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giovedì 22 febbraio 2024

LA VOLONTÀ DI DIO O STRADA REALE E BREVE PER ACQUISTAR LA PERFEZIONE - Del conformarsi in tutto alla volontà divina.

 


Del conformarsi in tutto alla volontà divina. 


Perché l'adempimento perfetto della volontà di Dio non consiste solamente nel fare tutte le cose per Dio, ma in patire ancora con contento e gusto tutto quello che ci succederà di avverso, poiché tutto viene ordinato dalla sua pietosa mano per nostro bene e profitto, io proporrò qui più particolarmente la pratica di questa conformità, con un caso di grande ammaestramento, che racconta il Taulero, in un ragionamento cioè che ebbe un teologo con un poveretto, che Dio gli mandò innanzi, per insegnargli questa divina teologia. Epperò io narrerò qui tutto quel dialogo, che insieme ebbero; perché, oltre insegnarci un perfetto esercizio di conformarci alla volontà divina, ci dichiara ancora il gran bene che in questo si ritrova. 

   Un teologo molto insigne, non assicurandosi del suo sapere per servire a Dio, desiderava con umile cuore di ritrovare alcun servo di Dio esercitato che gli insegnasse la strada della verità: dopo d'aver domandato ciò a Dio, per otto anni continui, finalmente un giorno udì una voce che gli disse: «Esci fuori sulle scalinate del tempio e troverai qui vi un uomo che ti insegnerà la strada della verità.» E uscendo il teologo, ritrovò un povero mendico, i cui panni vecchi e stracciati non valevano tre quattrini, coi piedi nudi e tutti infangati, di tale aspetto, che mostrava necessità di ogni corporale bisogno. Era però sì ricco di celeste sapienza, che diede a quel teologo un tanto spirituale rimedio e tanto eccellente e tanto ammirabile dottrina, quanto egli l'aveva desiderata e meritata, con quelle orazioni ripiene di buoni e umili desideri, come si vedrà nel dialogo, che ebbero insieme. 

Eccolo : 

   Teologo: Dio ti dia il buon giorno, fratello. 

   Mendico: Io ti ringrazio del saluto, che mi dai: ma ti faccio insieme sapere che non mi ricordo di aver giammai avuta giornata cattiva, né principio di giorno, che non sia stato buono. 

   Teologo: Sia come tu dici; e coi giorni buoni, che sempre hai, Iddio ti aggiunga buona fortuna e prosperosa sorte. 

   Mendico: Buone cose tu mi desideri (sia per amor di Dio) ; ma sappi una verità: che io non fui mai sfortunato, né mai patii disgrazia alcuna. 

   Teologo: Prego Dio, fratel mio, che con l' altre buone sorti che hai, sii insieme beato lo confesso la verità, che il mio intelletto non capisce bene quello che significhino le tue cosi assolute parole. 

   Mendico: Ti faccio sapere, perché tu ti meravigli, che a me non è mancata, né manca la beatitudine. 

   Teologo: Cosi Iddio ti salvi!... Parlami più chiaro, perché il tuo linguaggio è per me troppo oscuro. 

   Mendico: Son contento, e di buona voglia lo farò. Ti ricordi con quante maniere mi hai salutato? 

   Teologo: Ben me ne ricordo, con tre: col buon giorno, con la buona fortuna, col desiderio della beatitudine. 

   Mendico: Ti sovvengono le mie risposte? 

   Teologo: Eccole: mi hai risposto che non hai mai avuto giorno cattivo, che non sei mai stato sventurato e che non ti è mancata mai la beatitudine. Queste sono le tue risposte, e queste ho confessato di non intendere; epperò ti prego che me le dichiari. 

   Mendico: Sappi, frate  mio, che sono buoni per noi quei giorni, i quali impegniamo nelle lodi di Dio, il quale per questo stesso ci concede la vita; e cattivi sono per noi, quando in essi ci allontaniamo dal dare a Dio la gloria, che gli dobbiamo. Siano prosperi o avversi gli accidenti che alla giornata succedono; saranno tutti buoni i giorni, se noi lodiamo il Signore nella nostra volontà. 

