorum, Grimlaico, solo di nome. Egli visse, pare, nel X secolo e dedicò la sua opera ad un altro Grimlaico, questi, sacerdote e vescovo, di cui ugualmente non c’è noto che il nome. La sua regola di solitari ha sessantanove capitoli e ci viene trasmessa nella Concordantia regularum, la “Concordanza delle regole”, di Benedetto d’Aniano, quel monaco che al tempo di Carlo Magno rese la Regola di San Benedetto, con l’indulto dell’Imperatore, obbligatoria per tutti i monasteri dell’Impero.
Nel primo capitolo, preceduto dalla lettera dedicatoria al vescovo, Grimlaico comincia col dare delle definizioni. Per prima, quella del nome “monaco”: monaco significa singolare (dice lui) chi vive da solo. L’etimologia della parola è greca, e significa singolarità. Se questa etimologia è esatta, non lo so. Ci dà pure un’altra: monaco sarebbe quello che ha un’abitazione fissa, a differenza dai monaci erranti, vaganti. Monaco, ovvero solitario, è detto, secondo lui, di uno che lascia tutto quello che ha. Secolari sono quelli che amministrano bene quello che hanno. Due sono i generi dei solitari, ovvero, dei monaci: uno, gli anacoreti, eremiti; l’altro, i cenobiti, quelli che abitano insieme e fanno vita comune nei monasteri. Anche di questi nomi ci vengono date le spiegazioni. “Anacoreta” è quello che si ritira per vivere nella solitudine. “Ana-“ indica in greco un movimento nato in basso e “-coreo” spostarsi o muoversi. L’eremita ha già indicato nel suo nome il suo programma di vita. “Eremeo” significa vivere una vita tranquilla, ritirata; “eremizo” vuol dire tranquillizzo.
Grimlaico non parla mai con sdegno o con una certa superiorità, dei laici e delle cose di questo mondo. I laici, dice, spesso lavorano in maniera eccellente, nel tempo e per il tempo. E quello che fanno ha pure una conseguenza anche per la vita futura. Tutto ciò che il monaco fa, serve per l’eternità. Dice: “Ma che giova, aver lasciato tutto, se non si rinuncia poi a se stesso? nisi et semetipsum abneget?” Qui si pone la domanda, che cosa sia l’abnegazione di se stessi? A questa domanda, egli dà subito una risposta: “Abnegare se stesso non significa altro che farsi liberi dalla propria volontà o dalle proprie volontà”. Nella tradizione monastica si fa sempre la differenza tra “volontà” singolare e “le volontà” plurale. Il modo di scrivere nel Medioevo rende evidente la differenza. “Volontà” alla fine del Medioevo si scrive “volunctas” e da questo vocabolo nascono due possibilità: “voluntas” e “voluptas”. Voluptas è il piacere, voluntas è la volontà. Se uno ha molte volontà, in genere, non ha la volontà, e per questo le volontà vengono sempre ricollegate in qualche modo con la parola voluptas, per uno che cerca sempre il proprio gusto, il proprio utile. Abnegare se stesso significa dunque rinunciare alle proprie volontà. In che modo? Egli dà degli esempi pratici sul significato delle parole abnegare e renuntiare. Chi si libera dai propri beni, rinuncia ad essi. Chi si libera dalle proprie cattive qualità, abnega se stesso.
Se diamo un rapido sguardo al capitolo diciassettesimo in cui egli espone il suo pensiero sulla vita eremitica, vediamo subito che in linea generale e per quel poco che ne sappiamo corrisponde all’indirizzo seguito nel romitaggio di Disibodenberg. Il titolo stesso del capitolo ci fa conoscere il suo contenuto: Che i solitari non siano mai meno di due o tre. L’ingiunzione suona categorica ed è corretta dall’aggiunta: “…se possibile. Ci pare che sia utile e in molti casi addirittura necessario”.
