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domenica 25 agosto 2024

La dimensione personale nella medicina

 


ILDEGARDA  DI  BINGEN


Già nei tempi prima di Cristo, al centro della scienza medica veniva posto il rispetto e la dignità della persona, a cui obbligava il giuramento di Ippocrate. “In ogni casa nella quale io verrò a trovarmi, entrerò a vantaggio dei malati, libero in coscienza di ogni ingiustizia e malfatto, in particolare di ogni abuso di uomini e donne, di liberi e schiavi”. Così, già nel III secolo a.C., Ippocrate non fa differenza tra liberi e schiavi, mentre nel Codice giustinianeo, nel VI secolo d.C., solo l’uomo libero ha il diritto di persona, a differenza dello schiavo. L’uomo è anima, che ha preso un corpo, un corpo animato, fornito di anima. L’uomo ha un valore in sé, al quale non si può in nessun modo rinunciare, né egli in sé, né nel suo rapporto con gli altri, indipendentemente dal suo rendimento e delle sue qualità. Un uomo è un uomo, mai un “caso interessante”. 

Inseparabile dalla dignità dell’uomo è la sua responsabilità, unicità e insostituibilità della persona. L’uomo porta di conseguenza una responsabilità morale insostituibile. Come persona è in primo luogo responsabile della sua salute e della sua guarigione in caso di malattia. Nel suo essere anima e corpo è fondamentale, non solo la sua propria individualità, ma anche il suo rapporto dialogico con gli altri, con il mondo, con la comunità. L’aspetto dialogico è da mettersi in relazione con la comprensione di ciò che è la persona. Ogni agire o non agire dell’uomo ha direttamente o indirettamente un influsso sugli altri. La dimensione antropologica della personalità prende in considerazione anche gli altri e porta alla solidarietà. L’antropologia cristiana intende la persona dal punto di vista del rapporto con Dio. Il suo concetto di persona include il rapporto dell’uomo con Dio. Non c’è, quindi, attività medica che non comporti una dimensione divina.

Il peccato non viene considerato in primo luogo sotto il punto di vista della morale. Vengono fatte altre considerazioni che servono per spiegare anche questo aspetto. Dio è l’essere in sé, per sé. Quanto viene da lui, n’è diventato in un certo senso partecipe. Esiste. Dio ha chiamato all’esistenza il mondo e ogni creatura e tutto quanto egli ha creato era buono, molto buono. Il più bello degli spiriti creati, quello che eccelleva, Lucifero, volle essere qualcosa di altro, volle divenire pari a Dio. Aver un proprio ordine e un proprio regno. Ma Dio è il tutto e tutto viene da lui; non vi può essere nulla se non da lui e per lui, perché egli solo possiede l’essere. Quello che Dio non vuole, non è, non ha l’essere, è il niente. 

Sia il peccato originale di Adamo ed Eva, sia il primo peccato, quello di Lucifero, è un concetto di quale Ildegarda sempre si rifà perché è l’inizio della storia dell’uomo. Adamo ed Eva vengono ingannati da questo angelo che, con la menzogna, promise che essi sarebbero diventati quello che egli aveva voluto per sé e che non aveva potuto raggiungere. Anch’essi, perciò, stesero la loro mano a quanto non era per loro e annullarono la perfezione, l’armonia, della loro persona e della loro vita. Anch’essi gustarono, letteralmente, il nulla. Volere quello che non è per noi, è il male. Questo è il peccato, un nulla che distrugge, perché promette, a chi lo fa, qualcosa che non risponde alla sua natura, che non è secondo quello che Dio ha voluto per quella determinata natura. Per l’uomo, c’è il male, quando egli usa quanto non risponde alle esigenza del suo essere e alla sue finalità. Perché ogni cosa che gli è stato data ha un determinato compito e determinate qualità, che l’uomo può usare e che possono servirgli. 

Il male non voluto da Dio ha la sua realtà nella distruzione dell’uomo che lo compie, a danno del proprio essere e a danno di quello degli altri. Nessuno compie il male solo per sé, ma in un certo senso infetta anche gli altri, o almeno li mette in grande difficoltà. Soltanto una creatura che abbia la libertà, solo l’uomo, può fare il male. Fa il male, chi volontariamente agisce contro la propria natura, in senso lato, o quello degli altri, a proprio scopo. Il male, come, del resto, anche il bene, può essere fatto solo dall’uomo. Abbiamo già detto molte volte quanto Ildegarda insista sul fatto che: “Tu, l’uomo, hai la scienza del bene e del male e tu sei posto al bivio e puoi scegliere, tu solo”. 

La malattia viene trattata nel Medioevo e quindi anche da Ildegarda nel quadro della creazione, nella quale è considerato l'uomo, sano o malato che sia. Egli è una creatura ed è visto nella sua dipendenza in quanto creatura. Solo così l’uomo può comprendere se stesso, nella sua dipendenza dal mondo e nella sua esperienza di vita. Non si può considerarlo isolato in se stesso, perché ad essere in se stesso c’è solo Dio. La storia della creazione da parte di Dio e la rivelazione dell’Antico Testamento è un mistero. Ildegarda tratta questo mistero secondo la tradizione patristica, dandovi un proprio accento. Lo descrive secondo la vita della Trinità. Per lei, Dio trinitario è la chiave per comprendere tutto il creato. “Per tutta l’eternità Dio Padre porta nel suo cuore il piano della Creazione. Il Verbo di Dio la realizza, il soffio dello Spirito Santo dà al Verbo la veste della redenzione”.

Sr. ANGELA CARLEVARIS osb

domenica 10 dicembre 2023

La malattia secondo Ildegarda

 


ILDEGARDA  DI  BINGEN


La malattia secondo Ildegarda 

Salute e malattia vengono opposte da Ildegarda nella visione della temporaneità dell’esistenza umana, che porta l’impronta della fede nell’opera creatrice e redentrice del mondo e dell’uomo, opera che Dio, alla fine, porterà a perfezione. Abbiamo già accennato alle tre denominazioni che Ildegarda dà dell’uomo: “costitutus, destitutus, restitutus”. Nelle sue opere sulle scienze naturali e la medicina, Ildegarda interpreta salute e malattia secondo l’antico insegnamento degli elementi della patologia umorale. In questo modo può spiegare la malattia dal punto di vista biologico in quanto si serve di dati naturali, semplici, e di condizioni che rispondono a leggi determinate. Una perfetta armonia tra gli umori dell’organismo umano con le qualità degli elementi non è più possibile per l’uomo. La causa ultima resiede nella perdita dello stato primitivo della luminosità del corpo umano. 

Il corpo che ha perduto la perfezione originale può essere al servizio dell’anima, ma solo imperfettamente. La natura originale, tutta luce, non è solo la physis, la natura, secondo gli insegnamenti degli antichi sul cosmo, ma è intesa da Ildegarda come la natura assunta da Cristo, il sole della giustizia. L’uomo, nella sua struttura corporea, ha il suo posto nella storia della salvezza e della decadenza. Solo assunto sotto la visione cristiana della storia, Ildegarda ne interpreta l’essenza e l’esistenza. Nel suo stato di salute fisiologica originario, l’uomo è l’uomo “costituito, fatto da Dio”, nella sua costituzione prima, l’uomo della genitura mistica. L’uomo dell’origine aveva a sua disposizione una natura gloriosa. Al suo corpo, che aveva una natura di luce, stava a disposizione il cosmo. Il suo rapporto con il cosmo era senza impedimenti. Ma l’uomo è venuto meno al suo compito cosmico. Ha perso, come punto di riferimento, Dio e, con questo, anche il vero rapporto con il cosmo. 

Le conseguenze coinvolgono anche la salute fisica dell’uomo, a cui danno anche un carattere cosmico. Ildegarda, a questo proposito, nota che con il peccato originale cominciò anche il tempo, perché da quando c’è il tempo, viene annunziato un inizio e quando viene annunziato un inizio, viene annunziato per ogni cosa terrena anche la sua fine. Quindi, ogni uomo che nasce nel tempo è destinato a finire e questo, senza scampo. Con il peccato, il firmamento cominciò a mettersi in moto, purificando gli elementi e facendo scorrere il tempo, il quale, come detto, da allora volge alla sua fine. La materia viene avvolta da un’oscurità inspiegabile e non mostra più con chiarezza il suo essere. Forze cosmiche entrano nel sistema degli umori dell’uomo per mezzo dei venti e influiscono negativamente al suo comportamento fisico e morale. L’uomo si ribella alla natura, distrugge l’equilibrio cosmico, fragile, segnato dalla morte. Per aver mancato alla sua missione, è diventato un essere biologico difettoso. Mette in confusione quello che è la sua opera ed è manchevole nel suo essere, nel suo pensare, nel suo parlare e nel suo agire e perde di freschezza e di vivacità. Come homo destitutus, l'uomo che ha perduto l'ordinamento voluto da Dio, ha un’esistenza piena di preoccupazioni e di angoscia. La malattia di questo uomo “destituto”, in paragone alla sua natura originaria, è una deficienza: all’uomo manca sempre qualche cosa, è un deficit ontologico, non è una malattia vera e propria, ma uno sviluppo manchevole, che corrisponde, a poco a poco, ad una forma di distruzione: finiamo tutti con la morte. 

Con la definizione escatologica di uomo “restituito”, si viene a trattare il carattere dell’uomo giunto a salvezza e salute, all’integrità. La ricostituzione dell’uomo è uno stato di salvezza e salute, dono di Dio, che può giungere a una relativa perfezione. Spiritualmente, diremmo, a una perfezione assoluta, in Cristo. La restitutio mette l’uomo in relazione con l’incarnazione di Gesù Cristo.

