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mercoledì 15 ottobre 2025

CROCIFISSO - I

 


CAPITOLO I


Dopo aver lanciato un ultimo sguardo morente, il dottore uscì dalla stanza, lasciando dietro di sé quella nota funebre che si ode al capezzale degli agonizzanti, come un lugubre rintocco di disperazione: "Non passerà questa notte"

Il Signor Riscai giaceva lì, in un grande letto, gli arti inerti, fulminato da un malore al cuore. La paralisi guadagnava terreno, si impadroniva degli organi essenziali della vita, stendeva sul corpo di quell'uomo robusto un sudario di inerzia e immobilità.

Nella stanza regnava il silenzio angoscioso che precede la morte. Silenzio di tomba, ritmato dalla cadenza del pendolo, il cui monotono tic-tac somigliava al respiro affrettato di un petto che moriva, esausto...

Fuori, a casa! Una calda serata estiva aleggiava sulla piccola città; una sera di luglio, gloriosa, con gli alberi esultanti di canti, con le pianure infinite, e le mille voci armoniose e nascoste con cui la natura eleva il suo inno quotidiano al Creatore. Una vita exuberante si estendeva ovunque, saliva come un canto, con ogni sussurro infinito, come una grande preghiera, una canzone misteriosa - l'inno del crepuscolo...

Attraverso una finestra socchiusa apparivano i tigli, con i loro stendardi fioriti, inviando ondate di profumo nella stanza dove giaceva il moribondo.

Si direbbe che l'anima delle pianure, vigorosa ed exuberante, con tutte le sue vitalità di resurrezione, volesse scacciare la morte, impedirle di entrare in quella dimora, stendere una barriera invalicabile davanti all'essere che soffriva, per proteggerlo.

Era l'ora in cui non possiamo credere a una visita terrena, anche se il suo fantasma gigantesco già si stagliava, in ombra, ai piedi del letto d'agonia.

Un sussurro sfuggì dalle labbra irrigidite e secche del malato, un soffio che sembrava venire dall'altro mondo

-- Cecilia!

- Eccomi, papà! - rispose una voce dolce con l'armonia di un canto.

Una figura affettuosa emerse dall’ombra che cominciava già ad allungarsi sulla terra, si diresse verso il letto e si chinò.

Con la mano pallida, smunta e tremante, quell’uomo che camminava verso la tomba accarezzò la chioma castana della figlia che si chinava sul letto, sollevando il peso di quel dolore immenso.

- Carissima Cecilia, non hai paura, così, da sola, al mio fianco?

Come unica risposta la ragazza si alzò, posò le labbra sulla fronte rovente del padre, senza dire una parola, trovando più eloquente di qualsiasi parola quella tenerezza tradotta dal silenzio di un bacio.

— Povera figlioletta, povera cara!

Lei pensò che lui avrebbe parlato, pronunciato quella parola immensamente desiderata dalle anime che stanno per andarsene, chiedere l’aiuto di Dio in quell’ultima angoscia, come l’uomo che, guidato dall’istinto, cerca, ancora con le mani incrostate, i relitti del naufragio che forse fluttuano intorno, per aggrapparsi a essi, salvandosi dall’abisso tremendo dell’immensità delle onde.

Ma nulla! Era il padre che parlava, era il cuore; l’anima restava silenziosa.

Due volte il sacerdote era venuto, chiamato dalla pietosa bambina; due volte il moribondo lo aveva allontanato con un gesto lieve, senza collera: Sono in pace con la mia coscienza; non ho mai fatto del male a nessuno!

Povera Cecilia! Amava follemente il padre, quel padre che aveva reso così belli i suoi vent'anni, che aveva chiarito la sua vita, che aveva circondato di incanti, con un affetto geloso, e fatto di tutto affinché il cammino della sua giovinezza fosse fiorito di tenerezza e stimato di gioia.

Incredulo, lontano da Dio, custodendo nell'anima un'unica religione - quella della donna amata, che la morte così presto le aveva portato via - lui desiderava che sua figlia diventasse un angelo, pietosa, buona, santa per sé e per lui.

"Cecilia, non hai paura, da sola, al buio?"

Questa frase le ronzava nella testa, martellandole il cervello come le ali nere di un uccello lugubre.

Sì! e lei aveva paura della carne che tremava solo all'idea che quel corpo invecchiato potesse diventare da un momento all'altro, un cadavere; aveva paura che quella bocca si chiudesse per sempre con il no che aveva pronunciato davanti all'offerta della salvezza eterna.

Tremava davanti al terribile dubbio che quell'anima si perdesse nel fondo dell'abisso dove la trascinava il peso enorme degli anni vissuti lontano da Dio!

Ah! quante lacrime aveva versato, e quante preghiere balbettava davanti al crocifisso che stendeva le braccia su quel quadro di sofferenza!

Quante suppliche ardenti e grida di consolazione!

Tutte le sere, da sola, con lui, respingendo gli ufficiali silenziosi che diverse persone le facevano per dividere le notti di insonnia, ai piedi del moribondo, ella aspettava ansiosamente da una settimana la parola suprema, la parola salvatrice.

Diceva che una potenza dell’inferno conservava chiuse le sue labbra, gli oscurava l’anima, riempiva di ombra e nebbia quello spirito, per impedirgli di vedere l’eternità che si apriva.

