IL DIPLOMATICO
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E come se tanti elementi di disunione e rovina non bastassero a sconvolgere l'Europa, i turchi si sollevarono armati, e colla loro formidabile potenza che s'arrestò appena alla morte di Soliman, avanzavano agli ordini di Selim II, invadevano le Puglie, e minacciavano di dare l'assalto al centro stesso dell'Italia. In quest'epoca di sconvolgimenti, di guerriglie e di massacri Pio V assumeva la direzione dell'Europa. Di questa epoca Pierre Ronsard diceva: “Prendo inchiostro e carta, e descrivo la miseria di questi tempi d'ire e di calamità”. I suoi primi passi si muovevano sull'orlo di tremendi abissi. Per fortuna Pio V vedeva presto e giusto nelle cose; e la sicurezza dello sguardo è una delle principali qualità del diplomatico. Studiò senza indugio la situazione, e seppe molto bene dipanare la matassa, che veniva ingarbugliata a bella posta per distorlo dal governo temporale e toglier di mezzo ogni suo controllo. In meno di un anno il suo sguardo fermo e attento aveva già misurato le forze degli Stati europei e scoperto dove esse miravano. E siccome non era di quelli che s'attardavano tra i tentennamenti o nascondono in un lungo silenzio i loro progetti, seppe subito spiegare un'attività si straordinaria che agli occhi dell'Europa stupefatta apparve come uno dei più grandi uomini politici. Non lasciava sfuggir nulla, non trascurava nulla. In quel mare di espedienti e di compromessi, la sua forza consisteva nel non temporeggiare. Egli non nascondeva i motivi che lo spingevano ad agire, e preparava anticipatamente la via. Pregava soprattutto, e ai diplomatici di carriera, meravigliati che all'udienza dei suoi consiglieri preferisse lunghe ore di orazione, rispondeva molto tempo prima di Victor Hugo: “Nel mondo fanno e compiono più lavoro due mani giunte, che non tutte le macchine di guerra”. La lotta da lui sostenuta contro i Protestanti e i Turchi metterà molto bene in rilievo le sue tattiche soprannaturali di combattimento, le quali si manifestano mirabilmente anche in un campo non tanto religioso, ove sembrerebbe dover operare la sola politica umana. Istigato da cortigiani cupidi e ambiziosi, l'arciduca Ferdinando, fratello dell'imperatore Massimiliano, aveva occupato nel 1568 il territorio della diocesi di Trento e rivendicati a sé i benefici ecclesiastici. Il cardinale vescovo Madruzzi per un eccesso di deferenza, se non aveva approvato l'usurpazione aveva tuttavia permesso che l'arciduca assoldasse milizie con le rendite di quelle prebende. Pio V, appena seppe dell'invasione dell'arciduca e della tolleranza del vescovo, mandò l'uditore di Rota Scipione Lancellotti con l'ordine di impedire al cardinale di concedere indebitamente il patrimonio della Chiesa, e di ingiungere a lui e al Capitolo della cattedrale di opporsi alla spoliazione. Tre lettere papali1 tentarono di ricondurre a migliori consigli Ferdinando del Tirolo. Ma riuscite vane le lettere, il Papa chiese l'intervento dell'imperatore. “Vostro fratello, gli scrisse, quanto maggior riputazione gode di principe degno dei vostri illustri antenati, tanto maggior meraviglia desta per simili usurpazioni. Che razza di esempio per il mondo! Che cosa non faranno, al vedere un tale scandalo, i sovrani non cattolici?” Pio V intimò comunque all'arciduca di indicargli quali titoli avesse per giustificare le sue pretese, e, sicuro del proprio diritto, designò arbitrio l'imperatore. Massimiliano incaricò il conte d'Arcos di venire destramente a qualche onorevole transazione; ma questo progetto urtò contro la volontà inflessibile del Papa. Massimiliano avverti allora l'arciduca2 che, se non desisteva, sarebbe incorso nella scomunica, una vera macchia per la casa