Sr. ANGELA CARLEVARIS osb

martedì 13 giugno 2023

LA FRATTURA DELL’ARMONIA : (PECCATO, MALATTIA, DEPRESSIONE)

 


ILDEGARDA  DI  BINGEN


Quattro elementi, quattro umori

Ildegarda ci spiega lo stato attuale di questi umori: “Gustato il male, il sangue dei figli di Adamo si trasformò in una spugna velenosa, dalla quale vengono generati i figli degli uomini, per questo, la loro carne è in principio ulcerata. E questi punti ulcerosi sono gli accessi aperti che permettono un’entrata violenta e una formazione di fumo umido nel corpo, dal quale si sviluppa, coagulandosi, la materia del flemma.  Il flemma poi è la causa delle diverse malattie dell’organismo umano. I quattro umori sono: il flemma, a cui corrisponde l’acqua, che è freddo, il sangue, a cui corrisponde l’aria, che è umido, la bile, a cui corrisponde il fuoco, che è caldo e la bile nera, a cui corrisponde la terra, che è secca. A questi quattro umori corrispondono le quattro stagioni. Al flemma, l’inverno, al sangue, la primavera, alla bile, l’estate, alla bile nera, l’autunno”. Tutti gli elementi entrano nella combinazione delle stagioni. Freddo e umido, per Ildegarda, è l’inverno, umido e caldo, la primavera, caldo e secco, l’estate, secco è freddo l’autunno.

L’imperfezione del flemma, dice Ildegarda, è la conseguenza di quel primo male, che l’uomo operò all’inizio. Vale a dire: se Adamo fosse rimasto in paradiso, avrebbe goduto di un’invidiabile salute, nel luogo migliore che ci sia. “…come il balsamo con intenso profumo effonde dappertutto un odore gradevole. Ma perché è successo proprio il contrario, l’uomo porta ora in sé il veleno e la materia del flemma e con ciò la possibilità di ogni specie di malattia”. Tutti gli uomini hanno da soffrire di varie malattie e ciò ha il suo motivo nel flemma, che in essi è in quantità maggiore del necessario. Se l’uomo fosse rimasto in paradiso, non avrebbe avuto nel suo organismo questa materia, dalla quale ha origine tanta sofferenza e la sua carne sarebbe rimasta intatta, senza essere infetta da questo muco. “Ma poiché egli si era inteso con il male e lo preferì al bene, ritornò ad essere uguale alla terra, da cui era stato formato, la quale produce erbe buone e dannose e nasconde in sé umidità ed umori buoni e cattivi”.

Sr. ANGELA CARLEVARIS osb

giovedì 24 novembre 2022

LA FRATTURA DELL’ARMONIA : (PECCATO, MALATTIA, DEPRESSIONE)

 


ILDEGARDA  DI  BINGEN

LA  FRATTURA  DELL’ARMONIA : (PECCATO, MALATTIA, DEPRESSIONE)


Bisogna dire che Ildegarda non ci dà tanto una ricetta per guarire le malattie, soprattutto la depressione, che è all’origine di tante malattie, ma piuttosto ci dà delle indicazioni e il risultato di queste indicazioni dipende dall’uso che ne facciamo. Quest’uso costa costanza e forza di volontà. Forse l’idea principale, ciò che Ildegarda vuole dirci, è quanto sia importante l’interdipendenza, la relazione, che c’è nel mondo tra gli uomini e il corpo umano. Muovendoci o agendo, siamo sempre in rapporto con altre cose o persone. C’è un senso di rispetto, ma anche di dipendenza. Non possiamo tutto, perché siamo dipendenti.

Ricomincio parlando dei quattro elementi, perché, parlando dei singoli elementi, Ildegarda mette in rilievo quanto anch’essi sono interdipendenti l’uno dall’altro. Dice: “Il fuoco accende l’aria, la domina; l’aria, però, in quanto elemento più vicino, lo fa divampare, come fosse un mantice, lo tempera. Il fuoco è, in un certo qual modo, il corpo dell’aria e l’aria, come le viscere oleari, o le penne, del fuoco. Come il corpo non esiste senza viscere, così non esiste il fuoco senza l’aria, perché l’aria è la forza motrice del fuoco. Nessun fuoco brucerebbe o potrebbe essere acceso, senza l’aria. Ancora, il fuoco è l’ardore e il calore dell’acqua e la fa fluire. L’acqua non potrebbe essere fluida e scorrere via, al contrario, sarebbe più compatta e più forte, come ferro e acciaio, se non fosse compenetrata dal calore. Come ciò sarebbe, ce lo possiamo immaginare, osservando il ghiaccio. L’acqua è la sostanza che raffredda il fuoco ed è più forte del fuoco, in quanto può spegnerlo. Al principio della Creazione, l’acqua era fredda e nel tempo in cui la terra era deserta e vuota, non aveva correnti, ma lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque e le riscaldava, per fare avere in sé il fuoco e perché, liquefatte, potessero scorrere da ogni parte. L’acqua, in quanto fredda, respinge naturalmente via da sé il calore e per questo comincia a bollire. L’acqua infatti ha in sé il fuoco e il fuoco ha in sé per natura anche la freddezza dell’acqua”. Non vanno presi questi concetti precisamente da un punto di vista scientifico, ma la spiegazione che Ildegarda vuole darci ci farebbe comprendere che anche gli elementi dipendono l’uno dall’altro. “L’aria poi e il vento sono un aiuto per l’acqua, come pure sono un aiuto e un freno per il fuoco e così si può tenere la corrente dell’acqua in un giusto rapporto. Infatti, se l’acqua non fosse in un giusto rapporto e nel giusto corso, strariperebbe senza misura e sommergerebbe ogni cosa dove potesse arrivare. Da parte sua, l’acqua fa sì che l’aria sia mobile e più atta a volare, la rende più fruttifera con la sua umidità, con la quale presta da parte sua fecondità alla terra, in quanta l’irrora con la rugiada. L’aria è il mantello della terra, perché la protegge dal calore e dal freddo, temperando le condizioni climatiche dell’atmosfera e irrigando la terra, che bagna con la rugiada. La terra è, per così dire, una spugna, è una sostanza fondamentale, che aspira e inghiotte la fecondità dell’aria. Se non ci fosse la terra, l’aria non potrebbe portare a termine il suo compito e fecondare la terra. L’acqua da parte sua opera la coagulazione della terra. La collega, la connette, cosicché non si disperda né da una parte né dall’altra. La terra assorbe per questo l’acqua, la trattiene, la spinge in giusta direzione e fa sì che in superficie segua il suo giusto corso e sottoterra abbia un livello conveniente. Nelle profondità sotterranee, l’acqua è nell’oscurità, in superficie, invece, in limiti ben definiti”.

Sr. ANGELA CARLEVARIS osb


venerdì 26 agosto 2022

La nostra opera, l’opera delle persone viventi, è quella di ricreare in noi l’armonia”.

 


ILDEGARDA  DI  BINGEN

L’anima è creata da Dio e immessa, invisibile, nel corpo sensibile e visibile, dimora in esso e lo vivifica. Come Dio, che ha portato tutta la creazione al servizio dell’uomo con la forza invisibile della sua onnipotenza, la mantiene in vita con la viridità della terra, il calore dell’aria, con l’umore delle acque, così il corpo serve all’anima come veste e tuttavia resta sconosciuto all’essere spirituale dell’anima, la cui missione è di vivificare il corpo e di operare tramite esso. Ildegarda, parlando del corpo, lo chiama “tabernacolo, tenda, veste” dell’anima. La stretta cooperazione dell’anima con il corpo viene così descritta: “Nonostante le loro diverse nature, esistono entrambi nella comune realtà, perché, nel pensiero, al corpo lo spirito aggiunge ogni concentrazione di calore con l’assimilazione dell’acqua, la verde freschezza che dà vita, la viridità e si unisce al corpo. Così vive l’uomo nella sua costituzione in ogni luogo, sempre nella sua corporeità. L’unità anima-corpo, una sola opera (= unum opus), corrisponde allo stato originario, allorché l’uomo aveva un corpo luminoso e risplendente nella sua pienezza di vita. Anima, corpo e spirito erano allora una cosa sola. Ora ci sono dei movimenti opposti dell’anima e del corpo: in principio, secondo Dio, c’era la perfetta armonia. La nostra opera, l’opera delle persone viventi, è quella di ricreare in noi l’armonia”.

Ildegarda considera l’uomo ed ogni singolo membro ed organo del corpo umano in rapporto con il Verbo di Dio, così come ho già detto, parlando della quarta visione del Libro delle opere di Dio. Membra e organi del corpo umano sono descritti, collegati all’espressione del Prologo del Vangelo di San Giovanni. Anche le forze naturali sono confrontate con le varie parti del corpo umano e il corpo stesso viene, per così dire, proiettato in un paesaggio cosmico. L’uomo, con il suo corpo, è nel cosmo come misura di esso, come chiave vivente e simbolo personificato, oppure come persona che ha la sua qualificazione di simbolo. I suoi sensi esterificano la forza creativa del cosmo, che è un’immagine del Creatore. L’anima, per mezzo delle funzioni dei sensi, di cui è dotato l’organismo, mette in rapporto con il mondo il vaso corporeo e fa in modo che il mondo e la natura si pieghino a quello che l’anima vuole.

Ildegarda collega la dottrina degli elementi e la fede nella creazione con la creazione dell’uomo dai quattro elementi. Mescolato con l’acqua il limo, il fango della terra, prende una forma, nella quale viene immesso lo spirito di vita, che è fuoco e respiro. Così la carne viene formata dal fango e dall’acqua, per mezzo dell’aria e dell’etere, l’acqua diventa sangue; dal fuoco il calore, dall’aria il fiato, dall’acqua il sangue e dalla terra i saldi tessuti. Dio v’immette il suo divino splendore e così appare il corpo umano in tutta la sua bellezza con l’anima. Pure le funzioni dei sensi corrispondono agli elementi: dal fuoco, riceve la vista, dall’aria, l’udito, dall’acqua, il movimento e dalla terra, il suo passo fermo. E come gli elementi tengono insieme il mondo, così sono essi a dare forma e tenere insieme l’organismo dell’uomo.

Gli elementi nella loro struttura, che li porta ad espandersi e diffondersi nei compiti della loro funzione, “gli uffici”, come li chiama Ildegarda, operano in tal modo nell’uomo da farlo esistere e funzionare come un insieme saldamente strutturato e finalizzato. Così come nella natura lo sono gli elementi stessi, la loro sostanza e il loro campo di azione. Un piccolo esempio: “Lo stomaco è luogo dell’apertura per il mondo ed è capace del mondo (= capax mundi), atto a prendere in sé il mondo, perché è capace di ricevere gli elementi per nutrirsene. Da parte sua, l’universo è come uno stomaco gigante, che, fino a che abbia vita, filtra le materie del mondo attraverso noi stessi. Attraverso lo stomaco, l’uomo fa proprie le energie intime delle creature e le ridà fuori di sé per mantenersi in vita e anche per trovarsi in continua corrispondenza con la sua fine”.

