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domenica 15 settembre 2024

Il Dogma dell'Inferno.

 


Monsignor Fitz Patrik, vescovo di Boston, raccontò nel Collegio di san Michele a Bruxelles, nel 1862, la conversione di una dama americana, protestante ostinata, consorte del generale Rosenkranz, abilissimo guerriero dell'esercito del Nord nella guerra del 1860. Questo soldato, anch'egli già protestante, avea avuta la sorte di udire una chiara e semplice esposizione della religione cattolica, e per tal uomo retto e generoso bastò questo a fargliela abbracciare. Da quel punto egli, pieno di fede e di fervore, applicossi non solo a vivere da vero cattolico, ma di più a procurare ad altri protestanti la conversione; di guisa che in breve guadagnò fino a venti ufficiali, e scrisse un libro per la istruzione religiosa dei soldati. È chiaro però quanto si dovesse adoperare in questa parte anche a pro della moglie; ma ebbe il dolore di vedervi cadere a vuoto tutti gli sforzi del suo zelo. Intanto permise il Signore che la Dama venisse colta da un male che in brev'ora la ridusse agli estremi. Il marito, dopo usato indarno ogni mezzo, suggeritogli dalla fede e dalla carità, vedendo la malata sul punto di morire nella sua ostinazione, ricorre ad un espediente ultimo. 

Chiama i quattro irlandesi suoi domestici, e dice loro piangendo: Amici, vedete come ella è protestante e non vuole udirsi parlare di religione cattolica: è presso a morire nella sua ostinazione, per cadere nell'Inferno. Al pensiero di tanta disgrazia, io fremo. Bisogna impedirla quanto possiamo. Facciamo dunque violenza, pregando al cuore misericordioso di Maria. Così detto, trae il suo rosario e si mette ginocchioni a pregare: i quattro fanno altrettanto con lui per un'ora intera. 

Appresso va il Generale al letto dell'inferma, e la trova in una specie di letargo, priva di conoscenza. 

Poco stante torna ella in sè, e con voce chiara dice al marito: «Chiamatemi un prete cattolico». Egli dapprima la credette in delirio, e le fece ripetere la domanda. Un prete cattolico, torna ella a dire; vi prego, senza indugio! - Ma, mia buona, non ne volevate! - Ah Generale! io sono tutta cangiata. Dio mi ha mostrato l'Inferno ed il luogo a me riserbato nell'eterno fuoco, se non mi faccio cattolica! 

Ebbe dunque la bella sorte di entrare in seno della Chiesa; e ricuperata eziandio la sanità, visse poi sempre da fervorosa cattolica. - E quel venerando Prelato affermava di avere udito questi particolari dalla bocca medesima del Rosenkranz. 

   Così è; a campare dall'orribile Inferno, dall'Inferno per infallibil testimonianza di Dio rivelato, dall'Inferno per una serie di irrepugnabili fatti comprovato, giova in gran maniera il salutare pensier dell'Inferno. Faccia il Signore, per intercessione della santissima sua Madre, che anche il presente libretto concorra in qualche parte a destarlo e nutrirlo nelle anime. Ah fosse pure in una sola, troppo sarebbe largamente compensata la tenue fatica spesa nel comporlo! 

del R. P. SCHOUPPES S.J. 

domenica 11 agosto 2024

Il Dogma dell'Inferno.

 


Ai tempi di sant'Ignazio di Loiola, vivea nella sua casa professa di Roma un Fratello, segnalato per lo spirito di fervore e di mortificazione, da lui mantenuto col pensiero dell'Inferno, Era cuoco, ed in quell'umile ufficio dal fuoco, che avea di continuo sotto gli occhi, volgea la mente a quello che tormenterà per sempre i reprobi nell'Inferno, infiammandosi così di odio contro il peccato, meritevole di sì orrendi castighi. Una volta che assorto in tali pensieri, abbandonavasi al dolore delle proprie colpe, spinto da indiscreto fervore cacciò la mano dentro le vive brace, tenendolavi a bruciare. Un Padre senti l'odore che ne esalava, ed entrato in cucina domandò al Fratello che fosse. 

Questi, non potendo più dissimulare l'eccesso dello spasimo, si chiamò in colpa, chiedendone in ginocchio perdono. Ma sant'Ignazio, avvisatone, trovò il fallo più degno di compassione che di castigo: si mise in preghiera, vi durò gran parte della notte, ed al mattino la mano del povero Fratello apparve sana come prima. Nel che mostrò il Signore, che se l'atto del fervente religioso fu inconsiderato, il timore però dell'Inferno gli era gradito. 

   Santa Teresa narra, nel capo trentesimo­secondo della propria Vita, di aver veduto il posto a lei preparato nell'Inferno, ed ecco le sue parole: «Stando un giorno in orazione, mi trovai, senza saper come, trasportata in un attimo, anima e corpo, all'Inferno. Intesi che Dio volea farmi vedere il posto che avrei occupato, se non avessi cangiato vita. Nessuna parola può dare la minima idea di un tale tormento incomprensibile. Io mi sentiva nell'anima un fuoco divorante, ed insieme il corpo in preda di intollerabili dolori. Avea durato in vita mia crudi patimenti; ma tutto quanto avea mai sofferto era un niente al confronto dei dolori provati da me in quel momento. E quello che vi mettea il colmo, era l'apprendere che sarebbero senza fine e senza sollievo. Le torture del corpo, per quanto crudeli, eran nulla verso l'agonia dell'anima. Mentre sentivami ardere e come tritare in minuzzoli, soffriva tutte le angosce della morte, tutti gli orrori della disperazione. Non la più tenue speranza di consolazione in quella spaventevole dimora. Vi si respira un odore pestilente da sentirsene di continuo soffocati. Non raggio di luce, ma tenebre della più cupa oscurità; eppure, o mistero! senza che alcun barlume rischiari, vi si scorge ciò che vi è di più penoso alla vista.... Insomma quanto io aveva inteso dire delle pene dell'Inferno, quanto ne avea letto, era un nulla innanzi alla realtà. Fra l'uno e l'altro corre la differenza che fra un ritratto inanimato ed una persona viva. Ah ben poca cosa è il fuoco nostro, anche più divampante! è come un fuoco dipinto in confronto di quello che brucia nell'Inferno i riprovati. Quasi dieci anni mi sono trascorsi da questa visione, e mi sento ancora colmar di tale sgomento scrivendola, che mi agghiaccia il sangue nelle vene. In mezzo ai travagli ed ai dolori io richiamo questa memoria, e ne traggo forza di tutto sopportare. 

del R. P. SCHOUPPES S.J. 

giovedì 1 agosto 2024

Il Dogma dell'Inferno.

 


O figliuoli! figliuoli miei! Non andate all'Inferno! Non andate all'Inferno!


