(Il problema ―dell‘esistenza‖ di Dio in S. Tommaso)
Dopo tutto ciò che abbiamo appena detto, si potrebbe credere che Tommaso raggiunga alla fine quel che cerca. Ma egli sa bene che non è così. In questa stessa risposta in cui mette a confronto i due nomi, egli aggiunge molto curiosamente qualcosa che assomiglia ad un ripensamento letterario: «Ancora più appropriato è il Tetragramma che è impiegato per significare la sostanza stessa di Dio in quanto incomunicabile e, se così è lecito esprimersi, singolare» 98 . Il Tetragramma, come si sa, è il nome con il quale Dio nomina se stesso nella rivelazione del Roveto ardente. Questo nome di quattro lettere (JHWH), che gli ebrei evitavano di pronunciare per timore reverenziale e di cui avevano perso il senso esatto e la vera pronuncia, ha dato luogo ad innumerevoli esegesi‖ 99 . Sebbene non fosse ignoto alla tradizione teologica latina, Tommaso sembra avere scoperto la sua importanza soltanto dalla lettura di Maimonide, che consacrandogli lunghe trattazioni, ritiene il Tetragramma un nome differente da «Colui che è» 100 . Anche se Tommaso non condivide né l‘equivocità né l‘apofatismo estremo di Maimonide 101 , questa ascendenza merita di essere sottolineata poiché essa non poteva che confermarlo nella sua opzione per la teologia negativa. In ogni caso è l‘esegesi dell‘erudito ebreo che gli permette d‘affermare che il Tetragramma è un nome ancora più appropriato di «Colui che è». Egli lo ha già affermato nell‘articolo precedente della Somma quando si interrogava sulla proprietà del termine «Dio»: «Se fosse dato un certo nome a Dio per significarlo non sotto l‘aspetto di natura, ma sotto l‘aspetto di soggetto, in quanto è tale essere, questo nome sarebbe assolutamente incomunicabile. E forse il caso del Tetragramma presso gli ebrei» 102 . Il «forse» potrebbe tradurre una certa perplessità circa il vero significato cli questo nome, ma è più importante osservare che se egli lo cita già nella Somma contro i Gentili 103 , è soltanto nella Somma di teologia che ne fa questo uso topico. Il cambiamento è capitale, poiché Tommaso non si situa più solamente nella prospettiva dell‘origine del nome, ma piuttosto in quella della realtà che il nome è destinato a significare. Il nome rivelato al credente è preferito al nome definito dal filosofo. Davvero singolare, esso è di certo il nome al di sopra di ogni nome e non designa che Dio. Giunto a questo punto della ricerca, sembrerebbe che l‘uomo in cerca del1‘intelligibilità di Dio non possa andare oltre. Ciò sarebbe vero se Tommaso ragionasse come un semplice filosofo, ma non è mai stato il caso in questo contesto. Nel momento stesso in cui sembrava utilizzare soltanto le risorse della sua ragione naturale, egli in qualità di teologo aveva già esplicitamente posto dei cardini e faceva appello alla conoscenza nettamente più elevata ottenuta per mezzo della grazia: «Malgrado la rivelazione della grazia, resta vero che fino a quando siamo in questa vita noi non conosciamo l‘essenza di Dio (il suo quid est) e che gli siamo uniti come ad uno sconosciuto; tuttavia, lo conosciamo in modo più completo perché ci è accessibile per mezzo di effetti più numerosi e più eccellenti e perché la rivelazione divina ci permette di attribuirgli delle qualità alle quali la ragione naturale non può giungere, come il fatto che Dio sia uno e trino» 104 .