All’inizio della vita del Paradiso, cibo e bevanda erano uno scambio di elementi, un dialogo cosmico, un rapporto con il mondo. Ora, dopo il primo peccato dell’uomo, cibo e bevanda servono a restaurare le sue forze. Così all’uomo è continuamente ricordato nel suo corpo della sua origine, della sua debolezza e che dipende dalle altre creature; è ricordato anche della sua situazione di dipendenza, in quanto “uomo destituito”. In questo modo, Ildegarda collega le funzioni fisiologiche dell’uomo ai rapporti cosmobiologici con la natura, che poi nell’uomo si manifestano come realtà dell’anima, realtà psicologiche.

L’armonia per il corpo, nel corpo e del corpo con il cosmo: tra il corpo umano nel suo schema elementare, capo, petto, ventre, membra, e le sue funzioni organiche da una parte e la costituzione dell’universo e quanto in esso accade dall’altra, c’è, secondo Ildegarda, un’analogia di vasto respiro. Tra la cassa toracica dell’uomo e l’atmosfera, Ildegarda riscontra la seguente analogia: i polmoni sono la congiunzione, la comunicazione, con la ragione, i reni, con la fecondità della terra, il fegato, con la sensibilità, la sensitività; la bocca è la portatrice della voce e del suono, le orecchie, come due ali, fanno entrare ed uscire ogni voce, gli occhi sono strade per gli uomini. Il naso corrisponde all’aria, comunica il gusto e opera come organo della sapienza, perché l’uomo sappia orientarsi nel mondo, come anche perché sappia tenersi lontano da ciò che in esso può nuocergli: per questo simboleggia l’ordine della natura e della cultura. I piedi corrispondono ai fiumi, essi portano gli uomini attraverso il corso della loro esistenza. Così lo schema elementare del corpo è posto in rapporto con le forze della natura.

Ci può forse sembrare un gioco, ma Ildegarda vuole continuamente farci sentire quanto siamo collegati all’universo; come la nostra vita non è una vita singola, che esiste solo per se stessa, ma per comunicare tra noi e con l’universo. Non c’è separazione tra il cuore dell’uomo e quanto è costituito dalla materia e neppure tra quanto l’uomo pensa e si propone nel suo intimo e quello che realizza esternamente. L’uomo, anima e corpo, con entrambi è sempre in azione. Il cuore è la sede della viridità, questo vigore dell’anima. L’anima stessa opera in ogni parte del corpo, L’uomo esiste con il corpo, con il quale realizza l’organizzazione delle facoltà dei sensi. Il corpo, per così dire, è il luogo dove si realizza l’integrazione di quanto proviene dalla materia. Ci fa partecipi del mondo, dà esistenza, concretizza la vita e fornisce allo spirito, per mezzo dei sensi, materia di conoscenza. In un certo senso, ci rende avvertibili ai sensi sia il termine che il fine delle creature e del creato, per arrivare allo spirito dell’uomo. Tutto il mondo vuole arrivare al nostro spirito e ci arriva attraverso i sensi del nostro corpo. Quindi, all’apice c’è lo spirito, il corpo è in mezzo e tutt’intorno, c’è il mondo e tutto quello che Dio ci ha messo innanzi, perché lo conoscessimo, ce ne servissimo, lo avvertissimo e ne traessimo insegnamento.

Sr. ANGELA CARLEVARIS osb

sabato 12 febbraio 2022

Ciò che è la linfa nell’albero, lo è l’anima nel corpo ed essa sviluppa le sue forze spirituali come l’albero sviluppa i rami e le foglie.

 


ILDEGARDA  DI  BINGEN

La dottrina dell’incarnazione della seconda persona della Santissima Trinità aveva delle conseguenze nella considerazione medioevale del rapporto tra il corpo e l’anima. L’incarnazione è per Ildegarda la causa esemplare di tutto l’universo e l’interpretazione di essa è strettamente collegata, soprattutto nella terza opera di contenuto cosmico, a quella del corpo umano. Il commento al Prologo del Vangelo di San Giovanni, nella quarta parte di quest’opera, tratta della struttura del corpo umano. In vista dell’incarnazione di Cristo, sono considerate le due prospettive alte e grandi, due punti di vista: l’opera della creazione in sei giorni e l’apocalisse, la “fine” del mondo, secondo San Giovanni. Il Verbo di Dio è sin dal principio all’opera, com’è provata dalla struttura del corpo umano e dal corso della storia. La storia, per Ildegarda è storia sacra.

Anche l’unione del corpo con l’anima trova nell’incarnazione del Verbo la sua analogia nella fede, come Deus et homo unus Christus (= Dio e l’uomo sono un solo Cristo), così pure l’anima razionale e la carne mortale formano un’unica persona. L’uomo è l’opus Dei (= opera di Dio) e nello stesso tempo un opus operans (= un’opera che agisce), è il socio di Dio, che nella sua attività, nella natura, ha il compito di una seconda creazione. Abbiamo già detto più volte che la creazione è affidata all’uomo, perché egli l’aiuti a vivere, a moltiplicarsi e a migliorare. Per comprendere la visione che Ildegarda ha dell’uomo, sono determinanti le tre finalità della destinazione dell’uomo: il comportamento dell’uomo nel mondo, come egli opera con le creature, il rapporto dell’anima con il corpo, come egli opera con se stesso, la cooperazione tra l’uomo e la donna, come egli opera con la compagna, oppure la donna, con il compagno.

Il corpo è il luogo in cui si definiscono i rapporti con il Creatore e le creature. La dottrina dell’uomo, come microcosmo, è data da Ildegarda nel linguaggio della fede. L’uomo, nella storia della salvezza, è unito al mondo. La costruzione del mondo è strettamente connessa in maniera misteriosa nella sua fine con la nostra storia. Questa fine, quest’esito del corso del mondo l’uomo sperimenta in se stesso. Non può sottrarsi dalla responsabilità verso il mondo in cui vive, come di fronte al Creatore. L’ordine della creazione abbraccia il mondo degli angeli e la natura terrena, il mondo delle piante, degli animali e dell’uomo. Un mondo che è uno e comprende quanto alla vita sensibile, vita dell’anima e vita della grazia. Nel rendere gloria al Creatore l’uomo deve trovarsi in accordo con la natura e con la grazia, con la materia e con lo spirito, con il corpo - materia - e con l’anima, con il mondo e con la Chiesa. La nostra personale armonia, che non è soltanto un’armonia di noi stessi in noi stessi, la dobbiamo trovare lì, dove viviamo, con il mondo in cui viviamo, quello non animato e quello animato, e con le persone umane. Il luogo in cui l’uomo rende gloria al Creatore è il corpo, perché il corpo ha un compito importante in tutta l’esistenza dell’uomo, non soltanto lo spirito e l’anima. Corpo e anima formano un solo uomo.

Ildegarda non disprezza il corpo; lo ammira e lo rispetta come strumento dell’anima, perché tutto quello che conosciamo, lo conosciamo per mezzo dei sensi, vale a dire, tutto viene a noi attraverso il corpo. Il corpo da solo non basta, ci vuole anche l’anima, ci vogliono tutti e due, ma il corpo è stimabilissimo e spettabilissimo e va rispettato. Il simbolo fondamentale d’Ildegarda per l’unità del corpo con l’anima è la crescita e la figura dell’albero. Ciò che è la linfa nell’albero, lo è l’anima nel corpo ed essa sviluppa le sue forze spirituali come l’albero sviluppa i rami e le foglie. L’intelletto è come il verde dei rami e delle foglie, la volontà, come i suoi fiori, l’animo, come i frutti appena formati, la ragione, come quelli pienamente maturi, i sensi si possono assomigliare al suo estendersi in altezza e larghezza.

Sr. ANGELA CARLEVARIS osb

mercoledì 24 novembre 2021

La ricchezza del mondo naturale è strettamente collegata alla vita della grazia. La creazione del mondo porta il sigillo della Trinità.

 


ILDEGARDA  DI  BINGEN

La ricchezza del mondo naturale è strettamente collegata alla vita della grazia. La creazione del mondo porta il sigillo della Trinità. La decisione per l’incarnazione, secondo Ildegarda, fu presa prima del tempo, prima della creazione. Il Figlio è l’immagine del Padre e Dio nel Figlio creò la sua opera, il cosmo. Ildegarda collega l’insegnamento dei quattro elementi all’opera della Trinità: la terra è la materia per l’opera di Dio all’uomo, nel fuoco dello Spirito Santo sono purificati i sensi. Il forte soffio dello Spirito ravviva il desiderio del cibo di vita. Con le forze dell’acqua, lo Spirito ravviva il calore, si scioglie il coagulo del peccato, fa affluire le correnti della verità sull’anima dell’uomo. Così accanto alla struttura cristologica c’è anche quella trinitaria: su questo Ildegarda insiste. Le parole tolte dalla sua terza opera che ora citerò riassumono le dieci visioni che compongono l’opera.

“Dall’operazione di Dio nasce l’uomo, che opera adoperato da Dio: egli nel suo operare deve operare secondo la similitudine di Dio. L’uomo sta ritto davanti al Creatore nel centro del cosmo, a braccia aperte in forma di croce, il capo rivolto in alto alle stelle, guarda verso oriente” –

l’oriente è sempre il segno della salvezza, come il settentrione della rovina; ogni punto cardinale ha un significato simbolico. “La terra è circondata dall’aria lieve e mite, tenuta insieme dall’aria forte e irrorata dalle acque. L’uomo, nel mezzo del cosmo, è circondato dal puro etere ed illuminato dal fuoco, come da un arredo di stelle. Il cosmo stesso è mosso da quattro forti venti spirituali”. Così dice nella terza opera, Le operazioni di Dio. L’uomo è posto nel cuore di Dio, al centro, con le braccia aperte, e intorno a lui, tutto l’universo.