Monsignor de Ségur narra un caso molto singolare, avvenuto verso il 1830 nella scuola militare di Saint-Cyr. L'abbate Rigolot dava gli esercizii spirituali a quei giovani, che si radunavano in cappella, prima di salire al dormitorio. Una sera, dopo aver parlato dell'Inferno, tornava egli con una bugia in mano alla propria stanza, e nell'aprirne l'uscio udì chiamarsi da uno che lo seguia su per le scale. Era un vecchio e baffuto capitano, che si fece ironicamente a dirgli: Scusate, abbate mio, voi ci avete fatto testè un magnifico discorso sull'Inferno; ma solo avete ommesso di farci sapere, se vi avremo a cuocere in pignatta, o a spiedo, o alla graticola; vorreste dirmelo? Il sacerdote, veduto con chi avesse a fare, lo mirò fiso; ed appressandogli al naso la candela, rispose tranquillamente: Voi lo vedrete, capitano; e senza più si serrò in camera. Sopravvenne a non molto la rivolta di Parigi, i cappellani militari furono tolti, ed il Rigolot mandato dal suo Arcivescovo ad altro posto, non meno onorevole. Un venti anni appresso, conversava egli tra gran numero di persone in una sala, quando si vede salutare da un vecchione in bianchi mustacchi, che gli domanda, se egli è 1'abbate Rigolot, già cappellano di Saint-Cyr; e udito, che sì, ripiglia commosso: Deh lasciate che vi stringa la mano, e vi esprima tutta la mia riconoscenza! Voi mi avete salvato! - Io? come mai? - Come? Non mi ravvisate voi? Non vi sovviene del capitano, istruttore della scuola, che all'uscire di un ragionamento sull'Inferno vi mosse una molto ridicola domanda, e voi appressandogli al naso la bugia, rispondeste: Lo vedrete? Sono io quel desso, D'allora in poi quella parola mi tenea dietro dappertutto, come il pensiero che andrei a bruciar nell'Inferno. Dieci anni resistetti, ma infine dovetti arrendermi; mi sono confessato, sono tornato cristiano, alla militare, cioè tutto di un pezzo. A voi debbo sì bella ventura, e sono in gran maniera contento di potervelo manifestare. Il padre de Bussy della Compagnia di Gesù dava in non so quale città della Francia una missione, che mise in commovimento tutto quel popolo. Era presso Natale, e facendo gran freddo, la stanza dove il predicatore accoglieva gli uomini era scaldata da una buona stufa. Quivi il buon Padre vede farsegli avanti un giovane, a lui raccomandato in causa del suo mal costume e degli empi suoi vantamenti; ond'egli sapendo di che si trattava: Venite, mio buon amico, disse gaiamente, non abbiate paura, che io non confesso veruno per forza; sedete, e discorriamo a un poco riscaldandoci. In questo dire, aperta la stufa, vi scorge quasi consumate le legna; però dice al giovine: Di grazia, prima di porvi a sedere date qua un paio di stecconi da rifornire il fuoco. Quegli, benché alquanto meravigliato, fece; e l'altro: Metteteli dentro, ma fino al fondo. E come il giovine introducea la legna per l'apertura, il Padre di repente gli afferra il braccio e ve lo spinge bene avanti. Mise un grido, quel poverino, e balzò indietro dicendo: Che è questo? Siete in senno? Volete bruciarmi? Ed a lui: il Missionario tranquillamente: Che dunque, mio caro? Bisogna bene avvezzarvici; giacché nell'Inferno, a cui vi conduce il vostro modo di vivere, avrete a bruciare, non solo in un braccio, ma in tutto il corpo; e questo fuocherello è un nulla in comparazione dell'altro. Su, su, amico mio, coraggio; conviene assuefarsi a tutto. Il giovane libertino se ne andò, rifletté, e sì di proposito, che a non molto rivenne al Padre, il quale lo aiutò a rimondar l'anima delle colpe ed a rientrare nella buona via .

Io non esito punto a sostenere, soggiunge il Ségur, che tra mille, tra dieci mila uomini, viventi lungi da Dio e perciò sulla strada dell'Inferno, neppur uno per ventura si troverebbe capace di tollerare la prova del fuoco; neppur uno sì stolto da accettare il patto seguente: Ti è concesso di abbandonarti durante un anno a tutte le tue passioni, di soddisfare a tutti li tuoi capricci; purché al fine passi un giorno, anzi un'ora sola nel fuoco. No, lo ripeto, niuno ardirebbe accettare un tal patto. Ne volete una prova? Udite la storia di tre figliuoli di un vecchio usuriere. Un padre di famiglia, fattosi ricco con ingiustizie patenti, venne a termine di vita, e tuttavia non potea risolversi a restituire, pensando; Se io restituisco, che sarà de' miei figliuoli? Il confessore, a salvezza di quel meschino, si apprese ad un molto accorto partito. Gli disse che se volea guarire, un rimedio semplicissimo era pronto, ma caro, molto caro. Costi quel che costi, rispose animato il vecchio, non importa. Di che si tratta? - Di far colare sulle parti del vostro corpo incancrenito del grasso di una persona vivente. Ah, disse il pover uomo sospirando, temo assai di non trovare alcuno al bisogno. Ve ne offro modo, oppose quietamente il sacerdote. Chiamate vostro il figliuolo maggiore, che vi ama e deve essere vostro erede, e ditegli: Figliuol caro, tu puoi salvare al vecchio tuo padre la vita, se acconsenti a lasciarti abbruciare una mano per un solo quarticel d'ora. Se egli si rifiuta, volgetevi al secondo con promessa di farlo vostro erede in luogo del primo. Se questi ancora non vuole, il terzo accetterà senza dubbio. La proposta si fece successivamente ai tre, che l'uno dopo l'altro la respinsero spaventati. Allora disse il padre: Come! Vi spaventa un istante di dolore per salvarmi la vita? E io per mantener voi agiati dovrò bruciare nell'Inferno eternamente? Per fermo, sarei troppo stolto? Laonde senza più altro riguardo, affrettossi a restituire il mal tolto. Egli ebbe ragione, ed i suoi tre figli ancora: poiché il lasciarsi bruciare una mano non più di un quarticello, sia pure per salvare la vita di un padre, è sacrificio al di sopra delle forze umane. Nel 1844, scrive ancora il Ségur, ho conosciuto nel seminario di san Sulpizio un molto insigne professore, del quale ognuno ammirava l'umiltà e lo spirito di mortificazione. Era l'abbate Pinault,  che da secolare avea insegnato nelle più alle scuole politecniche; e nel seminario faceva i corsi di fisica e chimica. Un giorno durante un esperimento, il fosforo gli prese fuoco in mano, e questa in un istante si trovò involta di fiamme. Indarno si provò il disgraziato a spegnere coll'aiuto degli scolari il fuoco; e per eccesso di dolore perdette i sensi. La mano orribilmente abbrustolata, a temperarne in alcun modo lo spasimo, fu immersa in un secchio di acqua, e per tutto un giorno ed una notte il paziente, ritornato in sè, non potè a meno di mandare un continuo grido straziante; e quando ad intervalli gli riusciva di articolare parola, ripetea ai tre o quattro alunni che lo assistevano: O figliuoli! figliuoli miei! Non andate all'Inferno! Non andate all'Inferno!

del R. P. SCHOUPPES S.J. 

domenica 7 luglio 2024

Il Dogma dell'Inferno.

 


Il pensiero dell'Inferno fortifica i deboli. Due cristiane, Donnina e Teonilla, vennero condotte innanzi al prefetto Lisia, che loro intimò l'ordine di rinnegar la fede, e sacrificare agl'idoli. E rifiutandosi, elleno fermamente, un rogo fu acceso ed insieme eretto l'altare di un falso nume, e: 

Scegliete, fu lor detto, o bruciare incenso su quell'altare, o bruciare voi stesse in quelle fiamme. La risposta delle eroine non si fece attendere: Noi non temiamo un fuoco, che presto si estingue; ma ben temiamo il fuoco dell'Inferno, che non si estingue giammai. Per isfuggirlo, detestiamo i vostri idoli ed adoriamo Gesù Cristo. Così sostennero da forti il martirio nel 285. 

    Cesario ci narra, come un uomo perverso, pel quale molto si era pregato, venne a morire, e nel momento di seppellirlo, egli rilevossi vivo, pieno di forza, ma compreso di sommo terrore. 

Interrogato che gli avvenisse, rispose: Dio mi accorda una grazia insigne; perché dopo avermi fatto vedere l'Inferno, oceano immenso di fuoco, nel quale io dovea piombare, mi concede spazio di espiare i miei peccati colla penitenza. Da quel punto il peccatore si vide cangiato in altro uomo, tutto lacrime, macerazioni e preghiere. Camminava tra bronchi e spine a piè nudi, vivea di solo pane ed acqua, il suo guadagno lavorando donava ai poveri; e se altri esortavalo a mitigare le sue austerità: Ho veduto l'Inferno, rispondea, e so che non potrei fare mai troppo per evitarlo. Ah l'Inferno! Se tutti gli alberi di tutte le foreste venissero ammassati in una immensa catasta ed accesi, vorrei meglio gittarmivi a bruciare sino alla fine del mondo, che soffrire una sola ora il fuoco dell'Inferno! 

   Il Venerabile Beda parla di un ricco del Nortbumberland, cambiato pari mente in altro uomo alla vista dell'Inferno. Chiamavasi Tritelmo, e menava una vita da Epulone. Il Signore per singolarissima grazia gli mostrò in visione i supplizii eterni dei dannati; ond'egli tornato in sè, tosto si confessò, distribuì ai poveri i suoi beni, entrò in un monastero, né mise più limite alle austere sue penitenze. D'inverno immergeasi nell'acqua gelata; d'estate sostenea il travaglio del caldo e della fatica, con rigorosi digiuni e macerazioni, fino alla decrepitezza. E quando gli parlavano di temperare alquanto i suoi rigori, rispondea: Se aveste veduto meco l'Inferno, parlereste altrimenti. - 

Ma come potete voi tollerare sì eccessivi rigori? - Io non li conto per nulla verso l'Inferno, meritato dalle mie colpe. 

del R. P. SCHOUPPES S.J.

domenica 16 giugno 2024

Il Dogma dell'Inferno.