Tommaso non si addentra immediatamente in questa pista, ma vi ritornerà alcune pagine più avanti quando riprenderà la questione dei nomi divini in pieno trattato della Trinità, dove si interroga sui nomi personali attribuiti in proprio ad ogni persona divina: il Padre, che non ha altri nomi propri; il Figlio, che ha anche come nomi propri quello di Verbo e di Immagine; lo Spirito Santo, a cui convengono anche personalmente i nomi di Dono e di Amore 105 . Questo nuovo modo di trattare le cose non toglie nulla all‘impossibilità in questa vita di conoscere il «quid est» di Dio o alla struttura di una conoscenza di Dio ottenuta a partire dagli effetti, ma permette di vedere che Tommaso non perde di vista le nuove prospettive offerte alla ragione a partire dalla rivelazione. Già la rivelazione del «Colui che è» autorizzava la teologia a prendere il suo posto e a penetrare nel mistero di Dio al di là di quella sua unità, che la ragione filosofica avvertiva di non avere il diritto di oltrepassare. Con una chiarezza d‘intuizione che fa onore alla loro grande conoscenza della Bibbia, i teologi medievali non temettero di ampliare il «Colui che è» dell‘Esodo e di vedere in esso un abbozzo della rivelazione del mistero della Trinità. Essi si sentivano autorizzati a fare ciò da tutta una tradizione che ha trovato la sua espressione nell‘arte e nella liturgia, e di cui la Glossa si faceva l‘eco: «Questo vero essere è quello del Dio vivente, della Trinità: solo esso è in verità, il Padre con il Figlio e lo Spirito Santo. Per questo si dice: Dio vive, poiché l‘essenza divina vive di una vita che la morte non affetta» 106 . Mettendo in relazione il testo dell‘Esodo con tutti i passaggi del Nuovo Testamento in cui Gesù parla di se stesso affermando la sua esistenza nei termini assoluti di «Io sono», molti autori, sia francescani che domenicani, potevano offrire un‘esegesi cristologica del nome rivelato a Mosè. Tommaso non è dunque un isolato quando si incammina al loro seguito nella stessa direzione, ricordando con la Glossa che il nome divino si appropria alla persona del Figlio, «non affatto in virtù del suo significato proprio, ma a causa del contesto: cioè nella misura in cui la parola rivolta da Dio a Mosè prefigurava la liberazione del genere umano compiuta più tardi dal Figlio» 107 . I dossier riuniti nella Catena aurea mostrano a che punto egli condivida il sentimento generale dei Padri per i quali le teofanie dell‘Antico Testamento erano annunci velati del Verbo, prefigurazioni dell‘incarnazione 108 .Ma tra i teologi della sua epoca egli, meglio di altri, salvaguarda la portata della sua teologia negativa. Senza riprendere qui tutti i testi, ci limiteremo alla lettura del più esplicito per comprendere fino a che punto la rivelazione sconvolga l‘approccio puramente razionale: «Riguardo a ciò che si deve credere di lui, Cristo insegna tre cose; innanzitutto, la maestà della sua divinità; poi, la sua origine a partire dal Padre; infine, la sua unione indissolubile con il Padre. Insegna la maestà della sua divinità dicendo; Io sono; cioè, Io ho in me la natura di Dio, e sono il medesimo che ha parlato a Mosè dicendo: Io Sono colui che sono. Ma poiché l‘essere sussistente appartiene all‘intera Trinità, per non escludere la distinzione delle persone, subito dopo insegna agli ebrei a credere nella sua origine dal Padre, affermando: E non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre così io parlo. Avendo fin dall‘inizio realizzato delle opere ed insegnato, Gesù mostra la sua origine dal Padre, sia in ciò che egli fa: ―E non faccio nulla da me stesso‖..., sia in ciò che insegna: ―ma come mi ha insegnato il Padre‖, cioè mi ha comunicato la scienza generandomi nella conoscenza. Dato che la natura della verità è semplice, per il Figlio conoscere significa essere. Quindi, come il Padre generandolo ha dato al Figlio il fatto di essere, così gli ha dato anche il conoscere: ―La mia dottrina non è mia‖. E perché non si pensi che egli è stato inviato dal Padre come distaccandosi da lui, in terzo luogo insegna a credere la sua indissolubile unione con il Padre, dicendo:‖ E colui che mi ha inviato‖, cioè il Padre, è con me; da una parte, per unità d‘essenza:‖ Io Sono nel Padre e il Padre è in me‖; d‘altra parte, per unione d‘amore;‖ il Padre ama il Figlio e gli manifesta tutto quello che fa‖. Cosicché il Padre ha mandato il Figlio senza che questi si distaccasse da sé; ―e non mi ha lasciato solo‖, poiché il suo amore mi circonda. Sebbene però essi siano inseparabili, l‘uno è inviato (missus) e l‘altro invia, poiché l‘incarnazione è una missione, ed appartiene soltanto al Figlio e non al Padre» 109 . Il seguito del testo merita di essere conosciuto, ma ci porterebbe troppo lontano. E necessario almeno prevenire lo stupore, che si rischia di provare altrove, di non trovare qui lo Spirito Santo. Tommaso si preoccupa di avvertire il suo lettore: «Se lo Spirito Santo non è citato qui, occorre sapere che ovunque si tratti del Padre e del Figlio, e soprattutto quando si tratta della maestà divina, lo Spirito Santo è sottinteso (letteralmente è ―co-inteso‖), poiché esso è il legame che unisce il Padre ed il Figlio» 110 . Non è affatto necessario insistere affinché si percepisca l‘ampiezza del nuovo campo che si apre alla riflessione, ma il clima di ricerca non cambia. Tommaso non ritira niente di ciò che ha detto circa l‘inconoscibilità dell‘essenza divina. Egli sa che la rivelazione della semplicità divina fatta a Mosè, nella teofania del Roveto ardente, si sviluppa al tempo opportuno in rivelazione dell‘unità trinitaria, ed egli accoglie nell‘umiltà della sua fede cristiana la rivelazione di questo al di là assoluto a cui la sua ragione non poteva pretendere di arrivare. Gesù è venuto a dare alla questione di Dio una risposta che l‘uomo non poteva nemmeno immaginare.
di P.Tito S. Centi e P. Angelo Z.