Ogni cosa nel mondo è secondo ordine e misura; non c’è nulla di superfluo o inutile. L’uomo è come uno specchio dell’universo e deve compiere la sua opera insieme alle creature del mondo e con esse deve mantenere un dialogo continuo, un rapporto; è responsabile del mondo e della sua integrità. Tutto quello che vi è nella natura egli deve conoscere e comprendere, non solo in sé, ma anche nel suo valore di segno, di simbolo, e conversando con le cose deve ricevere il loro messaggio. Ogni cosa, oltre al suo fine pratico, ha un significato che l’uomo deve cercare di cogliere, un messaggio: una cosa creata è una parola di Dio, quindi un suo messaggio. Il Cantico delle creature di San Francesco, in una forma più semplice, è molto simile a quello che dice Ildegarda.

L’uomo, che esiste in anima e corpo, è il centro vitale della grande costruzione dell’universo ed in ogni particolare n’è influenzato. Le forze della natura e le leggi che regolano il mondo vanno interpretate a misura dell’uomo. Che noi siamo influenzati dall’universo e da quello che succede attorno a noi, possiamo vedere purtroppo anche in maniera negativa; e non soltanto attraverso il mondo creato, ma anche attraverso il “mondo”, opera dell’uomo. Creazione e redenzione mirano all’uomo, hanno entrambi la stessa realtà salvifica. L’uomo è immerso nel mondo, il quale partecipa con lui alla storia della salvezza. Egli, come pure la natura, non può sfuggire alla sua fondamentale costituzione: la creazione dell’uomo da parte di Dio è chiamata da Ildegarda constitutio, homo constitutus, l’uomo costituito da Dio. Ma con il peccato l’uomo, insieme al mondo, partecipa esistenzialmente al dolore e questa è la situazione dell’homo destitutus, l’uomo decaduto, la

destitutio. C’è per sua grazia l’opera di Dio nell’uomo e quindi il ritorno all’originale struttura: questo sarebbe la restituzione. Ci sono sempre tre passaggi: constitutio, destitutio, restitutio. Possiamo costatare in noi stessi questa situazione: constitutio, siamo noi con la nostra natura così com’è, destitutio, scopriamo i nostri lati difettosi, restitutio, a mano a mano che la grazia di Dio ci conduce alla conversione.

Lo scorrere di tutta la creazione attraverso i tempi, fino alla fine del cosmo e al suo compimento nella parusia del Messia, è visto da Ildegarda in una visione divina. Compendio delle creature, l’uomo deve servire Dio nella creazione del mondo; in un certo senso, deve diventare “creatore” del mondo. Ognuno di noi deve “creare” di nuovo, restituire il proprio mondo in cui vive. Quindi la nostra è una funzione di restituzione: siamo mandati nel mondo, nel piccolo mondo in cui viviamo, la famiglia, il lavoro, la società, per creare ordine, non disordine. L’uomo è insieme opera ed operaio attivo e responsabile, opus operis Dei (=opera dell’operare di Dio), ma nello stesso tempo è l’operaio di Dio, il suo collaboratore.

Sr. ANGELA CARLEVARIS osb


martedì 5 ottobre 2021

Cristo - e l’uomo insieme - sono il fine del mondo.

 


ILDEGARDA  DI  BINGEN

L’uomo è materia dell’incarnazione di Dio; la circolazione, la rivoluzione, il corso cosmico è voluto da Dio per l’uomo, è in funzione di lui, soprattutto in vista dell’incarnazione di Dio nella materia di questo mondo. Per Ildegarda, quest’immagine del cosmo abbraccia non soltanto le manifestazioni naturali, ma si riferisce anche ai fenomeni della cultura e della storia. L’immagine del mondo è l’uomo, nel Medioevo latino. L’antica corrispondenza macrocosmo-microcosmo, il grande l’universo e l’uomo, il piccolo universo, è a fondamento della visione cosmologica dell’uomo; cosmo e l'uomo sono interpretati insieme. Uno scrittore dell’epoca, Onorio d’Autun, descrive questa comunanza uomo e mondo nella sua opera, L’immagine del mondo.

L’uomo quando scopre, legge e comprende il libro della natura, scopre quale sia il suo posto, la sua funzione nel mondo. L’uomo, come un’aquila, che porta in alto la sua preda, sublima la natura sensibile in spirituale e trasforma così la natura esteriore in un mondo che diventa spirituale. In questo processo l’uomo riconosce la struttura dinamica dell’universo dall’interno e dall’esterno. Ogni creatura del mondo, dice un altro scrittore dell’epoca, è per noi quasi un libro, un dipinto, uno specchio, un segno sicuro della nostra vita e della nostra morte, della nostra condizione e della nostra sorte. Da qui deriva un rispetto per le cose, per il mondo e per le persone.

Ogni creatura ha il suo significato, dice Agostino. Ne deriva quindi una comprensione del mondo, come un sistema di segni del Creatore. È stato già detto che l’uomo sta al vertice dell’opera di Dio. Ildegarda, quando parla del mondo, intende anche l’uomo. La storia della salvezza è inseparabile dall’ordine della creazione della natura e del mondo. Come Ildegarda concepisce il mondo diventa chiaro, se si cerca di comprenderlo nelle sue caratteristiche. Come un mondo che Dio ha creato in bellezza e perfezione per l’incarnazione del Figlio di Dio, come pure per la risurrezione dell’uomo in un cosmo trasfigurato in una visione completa, che porta il sigillo del mistero della Trinità e rappresenta l’accesso per la comprensione del mondo e dell’uomo, del posto che l’uomo ha nel mondo e che è illustrato dal modo con cui ella lo rappresenta nelle sue visioni.

Dio non è soltanto l’interlocutore soggettivo dell’anima, ma il Creatore e il Signore del cosmo. Il mondo è il mezzo e la chiave per giungere alla conoscenza di Dio. Centro del mondo è il Cristo, il logos, il Verbo nel cosmo. L’incarnazione è come l’immagine del mondo esemplare per la struttura d’insieme del mondo e per quello dell’uomo. Il mondo è un cosmos, un insieme ordinato, da Dio creato nella struttura sensibile, perché egli vi possa assumere una struttura umana. La creazione ha per Ildegarda come fine l’incarnazione e la risurrezione dell’uomo. Cristo è diventato uomo per santificare e salvare ogni creatura. Dimora di Dio è la creazione, nella quale è stato posto l’uomo, affinché egli continuasse il suo sviluppo. Con l’incarnazione del Verbo di Dio, il mondo riceve una causa esemplare cristologica insieme alla sua fondamentale struttura antropologica. Cristo - e l’uomo insieme - sono il fine del mondo.

Sr. ANGELA CARLEVARIS osb

mercoledì 25 agosto 2021

“«Io sono la vita perfetta», dice Dio,«ed ogni altro essere vivente sulla terra ha in me la sua origine»”.

 


ILDEGARDA  DI  BINGEN


Il valore del cosmo, come quello d’ogni singolo essere creato, ha pure il suo fondamento teologico. Il pensiero d’Ildegarda non si rivolge in maniera esclusiva all’essere delle cose in sé, a ciò che appartiene alla loro natura, ma vede ognuna in rapporto con il suo ultimo fine. Tutti vengono da Dio, tutti tendono a Dio. Possiamo ritenere la sua una filosofia dell’essere che dà una ragione metafisica: creature che abbiano un valore indifferente non esistono per lei. Ogni essere ha, secondo Ildegarda, una sua verità, un vero, perché l’eterna verità ha posto in essi un pensiero che deve realizzarsi nell’ordine assegnato dal loro Creatore. Nell’insieme delle cose create ogni creatura rappresenta un bene; con un’immagine di quel bene assoluto dal quale essa procede e al quale ritorna. L’unico vero essere è Dio, che è l’unica vera vita. “Vita” ed “Essere” sono per Ildegarda un tutt’uno. “«Io sono la vita perfetta», dice Dio,«ed ogni altro essere vivente sulla terra ha in me la sua origine»”. Nel parlare di Dio, Ildegarda usa in maniera equivalente i termini “vita” ed “essere” e se preferisce il primo, ciò potrebbe avere la sua ragione nel fatto che lei considera come qualcosa di vivente, di dinamico, la presenza di Dio nel mondo.

Questo è ciò che vuole dire Ildegarda per quanto riguarda l’armonia tra scienza e fede, tra conoscere e credere nell’anima e tra accettare il proprio essere di creatura e il viverlo pienamente nella fede. La natura, il mondo e l’uomo hanno per lei una dimensione teologica; la parola creatrice di Dio porta l’uomo ad un dialogo esistenziale con la natura. Gli scritti d’Ildegarda offrono un’interpretazione teologica della natura, che ha il suo fondamento nel e con il rapporto tra il Creatore e la creatura. Gli elementi della natura che si trovano anche nell’uomo e con i quali egli opera, con le loro forze cosmiche, i venti, i pianeti, le stelle e le costellazioni sono chiamati da Ildegarda “firmamento”, ossia, quanto sta saldo nel mondo, opera e, nello stesso tempo, tiene insieme in un corpo unico l’universo.

Ê questo l’equilibrio delle forze che operano nel mondo, da cui risulta la salda struttura dell’universo. Non dobbiamo cercare una spiegazione scientifica che soddisfi il grado di conoscenza che abbiamo; Ildegarda ha sempre davanti la visione del mondo e cerca di collegarla con Dio. Dice, per esempio, le stelle tengono insieme compatto l’universo, guidano l’aria e ordinano tutto nell’ambito cosmico; si sostengono a vicenda e tengono insieme il firmamento, come le arterie dell’organismo che sostengono la vita del corpo umano. C’è sempre un parallelismo tra l’uomo e il cosmo. Per lei, le stelle sono voci, parole di razionalità; Dio, che è la ratio per essenza, ha detto una parola e queste stelle, come ogni altra creatura, sono parole di Dio.

Il firmamento ha la sua forza negli elementi: riceve salvezza dal fuoco, come l’argilla cotta nel fuoco diventa salda per fare le tegole, è mosso dall’aria, sostenuto dai venti, abbeverato dall’acqua, illuminato dalle stelle. Tutti gli elementi agiscono in tal modo, anche sull’uomo, il quale, a sua volta, esercita la propria influenza su di essi. Tutto è in intima e reciproca dipendenza, vive in stretto vicinato. L’universo è in uno stretto rapporto con tutti i suoi elementi cosmici e così pure l’uomo, che n’è socio. Tuttavia, ogni singola parte segue il suo corso e rimane nella propria sfera, o almeno così dovrebbe rimanere, senza oltrepassarla.