 


Il Pensiero dell'Inferno. 


Nel 1815, passò di vita nel collegio di Saint - Acheul, presso Amiens, il giovinetto Luigi Francesco de Beauvais, a soli quattordici anni, ma già maturo pel cielo; tanto la vita sua era stata innocente e santa, grazie specialmente al pensiero dell'Inferno. Una volta stando ancor piccino presso al fuoco da lato alla madre, domandò se come quello fosse ardente il fuoco dell'Inferno. Ah, bambino mio, rispose la donna, questo fuoco è un niente in confronto dell'Inferno. Ed egli sbigottito: E se io vi avessi a cadere? L'Inferno aspetta solamente i peccatori, e se tu fuggi la colpa, non hai che temere, conchiuse la madre. Le sue parole scolpironsi nell'animo del fanciullo per modo, che furono il principio dell'orrore al peccato e della santa vita di lui. 

    Andando nel 1540 da Parma a Roma, per la via tra Siena e Firenze, il beato Pietro Fabro, uno dei primi compagni di santo Ignazio, si trovò sorpreso dalla notte in paese infestato da ladri e da banditi. Egli ricorse, conforme l'usato, al suo angelo custode, e ben presto scoperta una casa, andò a chiedervi ospizio. Era di ottobre, e la stagione correa fredda e piovosa. La gente del luogo, vedendo un sacerdote, lo accolse con rispettosa benevolenza, e gli offerse ristoro invitandolo al fuoco per rasciugarsi. Ma mentre ivi assiso parlava egli a' suoi ospitatori delle cose di Dio, si fece udire un romore di passi precipitosi; poi colpi violenti alla porta; ed ecco uomini armati fino ai denti gittarsi dentro la casa. Erano in sedici masnadieri, che tumultuosamente chiedevano si desse loro quanto eravi di provvisione; poi accomodatisi d'intorno ad una tavola, presero a mangiare e bere in mezzo a villane canzoni ed indecenti propositi. Il beato Fabro non si era mosso; ma tranquillo e pensieroso manteneasi cogli occhi fissi al fuoco. Il capo dei banditi domandò: Che fai tu costà? L'uomo di Dio si taceva; e l'altro: Non rispondi tu? Sei tu sordo? Sei tu muto? No, diss'egli allora; ma un pensiero mi tiene sospesa la mente. - Qual è questo grande pensiero? Su, dillo a noi. - Io penso, egli rispose in tono posato e grave, che l'allegrezza dei peccatori è molto infelice; perché questo fuoco mi ricorda l'Inferno, da cui essi non potranno campare, se non si affrettano di tornare a Dio. - Le quali parole spiccaronsi con tale forza ed unzione, da impor riverenza a quelli omacci, che non proferirono più sillaba, e così ebbe agio il Beato di parlare del loro pericolo di cader nelle mani della giustizia umana, e più ancora in quelle della giustizia divina; poi venne alla sicurezza di una buona coscienza, alla misericordia di Dio, della quale disse cose tanto commoventi, che quei meschini proruppero in lagrime, implorando perdono dei loro peccati. Il buon Padre fece lor animo, e tanto bene li dispose, che tutti a lui durante la notte si confessarono. 

R. P. SCHOUPPES S.J. 

sabato 18 maggio 2024

Il Dogma dell'Inferno.

 


 Il Pensiero dell'Inferno.


San Martiniano avea trascorsi venticinque anni nella solitudine, quando il Signore permise che la sua fedeltà venisse posta a fortissimo cimento. La perfida meretrice Zoe, in mentito abito di mendicante, venne sotto una pioggia dirotta a chieder ricovero da lui, per sedurlo. In somigliante occorrenza non poteva il santo anacoreta ricusarsi; lasciò entrare la straniera, ed accese il fuoco, invitandola ad asciugarsi. Ma ben tosto la ribalda, gittati da sè i cenci, si scoperse vestita nella maniera più splendida ed attraente. In tanto pericolo, il servo di Dio si sovvenne dell'Inferno; onde fattosi al fuoco, si tolse i calzari e cacciò i piedi entro le brage. Per dolore mandava lamenti, ma pensava insieme: Ahimè, anima mia, se tu non puoi sopportare un sì debole fuoco, come potrai sopportare il fuoco dell'Inferno? La tentazione fu vinta; Zoe si convertì. Ecco un effetto salutare del pensiero dell'Inferno. 

    Un altro anacoreta, assalito da violenta tentazione e temendo di cedere, accese la propria lucerna; e poi per concepire al vivo il pensier dell'Inferno, mise il dito sulla fiamma, e lasciandovelo con tanto suo spasimo bruciare, diceva a sè medesimo: Poiché tu vuoi peccare, ed averne in castigo l'Inferno, prova prima se avrai la forza di sostenere quegli eterni tormenti. 

    Si racconta di san Filippo Neri che ricevette un dì la visita di un uomo di rea vita ed a lui nemico, il quale gli volse ingiusti rimproveri e lo ricolmò d’ingiurie. Allora il Santo lo fece avvicinare al camino, dicendo: Riguardate quel fuoco! Il mal uomo riguardò; ma in luogo del focolare vide un abisso tutto di fiamme, in fondo al quale egli riconobbe il posto a sè destinato. Per la qual cosa il furioso peccatore, compreso di spavento, tosto si calmò, vide il pericoloso stato dell'anima sua, e cangiò costumi. 

R. P. SCHOUPPES S.J. 


lunedì 6 maggio 2024

Il Dogma dell'Inferno.

 


Il Pensiero dell'Inferno. 


San Dositeo, vissuto nel sesto secolo, fu allevato come paggio nella corte di Costantinopoli, e sul principio condusse una vita tutta mondana, in profonda ignoranza delle verità della fede. E come avea molto udito parlare di Gerusalemme, volle andarvi per curiosità; ma quivi appunto lo aspettava la misericordia di Dio; la quale a toccargli il cuore servissi di un quadro, esposto in una chiesa, dove erano rappresentati i supplizii dell'Inferno, coi reprobi disperati, sommersi entro un pelago di fiamme, ed orribili mostri, furiosi nello straziarli. Dositeo, colpito da quella paurosa scena, ne domandò spiegazione; ed a lui una persona incognita là presente: È l'Inferno, in cui sono i supplizii dei riprovati. - E quanto durano tali supplizi!? perché sono riprovati quelli che vi sono? Potrei forse anch'io incontrare tanta sventura? Che debbo fare per mettermene al sicuro? Così domandava Dositeo, e di mano in mano fu risposto alle sue domande; e n'ebbe impressione sì viva, che da quell'istante lasciò il mondo per vivere nel ritiro. Entrò dunque in un monastero, dove coll'aiuto della grazia, col pensiero dell'Inferno sempre presente, colla direzione del santo abbate Doroteo, fece rapidissimi avanzamenti nella virtù. Chi pensa all’Inferno, non vi cadrà, perché al momento della tentazione con tale aiuto si manterrà nel dovere.

del R. P. SCHOUPPES S.J. 

venerdì 19 aprile 2024

Il Dogma dell'Inferno.

 


Del Timor salutare dell'Inferno. 


Dobbiamo temere l'Inferno, perché vi possiamo precipitare. Ahimè, troppo è facile il dannarsi, e molti di fatto si dannano. S. Teresa li paragona ai fiocchi di neve cadenti nelle fosche giornate invernali. Il servo di Dio Antonio Pereira, citato di sopra, vide le anime peccatrici calare nell'abisso; come i grani di frumento sotto la macina, come le pietre ammassate dentro un'ampia fornace di calcina. Il venerabile Padre Baldinucci, celebre missionario della Compagnia di Gesù, morto in odore di santità l'anno 1717, predicando in aperta campagna, perché la chiesa non potea contenere la gran moltitudine: Fratelli miei, dicea parlando dell'Inferno, volete sapere in quanto gran numero sono quelli che si dannano? Riguardate questo albero! Tutti gli occhi furono rivolti ad una pianta, carica di foglie; e nello stesso punto un improvviso soffio di vento agitò tutti quei rami, facendone cadere le foglie in tale abbondanza, che le rimaste qua e là si contavano. Ecco, riprese l'apostolico uomo, ecco le anime che si perdono; ecco le anime che si salvano. Provvedete a tempo, a fine di essere tra le seconde! Ancora il padre Nieremberg narra di un vescovo, che per una speciale permissione di Dio ebbe la visita di un infelice morto impenitente. Questi domandò se erano tuttavia uomini sulla terra. E perché il prelato mostrava stupore di siffatta interrogazione, soggiunse: Dappoichè io sono nella trista dimora, vidi arrivarvi una sì sterminata moltitudine, che stento a capire come rimangano ancora uomini sulla terra! La quale parola ricorda quella del divino Maestro in san Matteo: «Entrate per l'angusta porta; perché larga e spaziosa è la via che mena in perdizione, e molti vi entrano. Quanto angusta e quanto stretta è la porta che conduce alla vita, e quanto pochi vi entrano!». 