imperiale e lo indusse a ritirarsi dal territorio trentino. Nel frattempo, l'attenzione di Pio V dovette pure rivolgersi alla Corsica. Quest'isola, già feudo di Pisa, dopo il secolo XIV era diventata vassallo di Genova. Ma le competizioni, dovute a rivalità di famiglia, riducevano praticamente al nulla l'autorità della superba metropoli. Un vecchio capitano di soldati corsi arruolato al servizio della Francia, Sampietro da Bastleica contribuì molto all'emancipazione dell'isola. Questo condottiero, tornatovi coll'onor della vittoria, aveva sposata un'illustre e ricca erede dell'isola, Vanina Ornano. Questo matrimonio accrebbe l'alterigia del Sampietro, il quale spinse alla rivolta nobiltà e popolo. Mentre egli percorreva l'Europa in cerca di alleati, il senato di Genova confiscò i suoi beni. Allora abili mestatori, che agognavano di prendere in ostaggio la donna e i figli, suggerirono a Vanina di recarsi a Genova allo scopo di ottenere che il doge levasse il sequestro. Vanina parti, ma la famiglia, conosciuto il tranello, la raggiunse e la fece sbarcare a Marsiglia. Sampietro, pensando che la pubblica opinione lo ritenesse complice dell'atto di Vanina, e più attaccato ai propri beni che all'indipendenza dell'isola, decise di vendicarsi. Si presentò alla moglie a capo scoperto, chiedendole scusa della severità a cui essa con la sua imprudenza l'aveva spinto; quindi diede ordine ad alcuni schiavi algerini di cancellare l'affronto che gli era stato fatto. Vanina, senza commuoversi né rivolgere suppliche, domandò solo di non esser toccata da mani di schiavi, ma d'esser uccisa dal proprio marito. Sampietro) sciolta la sua sciarpa, con tutta freddezza la strangolò. Questa morte destò orrore, repulsione, collera. Carlo IX rifiutò di ricevere in udienza l'uccisore. Questi, scoprendosi il petto, fece invano vedere le cicatrici delle gloriose ferite inflittegli dai nemici della Francia sui campi di battaglia, e lasciò il Louvre pieno di sdegno. Ritornato in Corsica, incominciò a far guerra ai genovesi, ma, colto in un'imboscata, venne ucciso, e la sua testa fu portata per le vie di Genova come un trofeo. I suoi figli, per rivendicare la memoria del padre, continuarono la lotta; e rappresaglie e morti si succedevano a ritmo continuo. Pio V si sentiva ferire il cuore da questi massacri che insanguinavano l'isola, e fece frequenti passi per conciliare gli avversi. n doge Giorgio Doria, incaricò il vescovo di Sagone di offrire ai ribelli una pace onorevole. L'incaricato si diresse coraggiosamente verso le profonde gole montane di dove gli isolani sfidavano i loro padroni genovesi e spiavano, al sicuro, il loro avvicinarsi. Alfonso Sampietro per l'onore del padre e l'indipendenza della sua isola, oppose resistenza e continuò a combattere; ma il vescovo, promettendo una generale amnistia e una diminuzione di gabelle, l'assicurò che un vascello l'avrebbe trasportato in Francia, e, col mettergli sott'occhio i mali che la sua ostinazione avrebbe attirati sulla Corsica, lo indusse ad arrendersi.
Mentre Alfonso si dirigeva verso Marsiglia per recarsi a Parigi3 , Pio V in un Breve indirizzato al senato genovese dettò le condizioni di pace. Ordinò in seguito ai vescovi della Corsica di istruire meglio i loro fedeli, piccoli e grandi, di tradurre in dialetto popolare il catechismo del Concilio di Trento, ricordando loro che Dio guarda più le opere che le dignità. I corsi si mostrarono riconoscenti, e rivolsero allo studio la loro nobile intelligenza. Per secoli furono visti affluire a Roma, per studiare diritto e medicina e acquistarsi in queste discipline bella rinomanza.
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Del Card. GIORGIO GRENTE
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