Ogni elemento nella sua individualità ha la capacità di eseguire il proprio compito; così il puro etere ha la forza di opporsi alla nebbia mortale che proviene dal fuoco. L’immagine è che l’etere è circondato da una zona di fuoco e ha la forza di vincere le nebbie che si alzano dai monti, dalle valli, dalle acque, dalla gran calura, dall’umidità della terra. L’aria è leggera e rende la terra feconda; il fuoco pervade tutti i cerchi cosmici, sicché lo splendore e la bellezza della natura toccano anche gli esseri più insignificanti della terra. La forza dei venti, delle violente energie naturali dell’universo, opera in ognuna delle sfere, secondo un piano prestabilito che ha conseguenze per tutto l’insieme dell’universo. Fiumi e ruscelli abbeverano la terra e la rendono fruttifera. L’aria si muove e con il suo calore e la sua umidità fa sì che la terra germogli. In questo sistema circolare entra pure il mare: c’è un’espressione curiosa che Ildegarda usa più volte nelle sue opere, che ho cercato di spiegare senza esserci riuscita, che “I fiumi derivano dal mare” – vanno al mare, ma ne derivano anche.

Nella natura tutto possiede la viridità, che per Ildegarda è la forza vitale, il verde di vita, la forza naturale, ciò che è sano, sanante, intatto, sinonimo d’integrità. Si trova nella fiamma come nelle acque, nelle pietre come umidità e spira nell’aria. Questa spiegazione sugli elementi già dà l’idea di come, per Ildegarda, tutto il mondo sia in una comunione reciproca, in uno scambio reciproco. La natura è nelle mani di Dio, è una creazione che vive e cresce secondo le sue leggi ed è in unisono con il cosmo: una cosa sta sempre in rapporto con l’altra. La terra, con quanto in essa nasce e cresce, glorifica la potenza di Dio, in quanto è anche materia affidata da Dio all’uomo, il quale è la materia dell’incarnazione del Verbo. Quindi, si parte dalla terra per arrivare all’uomo, dall’uomo, per arrivare al Verbo di Dio.

Sr. ANGELA CARLEVARIS osb

domenica 1 agosto 2021

Dio si vede con la faccia della fede e si abbraccia con la carità”.

 


ILDEGARDA  DI  BINGEN


Per credere, bisogna saper vedere se stessi e il mondo. “’Non abbiamo mai visto Dio’ dicono alcuni, ma Dio si rivela nella grandezza, nell’armonia del creato. Non si vede forse Dio nell’avvicendarsi del giorno e della notte? Non si vede nel seme gettato nel solco ed irrigato dalla pioggia, sicché germini? Perché non cercare Dio nelle Scritture? Dio che è il Creatore. Dio si vede con la faccia della fede e si abbraccia con la carità”.

Ildegarda ritorna più volte sul pensiero come non c’è carità senza umiltà, non c’è neanche fede senza carità. Chi pretende di procedere oltre ai limiti segnati dalla propria natura, non raggiunge la sua meta. Di nuovo una citazione, in cui c’è un’immagine classica: “Alza il dito e tocca le nubi! Ma non è possibile; così pure è impossibile raggiungere quello che all’uomo non è dato di conoscere. Non si arriva a Dio con il solo desiderio; ci vuole il serio impegno della vita, senza pretendere di disporre di lui secondo i propri interessi, ma con il fermo proposito di servirlo”. La fede vuole che l’intelletto giunga a quella chiarezza che gli è resa possibile dalla sua natura. Fede e intelletto collaborano senza mai sostituirsi. Ildegarda dice: “Due occhi ha l’uomo per vedere Dio, la scienza e la fede”. Vedere rappresenta per Ildegarda la prima fase del comprendere. La verità di fede si rende visibile all’occhio interiore e l’intelletto cerca di esporre quanto ne ha visto e di darne la ragione. Nella visione contemplativa che lei è propria, Ildegarda riveste concetti della filosofia in un linguaggio di vita e li esprime appunto per mezzo d’immagini, alle quali premette sempre un “quasi” o “come” ad indicare che quanto è venuta a conoscere nella visione non può essere reso completamente dalla parola.

Sr. ANGELA CARLEVARIS osb

giovedì 10 giugno 2021

LA CONCEZIONE ILDEGARDIANA DELL’ARMONIA DELLA PERSONA

 


ILDEGARDA  DI  BINGEN

Si è parlato l’altra volta dello sviluppo della personalità; come l’intendiamo noi, è parziale, perché ci riferiamo generalmente allo sviluppo delle capacità della persona che portano poi ad un risultato, il quale le dà la possibilità di affermarsi nella vita. C’è però uno sviluppo della personalità che dovrebbe o precedere o per lo meno svolgersi parallelamente; non si tratta della personalità “tecnica” e dello sviluppo di una certa capacità, per esempio, quella artistica, ma dello sviluppo di una personalità che ci permette di diventare veramente esseri umani, uomini. Quello che manca oggigiorno non è la conoscenza tecnica, ma lo sviluppo della personalità umana, dell’uomo; cose tremende non succederebbero se gli uomini fossero veramente uomini.

Lo sviluppo della personalità è una cosa non facile, perché sappiamo che la condizione stessa dell’uomo non è facile, in quanto egli è composto d’anima e corpo; dunque, deve sviluppare l’una e l’altro. Indipendentemente dai doni che una persona ha, ognuno ha il suo valore, perché occupa un posto nel mondo e ha un’attività che deve svolgere, ma molto spesso forse non sa quale sia, e così la sua vera importanza non la conosce. Ogni cosa e ciascuna persona ha una propria mansione, posto e attività che deve svolgere per sé e per gli altri; esercitando quest’attività si sviluppa se stesso e si cresce davanti a Dio, secondo il piano di Dio e si aiuta il prossimo.

La prima armonia, quella più importante, di cui parla Ildegarda spesso è quella che ci deve essere nell’uomo tra scienza e fede. Noi spesso contrapponiamo queste due qualità: scienza e fede, ma, per Ildegarda, non stanno in contraddizione. Il presupposto per credere è di accettare i limiti della propria condizione umana e di conoscerli. Per giungere a ciò, l’uomo deve continuare a cercare e non possiamo fare a meno di ricordare che la ricerca dei Dio è uno dei temi, forse quello più importante, della Regola di San Benedetto e che Ildegarda, come benedettina, vive di questa ricerca, vive in essa. Tutto quello che si presenta all’uomo nella vita, il mondo, le creature animate e inanimate, gli eventi, tutto, è un’offerta che chiede a lui una risposta dopo l’altra, un’accettazione o un rifiuto e l’uomo può dare questa risposta perché egli è un essere ragionevole, dotato della conoscenza del bene e del male.

Ildegarda pensa alla luce della fede e per lei essa è fides quaerens intellectum (= la fede che cerca di capire). Trattazione sistematica dei singoli temi non c’è e quando parla della fede nelle spiegazioni delle sue visioni, si lascia andare a continue diversioni che non sono mai un’inutile ripetizione di cose già dette, ma si collegano a riflessioni precedenti, chiarendole e completandole. Per quanto riguarda quindi il tema di fede e scienza, ci troviamo a dover raccogliere da diverse opere delle asserzioni che in parte corrispondono, a volte aggiungono nuovi elementi, mentre suscitano in noi l’impressione che non siano soltanto per caso e che Ildegarda ripensi a quello che ha detto e voglia completarlo.

La fede per Ildegarda è pure una scienza, quella delle realtà interiori e di quelle divine, una scienza capace di comprendere queste meglio d’ogni altra. Per mezzo della fede si conosce Dio. Dio è immenso e quindi la nostra conoscenza è sempre, e lo sarà sempre, parziale, ma è una conoscenza. La vera fede è “retta, pura, integra, stabile, è cattolica”, vale a dire, crediamo come crede la Chiesa. Ancora, la fede è “luce, occhio, chiarezza, splendore abbagliante” e nello stesso tempo è ombra. Tende sempre ad un nuovo rispecchiarsi in Dio per giungere a conoscerlo sempre meglio, senza mai giungere a conoscere tutto. Per Ildegarda, che cosa è la fede? Non troviamo una definizione qui; Ildegarda dice: “L’uomo che per la sua scienza, per l’occhio interiore, riesce a vedere quello che all’occhio esteriore rimane nascosto e di ciò non dubita, costui crede fermamente”. Vale a dire, ciò è fede. Così Ildegarda nel secondo libro dello Scivias, mentre nell’ottava visione del terzo libro rappresenta la fede insieme con altre virtù, in figura umana, essa discende tra gli uomini dall’alto con l’umanità di Cristo Salvatore, per ritornare in alto con la sua dignità. Ha un cordone di rosso sanguineo intorno al collo, perché caratteristica della fede è la fermezza, la forza, la perseveranza nel testimoniare che può giungere fino al martirio, la fedeltà a Dio fino all’ultimo sangue.

Un’altra immagine ancora: la fede è come un monte, al cui piede sta una roccia immensa, che è simbolo del timore di Dio, perché la fede è congiunta alla stabilità del timore di Dio, come il timore è congiunto alla fortezza della fede. Per opera del Figlio di Dio, mandato dal Padre, la vera fede germina rigogliosa, fondamento d’ogni buona opera, e nasce insieme con altre virtù dal timore di Dio, che giunge a toccare Dio nella sua inaccessibile altezza. Sappiamo che il timore di Dio, per Ildegarda e anche secondo San Benedetto, guarda a Dio; non è la paura. Ê il timore filiale, che vuol fare piacere a Dio e lo guarda, per cercare di non fargli dispiacere.

Ildegarda paragona ancora la fede ad uno specchio, speculum fidei, dice, riportandosi alle parole dell’Apostolo Paolo in 1 Cor 13,12: “…ora vediamo come attraverso uno specchio, in enigma”. Con l’occhio della fede si vede che ogni creatura tende al suo Creatore e che questo movimento non è mai concluso, così come non lo è l’atto di fede, perché mai Dio può essere completamente compreso dall’uomo. Il nostro atto di fede deve rinnovarsi continuamente. La fede tende ad un continuo rispecchiarsi in Dio, per giungere a conoscerlo sempre meglio. Qual è il maggior ostacolo alla fede? Per Ildegarda, è la dimenticanza di Dio, il non cercare Dio, l’oblivio cordis, (= l’oblio del cuore), come dice lei, il cuore che non si rivolge più a Dio, per guardare solo alle creature, come se esse potessero dare tutto quello di cui l’uomo ha bisogno.