    Per mettersi al sicuro dell'Inferno, bisogna schivare di prenderne il cammino, bisogna schivare il peccato di ogni maniera. Gli uomini si lasciano strascinare in perdizione, quando per uno, quando per altro legame d'iniquità: Molti muoiono nelle lor colpe, perché privati degli ultimi sacramenti; e fra quelli che li ricevono non pochi ancora si perdono, perché li ricevono male. Ecco un fatto riferito negli Annali del paraguai al 1640. Nella Riduzione dell'Assunta, una donna era morta, lasciando un figliuolo di circa vent'anni, il quale si vide apparire nel più orribile stato la madre, con queste parole: sono dannata, per aver mancato di sincerità in confessione; e molti altri per questo medesimo sono dannati con me. E tu approfitta dell'esempio della disgraziata tua madre! Il padre Nieremberg ricorda di un altro dannato per la stessa cagione. Era un giovane, che con un'apparenza di vita cristiana, odiava però un suo nemico, e frequentando i sacramenti, nudriva in cuore sensi di vendetta, cui Gesù Cristo comanda di deporre. Dopo morte apparve al proprio genitore, dicendo di essere perduto per non aver perdonato al nemico. E appresso con accento di dolore indicibile gridò: Ah se tutte le stelle del cielo fossero altrettante lingue di fuoco, non potrebbero esprimere i miei tormenti! 

   Ascoltiamo ancora il medesimo autore. Un infelice abituato a compiacersi in disonesti pensieri cadde malato, e ricevette gli ultimi sacramenti. Il dì appresso il suo confessore, mentre tornava per visitarlo, se lo mirò venire incontro dicendo: Non andate più oltre; sono morto e dannato. - perché mai? Non vi siete ben confessato? - Sì, bene: ma dopo il demonio mi rappresentò vietati piaceri, chiedendo se in caso di guarigione vi ritornerei: ho acconsentito alla rea suggestione, e lo stesso momento mi sorprese la morte! Ciò detto aperse le vesti, mostrò il fuoco che lo divorava, e disparve. Una nobile dama e molto pia, narra lo stesso Padre, pregava il Signore di farle conoscere, quali persone del suo sesso maggiormente a lui dispiaceano; e ne fu esaudita in miracolosa maniera, perché si vide aperto sotto gli occhi l'eterno abisso, e dentrovi una femmina in crudeli tormenti, da lei riconosciuta per una sua amica, morta non era molto. Tale aspetto le cagionò stupore pari alla tristezza; perché riputava che la persona in pena non avesse vissuto male. Allora quella perduta le disse: Ho praticata la religione, è vero; ma vissi schiava della vanità; e dominata dalla passione di piacere non temetti di adottare fogge indecenti per attirare gli sguardi altrui, e così accesi il fuoco impuro in più di un cuore. Ah se le donne cristiane intendessero come dispiace a Dio l'immodestia nel vestire! Nello stesso punto la misera venne trafitta da due lance di fuoco e cacciata dentro una caldaia di piombo liquefatto. 

Tomaso Cantipratense, dotto religioso domenicano, racconta di un misero peccatore di Bruxelles, dedito all'intemperanza e ad altri vizii prodottine, che avea con morte prematura posto fine a' suoi disordini. Un suo amico é compagno negli stravizii, dopo assistitone ai funerali, era tornato a casa e stava solo in camera, quando intese gemiti sotterranei. Sgomentato dapprima, non sapea che fare; ma infine arrischiossi a chiedere: Chi è che geme? - Sono io, tuo compagno, si udì rispondere, del quale tu hai seguito il corpo al sepolcro. Ahimè, l'anima mia è sepolta nell'Inferno! Poi con un grido, anzi ruggito spaventoso: Guai a me! l'abisso mi ha inghiottito, e la sua bocca si è chiusa sopra di me! 

    Anche Enrico di Granata ricorda una giovine, di vita regolata, ma di continuo tormentata dalla bramosa vanità di piacere. Si ammalò e morì, dopo ricevuti tutti i sacramenti. Or mentre il confessore pregava per l'anima di lei, essa gli apparve, affermando di essere dannata, per causa della sua vanità, e, aggiunse: Ho cercato di piacere agli occhi degli uomini, e tale passione mi ha fatto commettere quantità grande di colpe, mi ha impedito di ricever bene i sacramenti, mi ha condotto ai tormenti eterni! 

    Un usuraio avea due figliuoli che seguivano i mali esempi del padre. L'uno di questi, tocco da Dio, rinunciò al colpevole mestiere e ritirossi nel deserto. Prima di partire però, si fece lagrimando ad esortare il padre ed il fratello a pensar come lui alla propria salvezza, ma indarno; chè quelli durarono nel peccato e morirono nella impenitenza. Iddio permise appresso che il solitario venisse in cognizione del tristo loro stato. In un rapimento egli si trovò sopra un'alta montagna, appiè della quale vedevasi un mare di fuoco, donde si alzava come una tempesta di confuse grida; e poco stette a scorgere tra quei fluiti divampanti suo padre e suo fratello, furibondi l'uno contro l'altro, scagliandosi reciprocamente rimproveri e maledizioni, con tale orribile diverbio: Io ti maledico, figliuolo detestabile! per te ho commesso l'ingiustizia e perduto l'anima! Io ti maledico, padre indegno! perché mi hai perduto co' tuoi mali esempi! - Io ti maledico, figliuolo insensato, che ti sei associato ai peccati di tuo padre! - Io ti maledico; crudele autor de' miei giorni, che mi hai allevato alla dannazione. - Così si legge raccontato nelle Vite dei Padri. 

del R. P. SCHOUPPES S.J. 


lunedì 25 marzo 2024

Il Dogma dell'Inferno.

 