lo, come tu vedi, sono mendico e molto bisognoso, vado pellegrinando per il mondo, non ho rifugio, né luogo dove ricoverarmi, e nei viaggi incontrai gravi travagli: che se, per non trovare chi mi dia limosina, patisco fame, lodo di ciò Dio; e se mi piove addosso, o mi percuote la grandine, lodo di ciò Dio; se gli uomini mi disprezzano come miserabile, lodo pure Dio; e se, per andar mal vestito, patisco freddo, lodo Dio; in una parola tutto quello che mi si offre di avverso, mi è materia di divine lodi. E in questa maniera il giorno per me è buono. E quando mi fanno alcun piacere o dispiacere, ne lodo Dio, e tengo la mia volontà soggetta a lui, dandogli in tutto somme lodi; perché le avversità non fanno il giorno avverso, ma piuttosto lo fa la nostra impazienza, che nasce dal non tenere la nostra volontà soggetta a Dio, né esercitata nelle divine lodi in ogni tempo. 

   Teologo: Veramente, fratello, tu hai grande ragione in ciò che dici dei giorni buoni: già ho adesso inteso che sono buoni quei giorni che passiamo lodando Dio. 

   Mendico: Ho detto che non fui mai sfortunato, né ho patito sventura, e ho detto la verità, perché tutti teniamo per buona sorte quando ci avvengono cose tanto buone e prospere che non ci è più che desiderare, né migliorare. Ed essendo verissimo che quello che Dio ci dà e ordina che ci succeda, è per noi il meglio, ne segue che, non solo io, ma qualsivoglia altro uomo, che abbia aperti gli occhi dell'anima e che consideri le cose come cristiano, deve tenersi per fortunato in qualsiasi cosa, che gli succeda o che Dio gli dà e ordina che gli uomini gli facciano, perché allora nessuna cosa le può accadere che sia meglio per lui. 

   Teologo: Dimmi, fratello; come eserciti questa dottrina tanto buona e questa verità tanto certa, e come da essa cavi tanto frutto che ti faccia tanto avventurato, quanto tu dici che sei? 

   Mendico: lo so vivere con Dio, come figliuolo che vive con suo padre; e considero che Iddio é un buon padre, che ama i suoi figliuoli; ed essendo lui potente e saggio, sa e può dare e provvedere a' suoi figliuoli quello che ha ad essere meglio per loro. E così se vuole che quello che mi accade, sia gustoso all'uomo, o no, se vuole sia dolce o amaro, se vuole sia onorevole o disonore vale secondo il mondo, se vuole sia salutifero o contrario alla salute, questo tengo per meglio, e con esso mi reputo molto più bene, che con qualsivoglia altra cosa. E in questa maniera tengo per buona sorte tutto quello che mi avviene e di tutto rendo grazie a Dio. 

   Teologo: Resta la terza risposta, che mi hai dato, dicendo che non hai mai giorno senza beatitudine. Questa mi sembra molto difficile ad intendere; ma mi persuado che me la renderai tanto chiara, come le altre due. 

   Mendico: Così farò con la grazia di Dio, ma sta attento. Per beatitudine intendiamo tra gli uomini quella di colui che ha ciò che desidera; che in tutto riesce e la cui volontà sempre si adempie senza l'esistenza. Non v'ha uomo nel mondo, che, vivendo secondo quello che vuole, arrivi ad avere questa beatitudine intera: e ciò è manifesto. Nel cielo l'hanno interamente i beati; e la ragione è, perché non vogliono più di quello che vuole Dio. Lo stesso avviene tra gli uomini mortali, quando uno ha mortificati i suoi appetiti ed ha interamente rassegnata la sua volontà a quella di Dio, rallegrandosi di quello che Dio fa, così circa del medesimo uomo, come circa degli altri uomini. 

Questi lo possiamo chiamare beato in terra, perché ha gusti celestiali, vedendo che in tutto si fa la sua volontà, la quale è conforme a quella di Dio. 

   Teologo: Dimmi: come tu poni in opera questo divino insegnamento? 

   Mendico: lo ho determinato di dipendere dalla volontà di Dio in tal maniera che la mia non trapassi mai la sua, e conformandomi tanto intieramente ad essa, che non mi rimanga alcun volere: e in questo modo vivo contento e mi tengo beato, perché quanto fa Dio, mi dà molto particolar gusto, e assai più dolce e soave di quello che ha l'uomo, il quale fa quanto i suoi appetiti desiderano. 