Sr. ANGELA CARLEVARIS osb

martedì 30 marzo 2021

“Il corpo è l’indumento dell’anima e questa ha una voce che è vita, per questo è opportuno, è bene, che il corpo insieme all’anima per mezzo della voce canti le lodi di Dio”.

 


ILDEGARDA  DI  BINGEN


La preghiera

La preghiera non consta in molte parole, abbiamo già detto. Seguendo la Regola, dice: “…non in multiloquio sed in puritate cordis ed in compunctione lacrimarum”, non in molte parole, ma nella purezza del cuore e nella compunzione delle lacrime. In questa attitudine veniamo esauditi, troviamo ascolto presso Dio e comunichiamo con lui. Trovo molto importante il verbo audire, che significa qui esaudire, vale a dire, Dio, che ci sembra lontano, non lo è in realtà e ci sente e ci risponde con precisione. Anche la parola ”obbedienza” non significa altro che stare attenti ad ascoltare quello che un altro ci dice. L’obbedienza significa appunto, come dicevo prima, quell’attitudine di apertura all’altro che ci sta di fronte. L’obbedienza non è una virtù militare, è molto umana, dove manca l’obbedienza, l’attenzione per ascoltare l’altro,  manca ogni possibilità di comunicazione veramente umana. Il corpo e l’anima, l’intelletto e gli affetti devono prendere parte nella preghiera liturgica, che è un atto di tutta la persona e non soltanto dello spirito. Qui, l’importanza dell’atteggiamento nella preghiera. La preghiera liturgica porta ad una pietà, ad un essere pio, che non manca di austerità e, aggiungerei, di stile. È la preghiera che si esprime con dignità, compostezza, bellezza. Così sono le preghiere formulate da Ildegarda.

Quando, nelle orazioni della liturgia, si parla di “pia devozione”, l’espressione deve essere intesa per quello che vale. Non ha in sé nulla di sentimentale, che non significa che si escluda il sentimento. Devotio, la devozione, significa dedizione completa, non è un “atteggiamento pio”. La

pietas, la pietà, significa il rapporto di amore verso i genitori, verso la terra natia, che ci ha dato quello che siamo. Devotio, devozione, significa l’offerta di se stessi e la pietà è l’amore devoto in un rapporto naturale e religioso. La pietà liturgica è per Ildegarda, come per la Regola di San Benedetto, il personale rapporto dell’uomo con Dio, che trova la sua espressione nel culto, per cui l’intima convinzione e l’atto esterno, il gesto, la parola, l’atteggiamento, sono ugualmente importanti. La liturgia è la pietà della Chiesa e per questo riveste una grande importanza per Ildegarda, come, del resto, per noi ed in ogni tempo. È qualcosa di grande e solenne. L’ufficio divino è al centro della vita benedettina e Ildegarda è una figlia di San Benedetto. Nella sua spiegazione della Regola commenta i capitoli che lo trattano. La celebrazione del divino Ufficio è un servizio di lode al Creatore e va fatta in “voce di giubilo”, umilmente e devotamente. È un servizio angelico, perché l’uomo, per la lode che dà a Dio, è pare agli angeli, mentre con le opere sante, che cerca di fare, risponde alla sua vocazione, in quanto uomo. Con la lode di Dio e con le opere, l’uomo rivela le meraviglie di Dio, per questo ne è l’opera perfetta, plenum opus Dei.

Ildegarda scrive più di settanta canti per la preghiera in coro, versi e musica. Due manoscritti tramandano queste composizioni, la raccolta completa, la Riesenkodex, il “Codice gigante” di Wiesbaden, e una gran parte dei canti, ma non tutto il Codice nono di Dendermonde, nelle Fiandre. Questi canti non sono ordinati secondo i tempi dell’anno liturgico, come di solito nelle raccolte gregoriane, ma secondo il contenuto. Si tratta di antifone, responsori, inni, sequenze in lode della Trinità, dello Spirito Santo, di Maria, degli angeli, di alcuni santi, particolarmente venerati nella regione, per esempio, Sant’Ursola, San Martino, San Disibodo e alcuni santi di Treviri, Sant’Eucario, San Mattia. Anche in queste composizioni Ildegarda è originale. I richiami scritturali sono frequenti, senza mai essere delle vere e proprie citazioni. Il pensiero si esprime in sempre nuove immagini e simboli. La parte melodica, pur non essendo del tutto estranea ai modelli del tempo, supera, nell’ampiezza degli intervalli, quella caratteristica del canto gregoriano. Ildegarda definisce l’uomo con varie espressioni. La più bella, la più onorevole al parere mio è la seguente:

“L’uomo è il collaboratore di Dio, in quanto porta a compimento l’opera, è operarius Dei”. In molti diversi campi lavora l’uomo. In quale più che in ogni altro egli diventa collaboratore? L’uomo collabora con Dio quando realizza armonia. Armonia è un accordarsi, un concordarsi, un convenire, un venire insieme di realtà diverse in giuste proporzioni. L’armonia è il contrario di monotonia, un tono solo, dove tutti pensano nella stessa maniera, dove non si può dire una cosa diversa senza essere considerati come nemici.

Sentiamo quello che Ildegarda ci dice a proposito, ne fa una specie di storia: “Adamo aveva in principio una voce che suonava come quella degli angeli, ma la perdette quando fu cacciato dal bel paradiso, tutto luce. Perché il ricordo della beatitudine e la gioia primitiva del paradiso perduto non venisse pur essa dileguarsi, Davide e i profeti composero canti. Non solo, ma inventarono pure strumenti, che con il loro suono li accompagnassero. Il senso delle parole, il suono degli strumenti, la forma e le particolarità degli strumenti stessi commuovono l’uomo nell’intimo, fanno emergere in superficie quanto è nascosto nel suo interno e di cui in parte egli non ne è conscio, suscita quasi la nostalgia della primitiva situazione in paradiso. La musica suscita il ricordo dell’armonia dell’origine, degli inizi”. La musica è anche per questo importante, per Ildegarda, perché quando parliamo di arte in generale, diremmo che la musica è la più spirituale di tutte, invece la più spirituale è l’architettura. La musica invece è quella che più parla al corpo. La musica muove il corpo e il corpo muove l’anima. La musica ha origine in paradiso e unisce a Dio. Dove Dio è presente, c’è armonia. Chi conosce e vive nel mondo della musica è portato all’armonia. Lucifero e i suoi seguaci non possono più cantare. Dove appaiono loro, l’armonia scompare.

Ogni forza che distrugge ha la sua origine dal negatore di Dio. Dagli effetti della distruzione si può conoscere chi è l’autore dell’opera. L’armonia regnava al principio del mondo e l’armonia regnerà alla fine.  Alla fine tutto quello che è terreno scomparirà. Le diversità che distinguono e dividono gli uomini non serviranno più a separare, ma ad unire. Ogni uomo, ogni voce, conserverà il suo suono e la diversità si comporrà in un’unità che è armonia. Il libro dello Scivias chiude la storia del mondo, la storia della salvezza che dalla caduta di Adamo trova il suo nuovo inizio con la venuta di Cristo, per giungere al pieno compimento con la seconda venuta. Dopo le drammatiche descrizioni degli ultimi tempi, chiude dunque lo Scivias con la visione dell’armonia finale, tra tutti gli uomini in unanimità e concordia. Armonia non è solo da sperarsi nel futuro, ma può realizzarsi già nel presente, se l’uomo è disposto a farlo. L’uomo risulta da corpo e anima, e la voce dell’anima è voce di vita. Cito Ildegarda: “Il corpo è l’indumento dell’anima e questa ha una voce che è vita, per questo è opportuno, è bene, che il corpo insieme all’anima per mezzo della voce canti le lodi di Dio”.

Sr. ANGELA CARLEVARIS osb

domenica 7 febbraio 2021

ILDEGARDA DI BINGEN

 


La liturgia

Anche nell’eremo la liturgia avrà avuto uno sviluppo, ma più che altro, le monache avranno assistito alla liturgia dei monaci. A Rupertsberg e ad Eibingen Ildegarda stessa organizzò la liturgia. Negli scritti di Ildegarda non mancano reminiscenze di testi liturgici. Anzi sono frequenti, anche se non sono citazioni vere e proprie, antifone, inni, responsori, orazioni, di cui si trovano tracce, per così dire, ad ogni passo. Manca, invece, nelle sue opere una trattazione sistematica dei temi secondo l’anno liturgico, con l’eccezione della sua opera Explanatio evangeliorum, la spiegazione dei Vangeli delle domeniche e di alcune feste, non però completa. Ogni testo viene spiegato prima letteralmente e poi secondo il significato morale e due tre volte secondo il suo significato anagogico, come deve essere interpretato il testo se si guarda in una visione generale dell’anima fino alla fine del mondo.

Delle sette visioni della seconda parte dello Scivias, che ha per oggetto la Chiesa e i sacramenti, la sesta, la più ampia, con ben cento capitoli, tratta del santo sacrificio della Messa, Cristo crocifisso n’è il centro. Egli domina l’altare accanto al quale si vede ritta la figura di una donna, la Chiesa, congiunta a Cristo nella sua Passione. Il sangue che zampilla dal cuore trafitto di Cristo viene raccolto dalla Chiesa in un calice. Questo sangue Ildegarda lo chiama la dote della Chiesa, la sua ricchezza. Da esso risulta la salvezza delle anime, che alla Chiesa sono affidate. Assistere alla Messa è una grande cosa. Significa vivere con Cristo e insieme a lui non solo la sua Passione, ma tutta la sua vita. Durante la celebrazione della Messa, appaiono nella visione di Ildegarda in immagine, come in uno specchio, i misteri di Natale, della morte, della sepoltura, della risurrezione e dell’ascensione del Figlio di Dio. Il sacramento dell’altare è un mistero di fede e Ildegarda non si stanca di ripetere quanto sia necessario la fede per chi vi si accosti. Illustra con un’immagine, tratta dalla Vita di uno dei padri del deserto, della differenza tra le anime che si accostano alla santa comunione. Alcune sembrano tutte luminose, tutte d’oro, altre pallide, altre pallidissime, altre insozzate, altre addirittura nere, secondo lo stato dell’anima.