Un giorno meditava una sant'anima sull'Inferno, e considerandone la eternità dei tormenti nelle parole sempre, mai, entrò in turbamento, perché non vedea come conciliare questa grande severità colla bontà e colle altre perfezioni divine: Signore, diceva, io mi sottometto ai vostri giudizii; ma non pare che voi spingiate troppo lontano i rigori della vostra giustizia! - Comprendi tu, si udì rispondere, che cosa sia il peccato? Chi pecca dice a Dio: Io non voglio servirvi! io sprezzo la vostra legge! io mi rido delle vostre minacce! - Comprendo, Signore, che il peccato è un oltraggio alla vostra Maestà. - Ebbene, misura, se puoi la grandezza di tale oltraggio. - Signore, tale oltraggio è infinito, perché si porta contro un'infinita Maestà, - Non è dunque a punire con un castigo infinito? 
Or come tale non può essere nella intensità, così vuole giustizia che almeno sia tale nella durata. La giustizia divina dunque vuole la eternità delle pene, il terribile sempre, il terribile mai; e li stessi reprobi saranno sforzati a renderle omaggio, gridando in mezzo ai loro tormenti: Giusto siete, o Signore, e retto è il vostro giudizio! (Salm. CXVIII). 
    S. Giovanni Damasceno riporta nella vita di S. Giosafatte, come trovandosi una volta questo giovane principe travagliato da violenti tentazioni, pregò lagrimando il Signore di esserne liberato. 
Fu esaudito, e si vide condotto in ispirito entro un luogo buio, pieno di orrore e di confusione e di spettri spaventevoli. Ivi era uno stagno di fuoco e di zolfo, con entro sommersi a divampare innumerevoli sciagurati, tra le disperate urla dei quali una celeste voce si fece udire così: «Qua riceve il peccato il suo castigo! Qua un piacer momentaneo si punisce con una eternità di tormenti!» A tale spettacolo si sentì egli colmare di una forza novella, onde si rese vincitore di tutti gli assalti dell'inimico. 
    Il più acerbo rammarico dei riprovati, dice san Tomaso, sarà quello di essersi perduti per un niente, mentre era loro sì facile il conseguire una eterna felicità. Gionata venne condannato a morte per avere, contro il divieto di Saulle, gustato un tantino di miele. Ma come sarà più amaro il cordoglio dei reprobi, al vedere come per poco miele, per godimento fuggevole, hanno incontrato la eterna morte! Il re Lisimaco, assediato dagli Sciti che gli aveano tagliato il corso a tutte le fonti, non potendo più reggere ai bruciori della sete, si arrese, ed ebbe salva la vita. Avuta dal nemico una tazza di acqua, bevette avidamente, ma subito esclamando: «Deh come presto trascorse il piacere, a comperare il quale ho perduto il regno e la libertà!» Così ripeteranno i dannati, ma con amaritudine immensamente maggiore: Oh come presto passò il piacere colpevole, a cagione del quale ho perduto una corona di eterna felicità! Tornava Esaù stanco dalla caccia, e per ottenere da Giacobbe una scodella di lenti, gli cedette il suo diritto di primogenitura, e poi se ne andò, poco dandosi pensiero di quello che avea fatto. Ma oh quanto rimase costernato, e quali disperate grida levò, allorquando venuto a raccogliere l'eredità, vide il molto lasciato al fratello ed il pochissimo a sè rimasto! Irrugiit clamore magno, dice la Scrittura. Quali saranno però le urla dei reprobi, quando riconosceranno di avere venduto la celeste loro eredità per manco di un piatto di lenticchie? Quando vedranno di avere per un niente perduto i beni eterni, per un niente incorsi gli eterni supplicii? 
Geremia profeta predisse a Sedecia re di Giuda la futura sua sorte con queste parole: «Ecco la vita e la morte. Se ascolterai il Signore, rimarrai sul trono tuo in pace; se lo disprezzerai, sarai dato nelle mani al re di Babilonia.» Sedecia non tenne conto del divino avvertimento, ed in breve gli piombò sopra il minacciato castigo; perché caduto in potere di Nabucodonosor, venne accecato e carico di catene gittato nelle prigioni di Babilonia. Quale allora esser dovette l'atrocissimo suo rammarico al ricordarsi della predizione di Geremia? Troppo sparuta imagine dei tardi rammarichi, delle angosce crudeli, onde invano si consumeranno i riprovati! Piangeranno il tempo sprecato in vani sollazzi e nell'obblio di loro salute. Un'ora, ripeteranno per sempre, un'ora ci avrebbe acquistato quello che una eternità non potrà darci giammai! Racconta il padre Nieremberg di un servo di Dio, che trovandosi in un'abbandonata solitudine udì lugubri gemiti, che non poteano provenire se non da cagione soprannaturale; il perché domandò chi fossero gli autori di quelle dolorose grida, e che volessero. Noi siamo riprovati, sì udì risposto da una lamentevole voce, che deploriamo nell'Inferno il tempo perduto, il tempo prezioso, da noi consumato sopra la terra nella vanità e nel peccato. Ah un'ora ci avrebbe dato quello che non potrà mai renderci una eternità! 

R. P. SCHOUPPES S.J. 

giovedì 22 febbraio 2024

Il Dogma dell'Inferno.

 


Altro tormento dell'Inferno è la orribile compagnia dei demonii e degli uomini riprovati. Si danno sciagurati peccatori, che vedendosi chiaramente incamminati a quel termine, si rassicurano dicendo: Non vi sarò solo! Oh tristissima consolazione! È quella dei condannati a portar le catene dentro l'ergastolo. Tuttavia si può ancora intendere come un forzato trovi qualche sollievo nella compagnia de' suoi simili; ma ohimè, così non sarà nell'Inferno, dove i reprobi addiverranno carnefici gli uni degli altri! «Là, dice san Tommaso, i compagni d'infortunio, anzi che alleviare la sorte dei reprobi, la renderanno più insopportabile». Così anche la società di quei medesimi, che furono in vita i migliori amici, sarà laggiù intollerabile ai dannati, che riputerebbonsi felici della compagnia di tigri e di leoni, piuttosto che dei loro prossimi, dei loro fratelli, dei loro proprii genitori! 

    Volete or vedere la povertà dell'Inferno e le privazioni soffertevi da coloro, i quali hanno fatto lor dio dei beni del mondo? Considerate il Ricco malvagio. Era in vita assuefatto a delicati cibi, recati in vasellame prezioso; a bere in coppe d'oro vini squisiti; a rivestirsi di bisso e di porpora; ma divenuto abitatore dell'Inferno, si vede ridotto all'estrema indigenza; ed egli che al mendico Lazzaro negava le bricciole della sua mensa, è costretto a mendicare alla sua volta. né domanda lautezze, ma una goccia di acqua, che beato sarebbe a ricevere dal dito di un lebbroso; e questa pure gli è negata! 

Non lo ha detto il Salvatore? «Guai a voi, o ricchi, perché avete la vostra consolazione! Guai a voi, che siete satolli, perché patirete la fame!» (S. Luc. VI, 24, 25). 

    Nell'eterno abisso, scrive santa Teresa nella propria Vita, non è luce; ma tenebre delta più cupa oscurità; e tuttavia, oh mistero! senza che alcun raggio vi trapeli, si scorge tutto quello che può arrecar maggior pena alla vista. E fra gli oggetti di tormento agli occhi dei reprobi, i più orrendi sono i demonii, che a loro si scuoprono in tutta la propria mostruosità. San Bernardo parla di un monaco, il quale tutto ad un tratto mandò dalla cella tali grida di spavento, che fecero accorrere tutta la Comunità. Fu trovato fuori di sè, in atto di ripetere queste tristi parole: Maledetto il giorno che sono entrato in religione! Tutti si conturbarono a tale maledizione, di cui non intendevano la causa; e si fecero ad interrogarlo, ad animarlo, a parlargli della fiducia in Dio; ed egli ben presto ritornato alla calma: No, no, riprese, non debbo io maledire la vita religiosa; anzi benedetto il giorno che divenni monaco! Ma, o fratelli, non vi faccia meraviglia, se mi vedete conturbato. Due demoni si sono mostrati a me; e l'orribile loro aspetto mi ha tratto al tutto di senno. Quale mostruosità! Ah piuttosto ogni altro tormento, che sostenerne ancora la vista! 

    Un santo prete, esorcizzando un ossesso, chiese al demonio, quali pene soffrisse egli nell'Inferno? 

Un eterno fuoco, rispose colui, un'eterna maledizione, un'eterna rabbia, un'orribile disperazione di non poter mai contemplare quello che mi ha creato. - E che vorresti tu fare per avere il bene di veder Dio? - Per vederlo, fosse pure un solo istante, consentirei di buon grado a sopportare i miei tormenti dieci migliaia di anni... Ma vani desiderii! Io patirò sempre, e non lo vedrò mai! - In altra somigliante occasione, l'esorcista domandò al demonio, quale fosse il suo maggior supplizio nell'Inferno. Rispose quegli con un disperato accento indescrivibile: Sempre, sempre! Mai, mai! 

del R. P. SCHOUPPES S.J.

lunedì 29 gennaio 2024

Il Dogma dell'Inferno.

 


L'antichità ci ha conservato il nome di tre tiranni, famigerati per la loro crudeltà, Massenzio, Ezzelino, Falaride. Il primo si dice che legava faccia a faccia, e corpo a corpo le sue vittime a cadaveri, e così le abbandonava fino a che la fetente putredine del morto avesse ucciso il vivo. Il secondo avea prigioni sì orribili, che i condannati chiedeano la grazia di essere scannati per non entrarvi; ma non l'ottenevano, e con funi erano giù calati in sotterranei infetti ad immergersi nella putredine. Il terzo chiudeva i miseri entro un toro di bronzo, che facea poi lentamente arroventare per arrostirli vivi. Supplizii orribili; ma non sono che un'ombra di quelli dell'Inferno, se pure! 

    I Romani punivano i parricidi con un particolare tormento; precipitavano giù nel mare il reo, cucito entro un sacco in compagnia di serpenti: debolissima imagine del supplizio rìservato nell'Infermo a rei di parricidio contro Dio! 

    Si freme leggendo nella storia il supplizio atroce dell'uccisore di Guglielmo d'Orange. Ebbe la persona tutta pesta da ferree verghe, trafitta da punte acute, esposta così agli ardori di un lento fuoco, e mentre dopo indicibili spasimi era sullo spirare, Venne con rovente metallo abbrustolato alle mani, e squartato. Questo infelice avea commesso un delitto enorme, ma contro un principe mortale; quale vorrà esser però il castigo di chi si volse contro l'immortale Re dei re? 