   Teologo: Io ho molto bene inteso in che consiste la tua beatitudine, e mi pare molto grande verità quello che mi dici. Ho però un dubbio intorno alla rassegnazione, che convien fare a Dio della nostra propria volontà; dimmi: Che cosa faresti e diresti se Dio ti volesse gettare nei profondi abissi dell'inferno? 

   Mendico: lo ho due braccia spirituali: l'uno é l'umiltà, che tengo soggetta a Gesù Cristo, con la quale sto unito alla sua sacratissima umanità, e questo braccio é il sinistro: l'altro destro é l'amore, con il quale sto unito e abbracciato con la divinità del medesimo Gesù Cristo, e con questo braccio lo tengo abbracciato tanto stretto, che cadendo io all'inferno senza peccato, non lascerei di stare con Dio: e in questo caso io terrei per cosa migliore andar coll'amicizia di Dio all'inferno, che stare senza la sua grazia nel luogo più delizioso che si possa immaginare. 

Teologo: Già intendo che vuoi dire due cose: la prima é che la profonda umiltà é una scorciatoia divina per andare a Dio. La seconda é, che avendoci Dio obbligati col suo comandamento ad amarlo, non ci comanderà mai altra cosa in contrario. Onde dobbiamo dire a Dio: Signore, purché io ti ami, purché stia in tua grazia, purché non sia privo di lodarti, gettami dove ti piace, perché ogni luogo mi riuscirà buono, stando in tua compagnia. 

   Mendico: Mi. hai inteso bene. Orsù, hai ora alcun altro dubbio? 

   Teologo: Dimmi, fratel mio: giacché stai tanto unito con Dio, dove lo troverò io adesso per unirmi con lui? Perché nessun altro luogo sarà meglio per me, che quel medesimo dove tu lo hai trovato. 

   Mendico: Né tu lo troverai in alcun luogo, né io, né altri, se non dove lasceremo le creature per lui. 

   Teologo: Dove ora hai lasciato Dio? 

   Mendico: Nei cuori puri e negli uomini di buona volontà: in questi l' ho lasciato, e in questi sono per ritrovarlo. 

   Teologo: Non posso non domandarti, chi tu sei, perché vorrei conoscerti e che restasse nella mia memoria il tuo nome, in riguardo dei benefici, che in questo giorno ho da te ricevuti. 

   Mendico: Non ti posso dar più certa risposta, con la quale ti discuopra chi sono, che dirti: io sono realmente re. 

   Teologo: Come è possibile, che tu sii re? Dunque tu hai regno? 

   Mendico: Il regno lo tengo nell'anima mia, perché so reggere tutti i miei sentimenti e potenze interiori ed esteriori, e tengo soggetti alla ragione tutti gli affetti e le potenze dell'anima mia. E veramente, fratello, sopra tutti i regni del mondo, questo è unico, e nessuno ne dubiti. Quindi intendi con quanta ragione mi chiamo re, avendo io per la divina grazia questo regno. 

   Teologo : Vedo che te ne vuoi andare. Ma dove sei per inviarti? Lo vorrei sapere. 

   Mendico : Vado là, donde vengo.  

   Teologo: E donde vieni? 

    Mendico : Vengo da Dio, e però il mio viaggio è da Dio e a Dio, e quegli che viene meco è il medesimo Dio. E se non intendi questo che ti dico, te lo spiego. Essendo Dio presente in ogni luogo, e stando la sua essenza in tutte le creature, ancorché io muti luogo, e siano varie le creature, che vedo e con le quali mi trattengo e parlo, ritrovo in tutto Dio e più lui che quelle, e più vado tra lui che tra quelle. Anzi se esse mi avessero a nascondere Dio o disturbarmi che in esse non lo ritrovassi, fuggirei da esse, come da nemici mortali. 

   Teologo: Fratel mio, come sei arrivato a tanto grande perfezione? 