Sembrava un sonno pesante, una letargia senza risveglio, un preludio terribile delle tenebre senza speranza dell’aldilà.

Cecilia sopportava il martirio, martirio d’amore! Martirio che si prova nel vedere gli amati correre via da soli verso una separazione violenta, senza rimpianti, senza voltare la testa per un ultimo sguardo d’addio.

Che cos’è la morte per coloro che credono? È la separazione nella speranza del ritorno; è il cammino oscuro, nel buio, ma alla fine del quale si trova la chiarezza del eterno incontro. Quando partono coloro che amiamo, i nostri occhi cercano, attraverso le lacrime, l’orizzonte luminoso in cui vivono i scomparsi, il tempo verso cui corriamo, guidati dalla vita, e dal quale ogni giorno passato ci avvicina.

Ma vedere scomparire bruscamente le anime care; perderle di vista e dover raddoppiare il cammino; sentire, dopo l’allontanamento, quell’ansia che si impadronisce del cuore di fronte alle partenze senza promessa di ritorno, è morire ugualmente con gli altri.

Ecco perché, in quel pomeriggio, il cuore di Cecilia Riscai era immerso nella più tremenda amarezza.

Una donna entrò, portando un campanello, lo posò sul tavolo, si avvicinò alla ragazza e, molto dolcemente:

- Come sta?

Lei non rispose, ma il suo sguardo turbato esprimeva la terribile certezza dell'esito fatale, dell'orfanità a soli vent'anni.

- Dio mio! mormorò la creatura con quel dolore falso che sanno fingere i domestici; come deve soffrire il padrone!...

Il signor Riscai sembrava dormire. La respirazione oppressa gli sollevava il petto e si fermava in gola; rimaneva immobile. Cecilia si alzò, unì le mani, lanciò, in un rapido impulso supremo, l'anima ai piedi di Dio, ripetendogli, per l'ennesima volta, la sua afflizione e le sue speranze.

No! lui non poteva andarsene così, lei lo amava tanto. La sua bontà d'uomo, il suo tenero amore, le generosità della sua vita gli avevano meritato più di una morte senza luce. A quel cuore di pietra doveva andare vicino a Dio, restituirgli ciò che Lui gli aveva dato in questa terra: la luce divina che illumina, sostiene e rende buone le anime.

Un colpetto discreto distolse la ragazza dalla sua meditazione. Si voltò, vide una porta che si apriva lentamente, in una precauzione di silenzio, poi un volto nero che entrò dalla porta socchiusa.

- Signor Padre! mormorò lei, quasi terrorizzata, temendo che quella apparizione improvvisa inquietasse il moribondo.

Il padre la chiamò fuori. Ella lo seguì nella stanza accanto, leggera come un'ombra, dopo aver lanciato uno sguardo intenso al malato per assicurarsi che non avesse sentito nulla.

Una volta fuori, liberata dall'imbarazzo che si imponeva davanti al padre per evitare inquietudini, singhiozzò, gettando, per così dire, il più crudele dei suoi dolori ai piedi di colui che sapeva essere capace di comprenderne la portata.

- Come sta il malato? chiese il padre, visibilmente turbato dall'angosciosa preoccupazione.

- Più debole, mormorò Cecilia, con una voce che sembrava più un soffio; il dottore ha detto... Non ce l'ha fatta; un singhiozzo le interruppe la parola e la scosse nervosamente.

Il visitatore intuì. Calmo, contemplava quel dolore e quella fiducia, come chi contempla quella lontana vista che si estende alle regioni soprannaturali, molto al di sopra delle miserie di questo mondo.

- Mia figlia, disse, implora ancora una volta Dio per la salvezza di tuo padre.

- In questo passano i miei giorni e le mie notti, disse piano la ragazza.

- Prega di più, ripeté il ministro di Dio. Ora nel tuo dolore con maggiore insistenza e perseveranza. La supplica di un cuore spezzato sale più direttamente al Cielo. Chissà? Forse il Maestro ascolterà quell'ultimo grido della tua anima abbandonata, quell'impulso di suprema speranza rivolto a Lui.

È preciso che la tua fiducia diventi esigente con tutta l’indiscrezione di una fede che vuole ottenere la salvezza di quella anima amata.

Ricordati dell’irresistibile preghiera dei malati del Vangelo e parla come loro:

“Signore, se vuoi, puoi…”

Cecilia contemplava il sacerdote. Le sembrava che fosse proprio Dio a parlare. Le sue parole penetravano nel suo cuore con una fiducia onnipotente, e l’autorità di quella voce fissava una speranza incerta, come la mano che sostiene l’equilibrio di un vaso bello e fragile, scosso da un violento tremito e sul punto di cadere.

– Preghiamo! disse lei.

Poi, inginocchiata davanti a Cristo che la sua previdenza cristiana aveva collocato nel salone, come rapita dall’ostinazione della sua speranza, Cecilia inviò al Consolatore una di quelle preghiere che devono spaventare gli angeli e commuovere il Cuore di Dio.

Il padre Dubour, commosso fino alle lacrime, aprì dolcemente la porta e uscì, inviando alla madre dei disperati la supplica della luce Maria: “Pregate per noi… nell’ora della nostra morte…”

R.Gaell