    Secondo alcuni storici, Zenone imperatore, empio del pari che dissoluto, perì di una tragica morte; Nella notte del 9 aprile 91, dopo un'orgia, cadde in sincope si violenta, che si credette estinto, e fu quindi al più presto sepolto nella tomba imperiale. Ivi tornato in sè, chiama indarno i servi e le guardie; nessuno risponde alle sue grida, ed egli si trova nelle tenebre, chiuso tra i morti; con d'intorno da ogni parte fredde muraglie e ferree porte: allora non serba più ritegno; abbandonasi ad ogni trasporto di rabbia e di disperazione, fino a spaccarsi contro la parete il cranio. Così fu trovato il miserabile suo cadavere. Quale orribile condizione di codesto principe sepolto vivo! E la condizione dei riprovati giù nell'Inferno? 

    L'Inferno è la fogna del mondo ed il ricettacolo di tutte le immondizie morali dell'umanità. Là si trovano ammassate la disonestà, l'intemperanza, la bestemmia, la superbia, l'ingiustizia e gli altri vizii tutti quanti, che sono come la putredine delle anime. A queste immondizie morali si accoppia una corporale infezione, più insopportabile di tutto il fetore degli spedali e dei cadaveri; onde se il corpo di un solo riprovato, afferma san Bonaventura, fosse portato sulla terra, basterebbe a renderla inabitabile, più che una stanza con entro un cadavere putresente. A Lione un uomo, entrato in una tomba cadde morto all'istante; tanto le infette esalazioni vi erano violenti, che lo soffocarono. 

Sulpizio Severo scrive di san Martino, che questi sul finir della vita fu tentato dal demonio, venuto a lui sotto forma visibile, vestito alla reale, colla corona in testa, affermando di esser il Re della gloria; il Cristo Figliuol di Dio. Ma il santo Vescovo lo riconobbe sotto quelle bugiarde apparenze di umana grandezza, e da sè lo cacciò con dispregio. Così svergognato disparve il superbo spirito, ma per vendetta lasciò la camera del Santo ripiena di tal puzzo, che non vi si potea più stare. I Padri della Compagnia di Gesù aveano, vivente sant'Ignazio, una casa presso il Santuario di Loreto, e perché operavano gran bene nelle anime, l'invidioso demonio, permettendolo Iddio, venne a disturbarli con visibili apparizioni. Tutta la casa era infestata da maligni spiriti, i quali ora spaventavano, ora maltrattavano, or anche cercavano con seducenti illusioni di risospingere quei religiosi nel mondo. Uno di quei perfidi ricacciato da un padre e costretto ad uscir dalla cella, se ne andò dicendo: Ah non ti piacciono i miei consigli; vedi dunque se ti aggradirà meglio il mio alito! A questi detti, spalancata orribilmente la bocca, mandò un soffio di aria sì fetida in volto all'altro, che questi ne rimanea per poco soffocato; e la stanza per parecchi giorni non si potè più abitare.

R. P. SCHOUPPES S.J. 

sabato 6 gennaio 2024

Il Dogma dell'Inferno.

 

La Storia del Giappone ci parla degli orribili gorghi del monte Ungen vicino a Nangasachi. La vetta di questo, molto alta, si sparte in tre punte, di cui gli intervalli formano voragini spaventose; donde si levano intermittenti vortici di fiamme, e boglienti acque e fanghi cocenti, con esalazioni sì fetide, che quelle gore si hanno dalla gente del paese per fogne dell'Inferno. Tutti gli animali le sfuggono con orrore, e gli stessi uccelli non volanvi sopra impunemente, per quanto in alto levati. Il tiranno Bugondono, signore di Ximabara, pensò di farvi tuffar dentro i cristiani; ed ognuno si figuri la spaventevole agonia, di quei miseri, alla quale non venia la morte a por fine, perché si avea cura di estrarne i dolenti, prima che rimanessero soffocati; ed allora, inzuppati da quelle sulfuree acque, i corpi dei martiri si copriano di orrende pustule, scoppianti ben tosto in maligna piaga, onde ne cadeano putrefatte le carni; e così ridotti, come cadaveri in luoghi immondi si abbandonavano. Sono questi però i tormenti dell'Inferno? Un'ombra, se pure! 

    Il medesimo Bugondono inventò altri non più uditi supplizii per combattere il cristianesimo. Un giorno gli furono condotti sette cristiani, giubilanti in aver da patire per Gesù Cristo. Montò in furore a tal vista il tiranno, e fatte piantar sette croci, quelli vi fece configgere, ordinando che lor si segasser le membra con taglienti canne ed insieme s'introducesse del sale nelle ferite, Il supplizio si eseguì con lentezza crudele, tanto che durò cinque giorni; e per raffinatezza di barbarie vi erano medici a far prendere dei cordiali ai martiri, con che potessero più a lungo reggere nel supplizio. È questo uno dei tormenti dell'Inferno? Un'ombra, se pure! 

    All'invasione dei calvinisti in Olanda, avendo questi settarii preso alcuni sacerdoti gesuiti a Mastricht, vollero su di essi sbramare tutta la crudeltà del diabolico loro odio. Dopo averli dunque colmati di scherni e di oltraggi, fecer loro serrare il collo in cerchi di ferro armati di punte e di coltelli; e così le braccia e le gambe in anella somiglianti; poi li misero a sedere su scanni gremiti di chiodi; di sorte che i martiri non poteano stare né muoversi senza tormento. Appresso li attorniarono di fiamme per bruciarli a fuoco lento; quale tortura! Se i pazienti duravano immobili, erano bruciati; se agitavansi erano straziati dalle punte e dai coltelli. I servi di Dio trionfarono coll'aiuto della grazia di tanta barbarie; ma non è men vero però che i tormenti furono oltre misura spietati. Ma sono poi uno di quelli dell'Inferno? Un'ombra, se pure! 

del R. P. SCHOUPPES S.J. 

martedì 19 dicembre 2023

Il Dogma dell'Inferno

 


Santa Cristina vergine, giustamente sopranomata l'Ammirabile, nata a Santrond nel 1150, risuscitò da morte, e visse di poi quarantadue anni, sopportando inauditi patimenti per sollievo delle anime purganti e per la conversione dei peccatori. Dopo la giovinezza passata nell'innocenza, pazienza ed umiltà, morì ella di trentadue anni in odore di santità, e ne fu portato il cadavere scoperto nella chiesa di Nostra Signora per celebrarvi le esequie. Or mentre i fedeli, concorsivi numerosi, le stanno pregando requie, all'Agnus Dei; la defunta si solleva dal feretro, e pochi momenti appresso si lancia leggiera come piuma in alto, e tranquilla si asside sopra una cornice. A tale portento tutta la gente fugge atterrita, lasciando soli la maggior sorella della morta ed il parroco celebrante. Il quale, compiuta la messa, ordina a Cristina di calare; ed ella scende all'istante soavemente, come non avesse peso il suo corpo, e colla sorella tornasi tranquillamente a casa; dove interrogata dai parenti e dagli amici, ella rispose così: «Quando ebbi dato l'estremo sospiro, l'anima mia uscita dal corpo trovossi attorniata da uno stuolo di angeli, che la trasferirono in luogo buio e pauroso, dove accoglieasi moltitudine innumerevole di anime umane. Ed io vidi pene e tormenti da non potersi esprimere da lingua creata. Fra' tormentati ravvisai parecchi da me conosciuti in vita; all'aspetto dei crudi loro supplizii mi senti a compresa da vivissima compassione, e chiesi alle mie guide che luogo fosse quello. Io lo riputava l'Inferno; ma mi fu risposto che era il Purgatorio. Appresso mi furono dati a vedere i tormenti dei reprobi, e là pure ravvisai alcuni di mia conoscenza. Poscia gli angeli mi trasportarono in Paradiso al trono di Dio; e lo sguardo pieno di amore, a me da lui rivolto, mi ricolmò d'ineffabile allegrezza, che mi facea sentire come per tutta l'eternità io avrei goduto di quella beatissima presenza. Ma il Signore, in risposta a' miei pensieri, disse: Sì, o figliuola, tu sarai meco eternamente: ma per ora lascio a tua scelta, o di goder subito della beatitudine, o di tornare anche in vita, a soffrire in corpo mortale le pene delle anime immortali, senza però che possano queste arrecargli guasto alcuno. Per tali pene libererai tu le anime testè vedute con sì grande tua compassione, e contribuirai validamente alla conversione e santificazione dei vivi, compiuto il tempo di tua missione, qua ritornerai al possesso del mio regno. - Non esitai punto a scegliere la parte della carità, e Dio mostrandosene contento ordinò agli angeli di ricondurmi sulla terra. E voi, o miei cari, non vi maraviglierete ai grandi portenti che vedrannosi nella mia persona; poiché saranno opera del Signore, il quale fa ciò che gli piace, secondo i suoi disegni, sovente occulti, ma sempre adorabili». A tale narrazione, ben si capisce, gli astanti rimasero colpiti di un santo sbigottimento, e mirando sbalorditi a Cristina, tremavano al pensiero dei patimenti serbati a questa risorta figliuola. E di fatto, ella da quel punto venne a parere un'anima del Purgatorio in corpo mortale, di maniera che la vita sua riuscì un tessuto di prodigii e di dolori non più veduti. Si ritrasse dal commercio degli uomini, vivendo abitualmente in solitudine. Dopo udita messa, ove sovente comunicava, si vedea fuggire verso i boschi e le selve, a durarvi giorno e notte  in orazione; e com'era dotata dell'agilità, volava da un luogo all'altro colla prestezza del lampo, lanciavasi al sommo degli alberi, sui tetti delle case, sulle torri dei castelli e delle chiese; sicché spesso i passaggeri la vedeano posare sui rami di una pianta, e tosto dileguavasi via al loro approssimarsi. Non usava di ricovero alcuno; ma vivea come gli animali del bosco, esposta a tutte le ingiurie del cielo, anche nella più rigida stagione: il suo vestire era modesto, ma grossolano e poverissimo: mangiava, come gli animali, ciò che incontrava per via. Se vedeva un fuoco acceso, v'introducea le mani, i piedi, e, se potea, tutto il corpo, durando nel tormento quanto più le era possibile: spiava le occasioni di gittarsi nelle ardenti fornaci, nei forni arroventati, nelle caldaie bollenti. D'inverno passava le notti nelle gelate acque dei fiumi: talvolta lasciavasene portare dalla corrente sotto le ruote dei mulini, ad esserne travolta, sbattuta, conquassata. Altra industria della insaziabile sua brama di tormenti era di stuzzicare le frotte di cani, perché la mordessero e straziassero; o di ravvoltolarsi fra sterpi e spine, fino a grondare tutta di sangue. Sono questi alcuni dei modi, ond'ella non cessava di tormentare il proprio corpo; e cosa mirabile, ma conforme alla promessa fattagliene da Dio, all'uscire del suo supplizio non ritenea veruna piaga, né si vedea tocco il suo corpo dalla minima lesione. La quale vita di patimento tornò ad edificazione di un numero grandissimo di fedeli, che ne furono testimonio per tanti anni; ed ella dopo convertiti moltissimi peccatori, volò infine a goder della gloria degli eletti, l'anno 1224. Ora se rigori somiglianti ci fanno fremere, che pensare dei tormenti dell'altra vita? Là un'ora di pena sarà più tremenda che cento anni passati quaggiù in rigorosissima penitenza, dice l'autore della Imitazione.