   Mendico: Con tre cose: continuo silenzio, alti pensieri, unione con Dio, perché in nessuna cosa, che sia sotto di Dio, ho potuto ritrovar riposo, né quiete. Perciò adesso riposo e riposerò nel mio Dio in somma pace, perché l'ho ritrovato. E però, se tu vuoi farti un tesoro di perfezione e avere vero riposo, non lo cercare nelle altre creature, né portar loro rispetto, quando t'impediscano l'avvicinarti a Dio. Esercitati molto di proposito in quelle tre cose sopradette: osserva perfetto silenzio, fuggi la conversazione degli uomini, che impedisce per lo più la pace e l'allegrezza, che con Dio guadagna il silenzio; i tuoi pensieri non siano bassi, ma alti, non di cose temporali, ma eterne, non umane, ma divine, non di carne, ma di spirito, non della terra, ma del cielo; l'unione con Dio sia la tua vita: distaccati da tutto il creato, come se non fossero creature nel mondo, procura di tenere il mondo per morto, rimiralo come una casa, nella quale è acceso il fuoco e si abbrucia, dalla quale fuggono quelli che non vogliono perire in essa. E in questa maniera ti hai a sbrigare dal mondo e ti ritroverai più disposto per unirti con Dio, per aver pace e riposo con lui, il quale supplico che ti dia la sua grazia e ti disponga a far così come ti ho insegnato. 


P. EUSEBIO NIEREMBERG, S. J. 

giovedì 29 giugno 2023

Si deve seguire la volontà di Dio in ogni cosa.

 


 LA VOLONTÀ DI DIO O STRADA REALE E BREVE  PER ACQUISTAR LA PERFEZIONE

 

   Questo negozio di tanto grande importanza non si deve intraprendere trascuratamente, né per  parti, trattando a metà con Dio, facendo in parte la nostra volontà e in parte la divina, dedicando  qualche cosa a Dio e riserbando qualche cosa per noi. Questa donazione deve esser totale, poiché  non comporta il dominio assoluto; e massime quello di Dio, compagnia di due padroni. È grande  inganno il temere che uno ha di darsi del tutto a Dio, senza riserbarsi niente, parendogli cosa molto  amara e orrenda la determinazione di non darsi gusto in nulla. 

   Non ha costui che temere, anzi di sé stesso deve grandemente temere, se in qualche cosa cerca sé  medesimo, perché un affetto, per piccolo che sia, lo potrà rovinare, dando il cuor di lui intero in  pegno al demonio, che con un solo desiderio disordinato lo terrà strettamente imprigionato. Una  minima affezione immortificata è bastante ad indebolire tutta la forza dell'animo; non in altra  maniera di quello che S. Doroteo dice dell'aquila, che se tiene solamente un'unghia attaccata al  laccio, ancorché abbia libero tutto il corpo, resta presa. Non è, a dire il vero, cosa piccola, tralasciar  le cose piccole, perché non si deve guardar tanto alla cosa, che par poca, in cui ci lasciamo vincere,  quanto a questo, che anche in quel così poco non vogliamo rompere la nostra volontà per amor di  Dio. 

   Il che è assai e ci dovrebbe parere tanto maggiore ingratitudine, quanto la cosa è minore. Oltre di  ciò, uno può disperare di godere i privilegi e gusti, che dicemmo godere quelli che adempiono la  volontà di Dio, se non l'adempie in tutto, e non l'adempirà in tutto, se non nega in tutto la sua.  Dimodochè, se, per timore di vivere con afflizione e tristezza, uno lascia di far di sé a Dio offerta  generale, commette errore manifesto; anzi se non la fa di questa maniera, non godrà di quella  dolcezza e soavità celeste che Dio comunica a quelli, quali adempiono la sua volontà, che è una  partecipazione del gusto che Dio ha riposto nell'adempimento di essa. Perché già non adempie tutta  la volontà di Dio, chi non l'adempie in tutto, negando in tutto sé medesimo; perché la volontà di Dio  è che in niente ci governiamo secondo il nostro volere, ma in tutto secondo il voler suo; perché  questo solo a noi conviene, e però chi manca in questo e non adempie il gusto di Dio, non ha diritto  di godere i suoi privilegi né titolo per quel contento che riempie i santi, perfettamente mortificati e  morti a sé stessi. Perciò diceva il P. Baldassare Alvarez, che siccome i Martiri, secondo come canta  la Chiesa, mortis sacrae compendio vitam beatam possident, così i giusti ben mortificati, con  un'altra breve morte della loro propria annegazione, acquistano il riposo, che nella terra si può  acquistare. E perché non poniamo mai l'ultima mano alla nostra abnegazione, andiamo sempre  gemendo e portiamo la croce senza morire in essa, che è proprio degli ipocriti. 

