PAOLO VI
a vent’anni dalla morte (1978 - 1998)
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I “FATTI” SONO “FATTI”
Le “parole”, invece, sono “parole”, più o meno sentimentali, più o meno vuote di reale contenuto. Per questo, sarà opportuno che diamo, qui, uno sguardo, sia pure in sintesi, sull’inizio del Pontificato di Paolo VI.
Mi servirò, ad hoc, di alcune pagine di Paul Hoffmann, prese dal suo libro: “O Vatican!”1 , senza cambiarne una linea e senza permettermi alcuna mia riflessione. L’Autore, dunque, scrive che Paolo VI introdusse in Vaticano una truppa di consiglieri, di collaboratori e di parassiti – in gran parte “laici” – senza una precisa funzione; una truppa che fu ben presto battezzata: “mafia milanese”, (anche se non tutti erano milanesi!). Un personaggio di questi era un siciliano trapiantato: Michele Sindona, del quale la Polizia Italiana scoperse, poi, che aveva legami con l’autentica Mafia, e che trascinò ben presto il Vaticano in una avventura finanziaria disastrosa, per cui l’immagine della Santa Sede ne usciva appannata2 . Un altro di quei personaggi era il Prelato americano Paul C. Marcinkus, appartenente anch’egli all’entourage di Paolo VI. Al centro di quella troupe, però, c’era il Suo segretario personale, mons. Pasquale Macchi (che, nella Curia Romana, si finirà col chiamarlo: “la madre Pasqualina di Montini”, anche dopo essere stato insignito, nel 1964, del titolo di “Monsignore”). Appassionato d’arte moderna, come lo era pure Montini, collezionava opere di pittura e di scultura contemporanea. Sarà, poi, il violinista Ingres che aprirà all’arcivescovo Montini un nuovo campo di artisti, di scrittori e di attori, che allargarono, al certo, l’orizzonte intellettuale e umano di Montini, ma ne approfondirono vieppiù anche il solco liberale del suo animo, allargandosi con le frequentazione e l’amicizia con la società industriale milanese, specie con banchieri e finanzieri, dai quali ebbe non pochi contributi in danaro, per i progetti e le opere caritative nella Sua Diocesi. Contatti, che lo resero più “moderno”, anche nei metodi di gestione, sì da apportare, poi, da Papa, la “modernità” in Vaticano.
Naturalmente, mons. Macchi si mostrò subito il Suo mecenate dell’arte moderna, come già lo era a Milano, circondandosi persino di agenti che percorrevano, per lui, i mercati europei e americani per acquistare appunto molte opere d’arte (o da Lui presunte come tali!). E per meglio riuscire nell’impresa, si assicurarono il concorso di un mecenate in America, il noto Lawrence Fleischmann, direttore della “Kennedy Galleries”, a New York; e poi fondarono persino una organizzazione, gli “Amis de l’Art Américain en Religion”, proprio per garantire gli acquisti. Dopo di chè, organizzarono due Seminari, a Roma, per discutere sulla strategia da usare negli acquisti, ma anche perché servissero a porre i fondamenti per una grande esposizione d’opere d’arte, provenienti dalle collezioni vaticane; il che avvenne, prima, alla Metropolitana di New York, poi a Chicago e, terzo, a San Francisco, nel 1983. Ma già nel 1973, mons. Macchi e i suoi collaboratori potevano presentare, per il 10.mo anniversario dell’intronizzazione di Paolo VI, parecchi dei tesori che essi avevano raccolti. Vi occorsero ben tre piani del Palazzo Apostolico, più altre sale adiacenti. Furono impegnati, cioè, anche gli appartamenti Borgia – già abitati da Alessandro VI e dalla sua famiglia! – per mettervi tele e opere grafiche del XX secolo. Sui muri furono tese delle grosse tele, per ricreare l’atmosfera d’un museo moderno, offrendo, però, uno strano contrasto con gli affreschi del Pinturicchio, che ornano i plafoni e le ogive! L’esposizione, in totale, occupò cinquanta sale, in cui vi erano esposte, tra le altre, tele di Ben Shahn, di Chagall, di Kokoschka; ceramiche di Picasso e disegni di Klee e di Kandinsky. In totale, le opere esposte, quasi tutte figurative, erano più di seicento. L’arte astratta vi era pochissimo rappresentata. Ora, mentre Paolo VI, nel suo discorso d’inaugurazione, dichiarava che l’arte moderna aveva magnificamente fatto la prova della sua capacità ad esprimere i valori cristiani, il critici d’arte italiana, invece, scrissero che la nuova collezione pontificia era una raccolta alla peggio, e che v’erano troppe opere di secondo piano e che non c’era alcunché di realmente rimarchevole! Oggi, quella Collezione d’Arte religiosa è ancora esposta, in permanenza, nei musei vaticani, quasi del tutto ignorata, comunque, dai visitatori! A quell’epoca, mons. Macchi, sulla cinquantina d’anni, era già più influente dello stesso arcivescovo Benelli, e su Paolo VI teneva un atteggiamento di protettore; sembrava, cioè, che Lui fosse indispensabile per Paolo VI, il cui umore era divenuto capriccioso – come si diceva in Vaticano! – anche perché Paolo VI soffriva, oltre che di artrite, anche di depressione e d’insonnia. Mons. Macchi, per questo, lo sforzava a nutrirsi e a bere un po’ di più, come pure lo richiamava perché sorridesse quando si mostrava in pubblico, e lo invitava a riposarsi piuttosto che stare a scrivere lunghe lettere agli amici. Ormai, Paolo VI era ammalato da lungo tempo e la morte lo sorprese, quasi all’improvviso, nel Palazzo di Castel Gandolfo, nell’agosto 1978. Ma quando si aprì il Suo “Testamento”, nessuno fece meraviglie al sapere che Paolo VI aveva nominato il “suo caro don Pasquale Macchi” come “esecutore testamentario” autorizzandolo a distribuire un certo numero di “souvenir”, che appartenevano al Papa, a delle “persone care”, non precisate. Ma anche mons. Macchi doveva aver collezionato non pochi beni in quei quindici anni passati in Vaticano! Difatti, lasciando il Palazzo Apostolico, si portò via “plusieurs camions d’affaires personelles”!.. “Chiesa viva” *** Aprile 2014
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del sac. dott. Luigi Villa
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