L’ufficio divino è al centro della vita benedettina. Ildegarda ne tratta, vi allude, nella quinta visione del secondo libro dello Scivias. Ne tratta anche nei vari capitoli della spiegazione della Regola di San Benedetto: “La via di perfezione, discreta e piana, aperta da San Benedetto attende da chi la segue con il proposito della conversatio morum nella continua ricerca di Dio, il ritorno a lui”. La conversione, abbiamo già detto, è un cambiamento di direzione. Quasi senza avvertirlo, ci volgiamo a quello che ci piace o ci interessa o a noi stessi, dimenticando il nostro fine ultimo, Dio. La conversione ci riporta a lui e con l’abnegazione della propria volontà giungiamo all’imitazione di Cristo nella sua Passione, come dice Ildegarda. La Regola è nella linea del Vangelo e non vuole nient’altro e niente di nuovo, se non che la si metta in pratica. “Se l’insegnamento degli apostoli può paragonarsi alla prima luce del giorno e l’inizio della vita monastica come l’aurora, il sole serve a dare un’immagine della vita, quale la vuole San Benedetto da chi segue la sua Regola”. “L’abito dei monaci - Ildegarda pensa qui alla cocolla, il mantello indossato per l’Ufficio in coro, con larghe maniche che Ildegarda paragona ad ali - riporta al servizio di lode degli angeli, mentre designa anche l’Incarnazione e la sepoltura del Figlio di Dio, in quanto chi lo porta si è offerto alla fortissima obbedienza, come lo fu Cristo, obbediente fino alla morte”. Quando il monaco riceve la cocolla, rinuncia ad ogni cosa, anche alla sepoltura. L’abito significa che il monaco ha scelto con volontà pura, senza voler nient’altro per sé nella vita religiosa se non Cristo. La cocolla è un segno di elevazione e di mortificazione, nella gioia, però. Ildegarda non è una santa triste e la Regola di San Benedetto porta ad una donazione gioiosa.

Nella spiegazione della Regola di San Benedetto Ildegarda rileva pure la saggezza pratica del santo. Le norme che dà per la preghiera nella notte, per le ore di sonno, sono di vantaggio per la salute. L’ora dell’alzata nella notte, una pratica che generalmente non si fa più, è ben scelta e non nuoce al processo della digestione. Dormire troppo a lungo, o dormicchiare, come l’oziosità, nuoce al fisico. La ripetizione poi giorno per giorno dei salmi ne rende possibile l’apprendimento a memoria e l’esercizio della memoria è di grande utilità.

Ildegarda fa osservare che la Regola in vari punti si rimette al giudizio e alla discrezione dell’abate e dei fratelli. San Benedetto non regola assolutamente tutto, ma lascia abate e fratelli una certa possibilità di decisione. La preghiera, quando è prolungata fuori misura non da gioia, ma nella giusta misura fa sì che la si assolve in gioia e non con noia. La preghiera personale Benedetto la vuole pura e breve: ognuno la deve fare, interpreta Ildegarda, secondo la propria capacità. Pura, ci si mette innanzi a Dio – e basta. “Sotto ogni riguardo la Regola tiene lontano dagli eccessi, che fanno perdere di vista il fine e conduce direttamente alla meta. Questa Regola non è né troppo larga nelle sue concessioni, né troppo stretta nelle sue prescrizioni, ma mira a destra e non a sinistra, sicché conduce diritto alla meta colui che l’osserva”.

Per Ildegarda, la discrezione raccomandata dalla Regola deve ispirare ogni scelta. La discrezione, dal verbo discernere = distinguere, non presuppone semplicemente il lavoro che precede ogni scelta, discernere il positivo dal negativo per prendere una decisione, dopo un confronto bene riflettuto e ponderato. Essa prende pure in esame le possibilità del soggetto, le qualità degli oggetti, la necessità del momento. Nello Scivias, terzo libro, sesta visione, appare come la virtù che sceglie il meglio tra quanto vi è di buono. “Tiene nel grembo gemme preziose che lascia scorrere tra le dita. Ella è colei che ogni cosa passa al vaglio della discrezione, cribratrix omnium rerum”. Ha un abito di colore nero, perché ogni buona scelta presume e richiede la mortificazione della carne, cioè, il dominio delle proprie facoltà. Porta sulla spalla destra una piccola croce con l’immagine di Cristo, perché non c’è virtù di discrezione senza la dilezione, l’amore, per lui. La discrezione suppone saper distinguere il bene dal male, ma anche tra le cose buone è necessario conoscere quale è il meglio, relativamente alla persona, al tempo e alla circostanza. La discrezione porta ad una scelta intelligente e conveniente. Nella lista delle virtù in questa visione dello Scivias ha il posto prima della virtù somma della salvezza dell’anima.

Nel libro Dei meriti di vita, dove entrano non solo le virtù, come nello Scivias, ma anche i vizi, in una discussione che si estende per tutti e trentacinque libri, la virtù Discrezione ha un dibattito con il vizio Mancanza di misura, che da nulla vuole astenersi e afferma che le piace agire semplicemente come a lei conviene, senza tener conto di quello che ne è la conseguenza. Discrezione, invece, non pensa al proprio vantaggio, sa che tutte le cose create stanno nell’ordine stabilito da Dio e si rispondono a vicenda. Così la luna risplende della luce del sole, tutte quante le creature servono quelle più grandi di loro e non vanno oltre i loro limiti. Discrezione considera, prima di agire, l’ordinamento di Dio e in carità ne tiene in conto. Il concetto di base di Ildegarda è quello di permetterci di essere penetrati da questa verità, che noi siamo sempre in rapporto: le parti del nostro corpo tra di loro, il nostro corpo con la nostra anima, noi stessi con gli altri, tutto quello che abbiamo ci viene dal rapporto con le creature – e che non dobbiamo considerarci liberi di fare quello che ci pare, perché dipendiamo da tutti e dipendiamo da noi stessi, nell’uso che facciamo delle nostre facoltà.

Questa virtù della discrezione è l’intima regola della vita spirituale per Ildegarda, come già per Benedetto. Parlando di Benedetto, Ildegarda dice: “Il santo ha posto il chiodo della dottrina al centro della ruota”. Il chiodo era già per gli antichi, simbolo della stabilità, irremovibile. La ruota è simbolo dell’universo creato, il simbolo di Dio e anche simbolo dell’uomo. Come simbolo dell’uomo, la ruota significa che l’uomo è sempre in movimento, sempre cambia, si gira e si muove nel tempo. L’unico fisso, al centro, è Cristo. Al centro, “…né troppo in alto, né troppo in basso”, sicché ognuno che vuole possa raggiungerlo, c’è Cristo, che sta al centro della ruota, sta fermo e vede girare la ruota. Chi si tiene saldo a Cristo è al centro del mondo, sta ritto e non teme, perché sa che nulla può separarlo da lui.

Sr. ANGELA CARLEVARIS osb

mercoledì 30 dicembre 2020

VITA EREMITICA E MONACHESIMO BENEDETTINO NEL XII SECOLO : LA PREGHIERA LITURGICA SECONDO SANT’ILDEGARDA

 


Ildegarda, parlando di Jutta, la sua maestra nell’eremo, dice così: “A quella donna, poi, Dio infuse per sua grazia, quasi un rivo, alimentato da molte acque, sicché ella non lasciò al suo corpo nessuna quiete, nessun riposo, in veglie, in digiuni ed in altre opere buone, finché non ebbe fine la sua vita terrena”. Così Ildegarda scrive nelle sue note autobiografiche su Jutta. Assieme a Jutta, Ildegarda trascorse ventiquattro anni sul monte di San Disibodo, da quel novembre del 1112, quando con Jutta di Spanheim ed un’altra compagna, sua coetanea, ricevette il velo dalle mani del santo vescovo Ottone di Bamberga. Fino alla morte di Jutta nel 1136 ci rimase. Precedentemente Ildegarda aveva trascorso altri sei anni assieme a Jutta sotto la guida della pia vedova Uda di Gingelheim, non si sa bene, se nella casa di Jutta a Spanheim, oppure a Magonza. Il racconto della vita di Jutta, scritta da un monaco, farebbe credere che Jutta seguisse l’esempio del San Disibodo, nell’estrema austerità, digiuni, penitenze, eccetera. Non viene detto se lo esigesse anche dalle sue compagne. Certo è, che Ildegarda, nella sua spiegazione della Regola di San Benedetto, mostra di attenersi alla norma del santo, che è ispirata da una saggia discrezione, e non identifica la santità con digiuni e mortificazioni, che pure non esclude.

Secoli prima, forse nel VII secolo, al tempo della fondazione del monastero sul monte alla confluenza dei due fiumi Glan e Nahe, che prenderà poi il nome del fondatore, al monaco pellegrino irlandese Disibodo, era successo qualcosa di simile. Nella vita, che di lui scrisse Ildegarda, leggiamo: “Egli non aveva preso per sé l’abito della conversazione dei suoi monaci, cioè, non aveva seguito la loro regola di vita, ma aveva concesso ai suoi sudditi di seguire la Regola del beato Benedetto, più mite di quanto lo fosse quella sua propria e l’aveva fatto per questo motivo, affinché egli, nel caso che avesse avuto la regola in comune con loro, senza voler però rinunciare alla rigorosa durezza di digiuni, veglie ed altre mortificazioni della carne, col sottrarsi all’osservanza delle consuetudini della Regola di San Benedetto, non avesse a portare alla distruzione la vita comune”.

La storia del monastero sul monte Disibodo è un susseguirsi di cambiamenti, a volte improvvisi e violenti, il monastero subì l’invasione degli Ungari, alla fine del X secolo, fu chiuso dal vescovo Hatto II alla fine del anno 1000, dal suo successore Willigis fu affidato ai canonici della Regola di Sant’Agostino, che vi abitavano per circa 110 anni. Fu ridato ai monaci benedettini dal vescovo Ruthard e in un giro di pochi anni, durante l’esilio di Ruthard, fu di nuovo consegnato ai canonici. Al suo ritorno, venne nel 1106 affidato ancora una volta ai benedettini, che, insieme al nuovo abate, Burkhardt, erano stati chiamati dal monastero di San Giacomo in Magonza. Quest’ultimo monastero lo conosciamo per il fatto dolorosissimo avvenuto nel 1160, quando il vescovo Arnold I venne invitato in monastero e fu ucciso. Dopo 1106 incominciò un periodo di intenso lavoro di ricostruzione, sicché le future abitanti dell’eremo non vi si poterono stabilire che nel 1112. Da Ildegarda sappiamo che lei stessa vide costruire la chiesa, che venne consacrata probabilmente nel 1125.