   Questo negozio dunque della perfetta mortificazione e conformità con la volontà divina non  consiste in cosa, che si possa dividere, né si contenta di meno che di tutto; perché non sarà mai vero  che uno sia mortificato, se mai non gli mancano tutte le azioni della vita, e per una sola, che gliene  rimanga non si potrà dir che sia morti? Al medesimo modo per una sola cosa che uno voglia fare di  sua volontà, non adempie perfettamente la divina, né è morto con Cristo. Il che dichiarò Gesù stesso  con quel paragone del granello di frumento, che, se non è morto, non dà frutto. E quelle altre  somiglianze con le quali ci comandò la mortificazione e a cui paragonò il regno dei cieli, tutti ci  raccomandano questo medesimo, che la mortificazione e rassegnazione sia totale. Così fu quella  similitudine del tesoro nascosto e della gemma preziosa, per comprar la quale quel mercante vendé  tutte le cose e chi dice tutte, non eccettua niuna. 

   È cosa molto lacrimevole che alcuni, avendo fatto gran spesa in mortificarsi in cose maggiori,  mancano in alcune piccole, per cui restano senza questa gioia. Che diremmo di un uomo, il quale  avendo dati mille scudi per un incomparabile tesoro, dipoi si ritirasse dall'accordo, per non dar di più un solo quattrino, che gli restava? Il granello di senape, che è il più piccolo seme, e che cresce  più di tutte le altre piante, chi non s'accorge che ci ammonisce che cose molto piccole contengono  grandi effetti, e però non si devono disprezzare? La stima delle cose è per l'ordinario più per la loro  virtù che per la loro quantità. Per il che uno deve generosamente lasciar del tutto sé medesimo e  abbracciarsi solo con Cristo, adempiendo in tutto la volontà del suo Padre, persuadendosi che la  difficoltà dura solamente finché si vinca bene e sia adempita del tutto la volontà di Dio; perché è  vero quello che disse un santo monaco antico: «Mentre uno andrà vincendo, se la passerà cori  tristezza e travaglio; ma quando si trova Cristo, non travaglia più, ma fiorisce come una rosa.» E  come quando, è nuvolo, ogni cosa è mesta, e quando è sereno ogni cosa si rischiara e rallegra, così  succede a quello che ritrova questa preziosa serenità, la quale rischiara e rallegra il cuore, e toglie  tutte le tristezze di questa vita. E chi fa altrimenti, non adempie perfettamente gli obblighi, che deve  al supremo dominio di Dio, il quale per tanti titoli ha infinito diritto che noi facciamo in niente la  nostra volontà, ma la sua. E sebbene uno può adempire quello che coi soavi precetti gli domanda  Dio, non può però far tanto che se gli dimostri grato di tutto quello che ha ricevuto e riceve dalla  sua divina mano. 

   E per tanto con meno, né soddisfa alla gratitudine che deve a Cristo per i benefici, coi quali ci ha  obbligati; né merita quell'onore che gli angeli dànno a quelli che vedono crocifissi insieme con  Gesù, perché vedono in lui alcune cose del suo nemico, che è l'amor proprio; né godrà della soavità  di questo calice, che nel principio è di amarezza, ma nel fondo è di miele; e chi non lo vuota affatto,  né lo tramanda allo stomaco, non gusta tutta la sua soavità; anzi tiene in mano il veleno, che gli darà  la morte, poiché ritiene la sua propria volontà, la quale sola ci fa più danno che tutto l'inferno  insieme unito; né ritroverà Cristo, poiché non ha cominciato a cercarlo davvero, né lo raggiungerà,  poiché non l'ha incominciato a seguire, essendo il primo passo, come ci insegnò il medesimo  Signore, il negare sé stesso e pigliar la sua croce. 

   Ah! non perdoniamo a fatica nel cercare e possedere Dio, poiché tanto ci importa, siccome egli  cercò noi, ancorché non gli importassimo nulla. Con diligenza e ogni spesa cerchiamo la preziosa  margarita, giacché così egli cercò la minuta dramma. «È cosa notabile, dice S. Tomaso, che non  disse «la comprò», ma che la « trovò», ancorché il genere umano, che vien significato nella  dramma, gli costò il suo sangue prezioso e tanto amara passione. E la causa è, perché di tal maniera  desiderò la nostra salute, che gli parve sia stato un ritrovarla il poter liberare l'uomo dalla potestà  del demonio e guadagnarlo per la beatitudine eterna, per la quale fu creato. Similmente è cosa da  notare, che invita tutti gli angeli a congratularsi non con la dramma ritrovata, cioè non coll'uomo,  ma con sé medesimo, come se l' uomo fosse Dio del medesimo Dio, e dipendesse la salvezza di Dio  dall' aver ritrovato l'uomo perduto, e come se non potesse senza l'uomo essere Dio beato.» Sin qui il  santo Dottore. 