Egli nota: “Una vita che sia sine ullius societate (senza comunanza con nessuno) è un grave pericolo. Ciò che uno, o nessuno, non può – e nessuno può tutto – lo può l’altro. Se sono in due o tre, possono scambievolmente aiutarsi, farsi coraggio, incitarsi”. Egli usa qui il vocabolo excitare e in questo verbo si nasconde il significato dell’estrarre, di tirare fuori qualcosa di nuovo, nel senso di sviluppare talenti latenti, forse ignorati, che possono farsi strada nella comunanza di vita. Ai solitari deve venir data la possibilità di comunicare con altri. Il capitolo precedente dice che essi devono potersi scambiare la parola ed avere la possibilità di “se excitare”, di muoversi scambievolmente alla preghiera. Letteralmente dice: “all’opera di Dio, al servizio divino”, intesa come recitazione della preghiera in coro.
Essere almeno in due, continua Grimlaico, serve per meglio affrontare pericoli. Quali sono i pericoli ai quali è esposta la vita eremitica e la vita spirituale in generale? Il primo e il più grande è il compiacimento di se stesso e della propria virtù, o almeno di quella che si giudica di essere tale e che il solitario può provare pensando di aver raggiunto nel suo genere di vita il culmine della perfezione. A questa sua presunzione il prossimo gli può servire da controllo, da verifica e da correttivo. Qui non s’intende, e Grimlaico non intende, che l’altro debba di proposito e di continuo esercitare la sua critica, per metterlo alla prova. La pazienza dell’eremita, la sua carità e mitezza vengono messe alla prova dalla diversità del suo compagno, dell’altro, dal suo essere diverso da lui, dal suo comportarsi in altro modo. Anche se il solitario è in possesso di alcune virtù, ci saranno senz’altro delle altre che non sono così sviluppate. Da sé non riuscirà così facilmente a rendersene conto. Il confratello potrà aiutarlo a riconoscerlo, incoraggiarlo ed esortarlo. Alla sua debolezza, la presenza di un altro servirà da sostegno. Non si tratta qui che l’uno debba fare la predica all’altro, lo sottolinea Grimlaico, ma a vedere l’altro comportarsi in un certo modo e sentire la disapprovazione, anche se non espressa, aiuta a correggersi.
Ancora, come potrebbe uno comunicare ad altri quel che possiede, se non ci fosse nessuno a cui darlo? I doni dello spirito sono innumerevoli. Il confratello possiede alcuni, ma sono diversi da quelli dell’altro. Ne nasce così, se sono in due o tre, la possibilità di uno scambio, per usare le parole dell’antifona di Natale, è questo uno “scambio meraviglioso” nella vita comune. L’antifona dice: “O admirabile commercium…”, o scambio meraviglioso alludendo al fatto di Gesù, Dio fatto uomo, che ci dà la sua divinità e noi gli diamo in cambio la nostra povera umanità. Questo stesso cambio può avvenire anche in modo più ristretto nella semplice vita comune. Pure contro le insidie del nemico, quelle esterne come quelle interne, giova assai la vita insieme ad altri - multum iuvat societas plurimorum – senza parlare poi della preghiera. Perché non è poco l’utile che viene se due confratelli pregano insieme. Lo dice il Signore stesso: “Qualora due di voi si accordino sulla terra per domandare qualcosa, questa sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli, perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). E Grimlaico aggiunge:
“Due pregano più di quanto possa fare uno da solo”. Ma perché non si tragga una falsa conclusione da quanto ha detto in precedenza, aggiunge alla fine del capitolo: “Abbiamo raccomandato di vivere la vita eremitica in due o tra insieme, ma non vogliamo con ciò escludere che uno solo, se già provato in precedenza nella vita cenobitica, possa vivere in solitudine perfetta”. E in questo si rifà la Regola di San Benedetto.
La vita eremitica in tre fu quella che visse Ildegarda all’inizio a Disibodenberg. Con l’aumento del numero delle sorelle, Ildegarda riconobbe che era giunto il tempo di una trasformazione. Allora era ormai la responsabile del gruppo. Dall’eremo di Disibodenberg sorge il cenobio, il monastero di Rupertsberg e alcuni anni più tardi quello di Eibingen. C’è una Vita di Jutta, scoperta recentemente, in cui si nota la differenza nella vita della comunità al tempo di Jutta e al tempo di Ildegarda. In Jutta prevaleva, sebbene con grande bontà, dolcezza e moderazione, l’indirizzo strettamente ascetico.
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Sr. ANGELA CARLEVARIS osb