La vita eremitica

Una descrizione ideale della vita eremitica la troviamo nel secondo libro dei Dialoghi di San Gregorio Magno, al capitolo 4: “Il nome del solitario ci è ben noto, si tratta del venerabile Benedetto, vir Domini Benedictus, il luogo dove egli vive è la solitudine di una grotta, il modo, o la regola, di vita è l’abitare con se stesso, habitare secum”. Abitare con se stessi non è poca cosa, significa la capacità di vivere in solitudine e in pace con se stesso e in se stesso, la volontà di conoscere se stesso, accettarsi, senza rassegnazione, senza ribellione e senza illusione. Abitare con se stesso deve essere in fondo la meta, difficilmente raggiungibile, ma alla quale si deve sempre tendere, di ogni vita spirituale, eremitica, monastica o laica. Abitare con se stesso domanda una grande vigilanza, non però ansiosa né scrupolosa, sui pensieri e intimi movimenti dello spirito e una grande prudenza per prevedere, conoscere in precedenza, la conseguenza di ciò che si fa. Queste sono le caratteristiche della vita spirituale.

San Gregorio ci parla di Benedetto, definendolo “venerabile”. Il vocabolo in buon latino viene adoperato unicamente per Dio. Se Gregorio scrive in buon latino e usa questa espressione parlando di Benedetto, vuol dire che veramente la presenza di Benedetto richiamava a Dio. C’è una regola di eremiti che non sono ancora venerabili e conosciamo l’autore della Regula solitariorum, Grimlaico, solo di nome. Egli visse, pare, nel X secolo e dedicò la sua opera ad un altro Grimlaico, questi, sacerdote e vescovo, di cui ugualmente non c’è noto che il nome. La sua regola di solitari ha sessantanove capitoli e ci viene trasmessa nella Concordantia regularum, la “Concordanza delle regole”, di Benedetto d’Aniano, quel monaco che al tempo di Carlo Magno rese la Regola di San Benedetto, con l’indulto dell’Imperatore,  obbligatoria per tutti i monasteri dell’Impero.

Nel primo capitolo, preceduto dalla lettera dedicatoria al vescovo, Grimlaico comincia col dare delle definizioni. Per prima, quella del nome “monaco”: monaco significa singolare (dice lui) chi vive da solo. L’etimologia della parola è greca, e significa singolarità. Se questa etimologia è esatta, non lo so. Ci dà pure un’altra: monaco sarebbe quello che ha un’abitazione fissa, a differenza dai monaci erranti, vaganti. Monaco, ovvero solitario, è detto, secondo lui, di uno che lascia tutto quello che ha. Secolari sono quelli che amministrano bene quello che hanno. Due sono i generi dei solitari, ovvero, dei monaci: uno, gli anacoreti, eremiti; l’altro, i cenobiti, quelli che abitano insieme e fanno vita comune nei monasteri. Anche di questi nomi ci vengono date le spiegazioni. “Anacoreta” è quello che si ritira per vivere nella solitudine. “Ana-“ indica in greco un movimento nato in basso e “-coreo” spostarsi o muoversi. L’eremita ha già indicato nel suo nome il suo programma di vita. “Eremeo” significa vivere una vita tranquilla, ritirata; “eremizo” vuol dire tranquillizzo.

Grimlaico non parla mai con sdegno o con una certa superiorità, dei laici e delle cose di questo mondo. I laici, dice, spesso lavorano in maniera eccellente, nel tempo e per il tempo. E quello che fanno ha pure una conseguenza anche per la vita futura. Tutto ciò che il monaco fa, serve per l’eternità. Dice: “Ma che giova, aver lasciato tutto, se non si rinuncia poi a se stesso? nisi et semetipsum abneget?” Qui si pone la domanda, che cosa sia l’abnegazione di se stessi? A questa domanda, egli dà subito una risposta: “Abnegare se stesso non significa altro che farsi liberi dalla propria volontà o dalle proprie volontà”. Nella tradizione monastica si fa sempre la differenza tra “volontà” singolare e “le volontà” plurale. Il modo di scrivere nel Medioevo rende evidente la differenza. “Volontà” alla fine del Medioevo si scrive “volunctas” e da questo vocabolo nascono due possibilità: “voluntas” e “voluptas”. Voluptas è il piacere, voluntas è la volontà. Se uno ha molte volontà, in genere, non ha la volontà, e per questo le volontà vengono sempre ricollegate in qualche modo con la parola voluptas, per uno che cerca sempre il proprio gusto, il proprio utile. Abnegare se stesso significa dunque rinunciare alle proprie volontà. In che modo? Egli dà degli esempi pratici sul significato delle parole abnegare e renuntiare. Chi si libera dai propri beni, rinuncia ad essi. Chi si libera dalle proprie cattive qualità, abnega se stesso.

Se diamo un rapido sguardo al capitolo diciassettesimo in cui egli espone il suo pensiero sulla vita eremitica, vediamo subito che in linea generale e per quel poco che ne sappiamo corrisponde all’indirizzo seguito nel romitaggio di Disibodenberg. Il titolo stesso del capitolo ci fa conoscere il suo contenuto: Che i solitari non siano mai meno di due o tre. L’ingiunzione suona categorica ed è corretta dall’aggiunta: “…se possibile. Ci pare che sia utile e in molti casi addirittura necessario”.

Egli nota: “Una vita che sia sine ullius societate (senza comunanza con nessuno) è un grave pericolo. Ciò che uno, o nessuno, non può – e nessuno può tutto – lo può l’altro. Se sono in due o tre, possono scambievolmente aiutarsi, farsi coraggio, incitarsi”. Egli usa qui il vocabolo excitare e in questo verbo si nasconde il significato dell’estrarre, di tirare fuori qualcosa di nuovo, nel senso di sviluppare talenti latenti, forse ignorati, che possono farsi strada nella comunanza di vita. Ai solitari deve venir data la possibilità di comunicare con altri. Il capitolo precedente dice che essi devono potersi scambiare la parola ed avere la possibilità di “se excitare”, di muoversi scambievolmente alla preghiera. Letteralmente dice: “all’opera di Dio, al servizio divino”, intesa come recitazione della preghiera in coro.

Essere almeno in due, continua Grimlaico, serve per meglio affrontare pericoli. Quali sono i pericoli ai quali è esposta la vita eremitica e la vita spirituale in generale? Il primo e il più grande è il compiacimento di se stesso e della propria virtù, o almeno di quella che si giudica di essere tale e che il solitario può provare pensando di aver raggiunto nel suo genere di vita il culmine della perfezione. A questa sua presunzione il prossimo gli può servire da controllo, da verifica e da correttivo. Qui non s’intende, e Grimlaico non intende, che l’altro debba di proposito e di continuo esercitare la sua critica, per metterlo alla prova. La pazienza dell’eremita, la sua carità e mitezza vengono messe alla prova dalla diversità del suo compagno, dell’altro, dal suo essere diverso da lui, dal suo comportarsi in altro modo. Anche se il solitario è in possesso di alcune virtù, ci saranno senz’altro delle altre che non sono così sviluppate. Da sé non riuscirà così facilmente a rendersene conto. Il confratello potrà aiutarlo a riconoscerlo, incoraggiarlo ed esortarlo. Alla sua debolezza, la presenza di un altro servirà da sostegno. Non si tratta qui che l’uno debba fare la predica all’altro, lo sottolinea Grimlaico, ma a vedere l’altro comportarsi in un certo modo e sentire la disapprovazione, anche se non espressa, aiuta a correggersi.

Ancora, come potrebbe uno comunicare ad altri quel che possiede, se non ci fosse nessuno a cui darlo? I doni dello spirito sono innumerevoli. Il confratello possiede alcuni, ma sono diversi da quelli dell’altro. Ne nasce così, se sono in due o tre, la possibilità di uno scambio, per usare le parole dell’antifona di Natale, è questo uno “scambio meraviglioso” nella vita comune. L’antifona dice: “O admirabile  commercium…”, o scambio meraviglioso alludendo al fatto di Gesù, Dio fatto uomo, che ci dà la sua divinità e noi gli diamo in cambio la nostra povera umanità. Questo stesso cambio può avvenire anche in modo più ristretto nella semplice vita comune. Pure contro le insidie del nemico, quelle esterne come quelle interne, giova assai la vita insieme ad altri - multum iuvat societas plurimorum – senza parlare poi della preghiera. Perché non è poco l’utile che viene se due confratelli pregano insieme. Lo dice il Signore stesso: “Qualora due di voi si accordino sulla terra per domandare qualcosa, questa sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli, perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). E Grimlaico aggiunge:

“Due pregano più di quanto possa fare uno da solo”. Ma perché non si tragga una falsa conclusione da quanto ha detto in precedenza,  aggiunge alla fine del capitolo: “Abbiamo raccomandato di vivere la vita eremitica in due o tra insieme, ma non vogliamo con ciò escludere che uno solo, se già provato in precedenza nella vita cenobitica, possa vivere in solitudine perfetta”. E in questo si rifà la Regola di San Benedetto.

La vita eremitica in tre fu quella che visse Ildegarda all’inizio a Disibodenberg. Con l’aumento del numero delle sorelle, Ildegarda riconobbe che era giunto il tempo di una trasformazione. Allora era ormai la responsabile del gruppo. Dall’eremo di Disibodenberg sorge il cenobio, il monastero di Rupertsberg e alcuni anni più tardi quello di Eibingen. C’è una Vita di Jutta, scoperta recentemente, in cui si nota la differenza nella vita della comunità al tempo di Jutta e al tempo di Ildegarda. In Jutta prevaleva, sebbene con grande bontà, dolcezza e moderazione, l’indirizzo strettamente ascetico.

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Sr. ANGELA CARLEVARIS osb