   Or io voglio riprendere la nostra ingratitudine e tiepidezza. Se tanto davvero ci cercò Cristo,  perché abbiamo noi a cercar lui tanto per burla? Se tutto quello, che egli patì, non gli parve niente in  riguardo di quel tanto, che desiderò per il nostro bene, perché a noi quello che è niente pare assai,  per procurare non solo il nostro medesimo bene, ma anche quel che è molto più, la sua divina  gloria, la quale è l'adempimento della sua volontà? Iddio si diede tutto a noi, perché dunque noi  dobbiamo dare a lui la metà? Oh intollerabile superbia di noi altri uomini, che non con parole ma  con le opere diciamo questa gran bestemmia, che vogliamo il doppio più di Dio! Poiché non  vogliamo condiscendere ad un tanto giusto e lucroso contratto, che l'uomo si dia tutto a Dio, poiché  Dio si diede tutto all'uomo. Oltre di questo, come potrà uno mortificarsi in cose grandi, se non si  avvezza a vincersi nelle piccole? E perciò Riccardo Vittorino disse che, giacché il demonio  s'affatica di vincerci in cose minime affinché indebolendoci ci vinca in cose maggiori, quanto è  giusto che noi ci affatichiamo di mortificarci in cose piccole, acciocché gli serriamo la strada donde  possa vincerci in cose grandi. 

P. EUSEBIO NIEREMBERG, S. J. 

domenica 11 settembre 2022

LA VOLONTÀ DI DIO O STRADA REALE E BREVE PER ACQUISTAR LA PERFEZIONE



Pratica di questo esercizio di adempire la volontà divina. 

   Ho voluto inculcare tanto diffusamente l'obbligazione, soavità e importanza che è in soggettarsi  alla volontà divina, perché in questo consiste tutta la perfezione e unione con Dio; e importa  sommamente formar un alto concetto e stima di questo esercizio per conseguirlo più brevemente. Io  penso che se uno fin da principio penetrasse vivamente l'obbligazione e l'importanza che vi è di far  solo la volontà di Dio e non la propria, abbrevierebbe molto il viaggio; perché se subito si  applicasse ad esso, avrebbe il mezzo più efficace per far bene gli altri esercizii e mettere in opera  tutte le altre virtù. È chiaro che se uno si determinasse con una perpetua e invincibile risoluzione «io  devo fare e volere in tutto e per tutto quello che Dio vuole da me, e non ho da attendere al mio gusto  né al mio affetto,» questi sarebbe mortificato, vedendo che Dio vuole quello da lui; sarebbe umile,  paziente, divoto, ritirato, astinente, casto, perché questo è quello che pretende da noi Iddio, e come  dice S. Paolo: «Questa è la volontà di Dio, la nostra santificazione» (Tess. 1.4. 3); e così farebbe un  grande avanzamento. 

   Per il che io raccomando a tutti e chieggo, per amor di Gesù Cristo, principalmente ai religiosi e  alla gente di spirito che, giacché essi si danno ad alcuni particolari esercizi e cercano di riuscire in  una o in un'altra virtù, facendo prove e diligenza particolare per conseguirla, pongano  principalmente tutte le loro forze e ingegno, e la loro mira particolare in fare stima della volontà di  Dio, in conoscerla ed eseguirla, senza indugio, né risparmio di cosa alcuna; la quale sollecitudine  devono porre nella direzione dello stato e occupazione della loro vita in generale, ma in tutte le  azioni particolari e singolari per piccole che siano, riguardando in ciascuna a Dio e fissando gli  occhi nella sua santissima volontà; la quale devono avere per unica regola di tutte le loro azioni,  considerando in ciascuna opera: Questo vuole Dio ch'io lo faccia, o no? E se conosce che non è  volontà di Dio, non lo fare per tutto il mondo; ma se è cosa che Dio gusta che si faccia, come sono  le opere di virtù, si deve subito volere e fare ciò Dio vuole che si faccia. Pongo l'esempio  dell'orazione. Con quale riverenza, umiltà, fervore, attenzione vorrebbe Dio ch'io la facessi? E  procurar di farlo così. 