R. P. SCHOUPPES S.J.

sabato 25 novembre 2023

Il Dogma dell'Inferno.

 


Racconta il Surio nella Vita di santa Liduina, che in un rapimento ella vide un abisso, di cui l'ampia apertura era contornata di fiori, e la profondità, riguardandovi, agghiacciava di spavento: un tumulto indescrivibile ne usciva, misto di urla, di bestemmie, di fracassi, di percosse rimbombanti, e dal suo buon Angelo seppe che là era la dimora dei riprovati, dei quali volea mostrare a lei i tormenti. Ahimè, risposegli ella, io non ne potrei sostenere la vista! E come potrei, mentre il solo strepito di quei disperati gridori mi cagiona un orrore insopportabile? 

    Se i reprobi non sofferissero altra pena nell'Inferno fuorché quella di restare perpetuamente immobili, senza mai cambiar luogo né positura, questo solo deve riuscire intollerabil supplizio. Un ricco voluttuoso, carico di peccati e pieno di timor dell'Inferno, non avea cuore di finirla con una salutare penitenza; ricorse però a santa Liduvina, prodigio di pazienza, pregandola di farla per lui. 

Volontieri, quella rispose, offerirò per voi i miei patimenti, a condizione che però per una sola notte vi teniate a letto senza cangiar lato né fare il più picciolo movimento. Egli vi si provò, e trascorsa mezz'ora appena, non ne poteva più; pure si rattenne; ma crescendo il travaglio, al termine di un'ora gli venne a parere affatto insopportabile. A tal punto gli sorse in mente il salutare pensiero: Se il durarla immobile per una notte in un soffice letto è tormento sì grande, che sarebbe il giacere così entro un letto di fuoco per un secolo, per una eternità? Ed io esiterò a liberarmene con un poco di penitenza? 

R. P. SCHOUPPES S.J. 

martedì 7 novembre 2023

Il Dogma dell'Inferno.

 


La vista di un'anima che piomba nell'Inferno è per sè sola un incomparabile supplizio. La beata  Margherita Maria, leggesi nella sua vita, si vide comparire una consorella poco anzi defunta a  domandarle suffragi, perché pativa crudelmente in Purgatorio: Vedete, le dicea, il letto dove sono  coricata e patisco intollerabili mali, Ed, io lo vidi, scrive la Beata, questo letto che mi fa tuttavia  fremere, irto di acute punte infuocate, entranti nelle vive carni di quella poverina, la quale dicea, ciò  avvenire per colpa della sua pigrizia e negligenza nell'osservanza della regola, ed aggiungeva: Mi  straziano il cuore con pettini di ferro roventi, per li pensieri di biasimo c disapprovazione nudriti  contro le mie superiore; la mia lingua è rosa da vermini a castigo delle mie parole contro la carità; e  per le mie mancanze al silenzio mi porto la bocca tutta ulcerata. Ma tutto questo è poca cosa verso  un'altra pena da Dio fattami soffrire, la quale, benché non durasse molto, pure la fu il più doloroso  di tutti li miei patimenti! Avendo la Beata mostrato desiderio di conoscerla, l'altra ripigliò: Dio mi  ha dato a vedere una mia stretta parente, morta in peccato mortale, condannata dal divin Giudice,  precipitata nell'Inferno; tal vista mi cagionò uno spavento, un orrore, un travaglio, che niuna lingua  potrà spiegare giammai! 

del R. P. SCHOUPPES S.J. 

venerdì 20 ottobre 2023

Il Dogma dell'Inferno.

 


Il venerdì 18 febbraio 1881, avea luogo in Monaco il ballo carnevalesco dei giovani pittori. Vi  erano essi numerosi, travestiti ridicolmente chi da frate, chi da prete, chi da pellegrino, con bordoni  e rosarii grotteschi, contraffacendo i riti e le pratiche di religione; gli altri da eschimese, coperti di  canape e di capecchio. Un zolfino sbadatamente acceso mette fuoco ad uno di questi, che vedendosi  ad un tratto divampante, gittasi all'impazzata sopra i compagni, sicché in men che si dice tutte  quelle vestimenta di stoppa sono in fiamme. Dodici di quei danzatori, quali faci viventi, corrono  disperati, buttandosi gli uni sugli altri, ravvoltolandosi con dolorosi urli per ogni angolo della sala,  esalando un infetto odore. In breve tre di loro rimangono abbrustolati cadaveri: nove spirano poco  appresso; tredici vengono trasportati allo spedale, ed uno di questi, Giuseppe Sebmertzer, rende  l'anima al primo arrivo, mentre gli si staccava dalle braccia e dal petto la pelle accartocciandosi,  lasciando a nudo le vive carni, anch'esse intaccate dal fuoco. Tale orribil morte fu riguardata, non  senza ragione, come un castigo della Giustizia divina, provocato dall'empia scostumatezza di quei  disgraziati; ma fu supplizio di brevissima durata, e ben più leggiero di quello interminabile  dell'Inferno. 

    Il 24 marzo 1881, un altro disastro gittò lo spavento e la costernazione nella città di Nizza  coll'incendio del teatro municipale. Avea questo le porte molto anguste ed al tutto insufficienti per  la pronta uscita in caso di pressante bisogno. Quella sera essendovi lo spettacolo più splendido  dell'usato, gli spettatori vi erano accalcati. E già il tendone era levato per il primo atto, allorché il  fuoco si apprende in fondo al palco, e ad un tratto la scena è da ogni parte invasa dalle fiamme. Un  grido si levò da tutto il teatro: il fuoco! il fuoco! e lo scompiglio e l'affollamento fu generale, mentre  tutti i lumi si trovarono spenti. Solo il bagliore dell'incendio, che rapidamente si propagava, dava in  confuso a vedere qualche spaventato attore traversare il palco, in cerca di una uscita, dalle fiamme  al misero negata. Gli spettatori delle gallerie giù si precipitavano alla rinfusa per le tortuose scale,  con una veemenza da frenetico: le donne ed i fanciulli erano abbattuti e calpesti dai sorvenienti:  tutto era pieno di grida di terrore e disperazione! di tanti esseri umani, che lottavano per salvare la  vita, e si sentivano morire, soffocati da fumo, o pigiati sotto i piè dei vicini. Quando pompieri,  soldati e marinai poterono colà entrare, lo spettacolo vi era orribile; si vedeano ammonticchiati cadaveri, brutti, anneriti, alcuni anche resi carbone, di uomini, donne, fanciulli, che indarno aveano  lottato per trovarsi scampo all'aperto. Deh quali dovettero essere per loro quegli estremi momenti,  nei quali conobbero che il salvarsi più non era possibile! Alle tre del mattino, sessanta e più  cadaveri si trovarono trasportati nella vicina chiesa di san Francesco di Paola; erano mezzo bruciati,  e dai lineamenti dei loro volti, e dagli atteggiamenti delle persone, ancora si potevano scorgere le  angosce della più atroce agonia. Or che vorrà essere nell'Inferno? Anche là di mezzo all'incendio è  chiuso ogni scampo; anche là sono le angosce dell'agonia più crudele; ma la morte non verrà mai a  mettervi fine! E questi miseri abbruciati erano essi bene disposti a morire? Ah non è luogo il teatro,  dove apparecchiarsi a ben morire! E non è però a temere che sia stato per loro veramente la porta  dell’Inferno? Deh se queste vittime avessero conosciuto qual sorte le aspettava, non avrebbero di  buon grado rinunciato ad un piacere, che dovea costar loro sì caro? Ma i vostri peccaminosi piaceri,  o mondani, vi costeranno assai più caro, e voi non vi rinunciate! 

    Un sinistro ancor più spaventevole fu l'incendio del teatro in Vienna, successo l’8 dicembre 1881.  Vi si dovea rappresentare la prima volta il Conte di Hoffman dell'Offenbach, e più di mille e  cinquecento erano gli accorsi ad esserne spettatori. Ma sul punto di cominciare, alle sette di sera,  scoppia l'incendio, ed un grido di spavento mette tutta sossopra l'assemblea; lo spavento diventò  frenesia, allorquando si videro lanciar le fiamme a rapidamente invadere quel vasto ricinto, per  modo che in un attimo si trovò tutto invaso dal fuoco e cangiato in un vero Inferno. Il descrivere il  tumulto di tanta gente ivi stivata, le grida di orrore, di rabbia, di disperazione, la è cosa del tutto  impossibile. I mal capitati si precipitano verso le porte, si travolgono, si schiacciano gli uni gli altri,  con di più il soffitto che roso dalle fiamme cade loro in parte sui capi. Altri per le gallerie si  accalcano alle finestre del secondo e del terzo piano, per gittarsi da quelle giù sulla strada; e si  vedono dal di fuori sporgersi ed aggrapparsi l'uno all’altro, sospesi per un momento in aria, poi  abbandonati al vuoto, per isfuggire il terribile supplizio del fuoco. Ma il maggior numero si trovava  imprigionato al di dentro. Un migliaio di uomini, donne e bambini periscono tra le fiamme,  abbruciati vivi, ridotti in cenere! Di parecchi si rinvennero le sole ossa calcinate; di più altri i corpi  mezzo abbrustolati; grandissimo numero poi di abbracciati e stretti gli uni contro gli altri, come in  suprema lotta, nella quale erano spirati; onde si dovette con orrore rilevare, che in quella fornace  una disperata battaglia erasi fatta tra' fuggitivi, spingendosi, afferrandosi, percotendosi per aprirsi  uno scampo; ma fu loro forza di sostenere lo spasimo del fuoco e di morirvi. Imagine assai smorta  dell'Inferno, dove i reprobi sono bensì tormentati dal fuoco, ma non vi posson morire; perché il loro  bruciare deve essere inestinguibile. In occasione di questo spaventoso avvenimento, sì fece il  novero dei teatri incendiati da un secolo in qua, e si trovò di parecchie centinaia. Non sembra però  questo una lezione della Provvidenza in confermazione degli avvisi dati dalla Chiesa continuamente  ai fedeli? Certo, il teatro a' nostri giorni è d'ordinario una scuola di empietà e di malcostume; ed i  perenni incendii non danno quindi bastevolmente a conoscere, come tali edificii dannati alle  fiamme, sono per le anime le porte dell'Inferno? 

del R. P. SCHOUPPES S.J. 

domenica 1 ottobre 2023

Il Dogma dell'Inferno.

 


San Pier Damiano parla di un cotale che vivea solo per godere e sollazzarsi, né per quanto  l'avvisassero di pensare all'anima, in pericolo di finire come il ricco malvagio, volle mai ravvedersi.  Dopo morto fu visto da un santo anacoreta, sommerso in uno stagno di fuoco, somigliante a  immenso mare, ove: andavan travolti innumerevoli dannati, che mandavano disperate grida, sempre  in isforzi per guadagnare la riva, e sempre da orribili demonii impediti di approssimarsi e risospinti  in quell'oceano di fiamme. 

   Nicolò di Nizza, parlando del fuoco dell’Inferno, attesta che se di tutti gli alberi delle foreste si  formasse una immensa pira e si accendesse, tanto incendio non varrebbe una scintilla di quello, e  però niuna cosa della terra ce ne può fornire una conveniente idea. 

   Vincenzo di Beauvais, al ventesimoquinto libro della sua Storia, racconta il fatto seguente,  avvenuto egli dice nel 1090. Due giovani libertini si erano, o davvero o da burla, insieme accordati  che chi di loro morisse il primo, venisse a dar notizia del suo stato al superstite. Morì dunque l'uno,  e Dio permise che apparisse al compagno: era in orribile stato, tormentato come da una febbre  divampante. che ne spremea copiosi sudori. Asciugandosi egli con una mano la fronte, lasciò cadere una goccia sul braccio dell'amico, dicendo: Ecco il sudor dell'Inferno; tu ne porterai il marchio fino  alla morte. Quella goccia bruciò il braccio del vivo e ne penetrò le carni con ispasimo inaudito. Ma  buon per lui, che approfittò del terribile avvertimento, raccogliendosi in un monastero. 

   Pietro il Venerabile, abbate di Cluny, racconta un caso del medesimo genere. Un moribondo  ostinato nella colpa era per finire impenitente. Bruciava di febbre, ed a refrigerio della sete chiedea  dell'acqua fresca; e grazie alle preghiere fatte per lui, il Signore permise che due spiriti dannati gli si  presentassero in forma visibile, con una tazza contenente un liquido, di cui gittarono una goccia  sulla mano dell'infermo, dicendo: Ecco l'acqua fresca, onde ci refrigeriamo nell'Inferno! La stilla  trapassò la mano da parte a parte, bruciandone carni ed ossa. Gli astanti videro sbalorditi l'orribile  effetto e le violenti convulsioni, nelle quali per indicibil tormento il misero si contorceva. Ma se  l'acqua fresca di laggiù cuoce a tal segno, che farà l'acqua bollente ed i solfi divampanti? 

    Nel 1875 la città di New-York vide un incendio, di cui le circostanze rappresentano una imagine  dell'Inferno. Il serraglio Baunum, pieno di lioni, di tigri e di altre belve feroci, andò in fiamme, onde  tutte quelle perirono bruciate vive tra le roventi sbarre dei loro gabbioni. A misura che crescea la  vampa, le fiere maggiormente si irritavano; sopra tutte gli orsi e le tigri erano agitati da rabbioso  furore Si lanciavano con violenza spaventosa contro le ferree pareti di loro prigioni, ricadendo come  masse di piombo, per balzar su di nuovo contro l'invincibile ostacolo che li ritenea cattivi. I  disperati ruggiti dei leoni, i fremiti delle tigri, le urla di tutte le altre belve faceano un formidabil  tumulto, che potea in alcun modo adombrare quello dei dannati nell'Inferno. Ma l'orribil frastuono  andavasi di mano in mano illanguidendo; fino a che succedette il silenzio della morte. Ora  figuratevi di vedere chiusi tra quelle gabbie arroventate. non più animali selvaggi, ma uomini; ed  uomini, che in luogo di morir tra le fiamme, vi continuano a vivere, come se le loro persone fossero  di gran lunga più dure del ferro; questo sarebbe una imagine dell’Inferno, ma molto languida ancora  ed imperfetta. 

del R. P. SCHOUPPES S.J.