   Se è opera particolare, che il superiore comanda, considerare con quale obbedienza vuole Dio ch'  io adempisca questo, con quale semplicità, fervore, prontezza, fortezza, gusto, perseveranza. E così  nelle altre opere aver riguardo alla loro sostanza, se sono di gusto di Dio; e subito considerare le  circostanze, con le quali vuole Iddio che si facciano. E se l'opera sarà per sé stessa indifferente o  sarà necessario il farla, procuri di coronarla con questa buona intenzione e di farla per amor di Dio,  perché con questo innalzerà l'opera, che per sé stessa non varrebbe niente, a grado molto alto di  merito. E non si deve perdere tanto gran guadagno per trascuratezza d’offerire le opere a Dio e  regolarle secondo il suo santissimo volere, col quale opereremo sopranaturalmente le azioni  naturali, e le virtuose di minori virtù si faranno tutte di carità. Stiamo sempre apparecchiati ad  adempire il gusto divino, e in nulla la propria nostra volontà, così nelle opere esteriori, come nelle  interiori, così nelle grandi, come nelle piccole, anche nel più piccolo pensiero e movimento del  cuore, dirizzandole e livellandole con questa unica regola di vera prudenza, che è quello che Dio  vuole e facendo sempre quello, che dice Davide: Siccome gli occhi di una serva stanno fissi nelle  mani della sua padrona, così i nostri occhi stanno posti nel Signore (Salm. 122. 2). Se avessimo  mille intelletti e mille occhi, in questo dovremmo occuparli: così fanno gli angeli e quei sacri  animali dell'Apocalisse e i sovrani Cherubini pieni di occhi di dentro e di fuori. Onde con mille  avvertenze, con mille intenzioni e sollecitudini, dobbiamo andar considerando il beneplacito divino,  tenendo sempre tesi gli occhi per vedere quello che Dio vuole, ripetendo molte volte quello che  disse S. Paolo: «Signore. che volete ch'io faccia?» In questo adunque si ponga particolare attenzione; di questo si faccia l'esame particolare; a questo abbiamo divozione principale; questo sia  l'occupazione delle nostre potenze; questo sia il lavoro di tutta la nostra vita. 

   Non si aspetti, quando usciremo di qua; ma fin d'ora facciamo con gran fervore e amor di Dio  quello che dobbiamo continuare per una eternità; facciamo in terra quello che fanno i Beati in cielo,  che è quello che ogni giorno domandiamo nel Pater noster, siccome lo faceva S. Geltrude, a cui non  usciva mai altro dalla bocca e dal cuore che «non si faccia la mia, ma la tua volontà». La qual  divozione gliela insegnò Cristo nostro Redentore, incaricandola di consacrare a lui tutte le opere.  ripetendo quelle parole più spesso che poteva; e non solo in generale quello che leggeva e scriveva,  ma ciascuna parola e lettera da per sé; né solo il mangiare e il bere, ma ciascun boccone e sorso che  faceva; e tutte le parole che diceva, tutti i passi che faceva, tutte le volte che respirava, affinché in  questa maniera stesse sempre intenta a non far che la volontà divina. 

   Con questo esercizio vivrà l'anima divota con una eccellente, fruttuosa e facile presenza di Dio,  non stancando l'intelletto e l'immaginazione, ma deliziando il cuore con fini atti di amore; perché  non solo andrà amando il suo Creatore con amore di carità assai unitivo, ma operando  continuamente con amor di Dio, che é l'ultimo termine dell'amore. E così praticherà continuamente  la mortificazione, che é la prova del fino amore, negando sempre la sua volontà, secondo il detto di  Cristo: Se alcuno vuol venire dietro di me, rinneghi sé stesso (Matt. 16. 24; Luc. 9. 23). E oltre  all'uso della mortificazione, avrà un continuo esercizio di perfetta rassegnazione, annichilazione,  unione e trasformazione, stando disposto ad ogni cosa e tutto rimesso nelle mani e gusto di Dio e  spropriato totalmente del suo, unendosi ogni giorno più col suo Creatore, poiché si spoglia di se  stesso e di ogni suo volere, per fare il volere di Dio. Avrà parimenti una grande purità di cuore,  perché non vi può essere alcun affetto disordinato dove non si attende ad altro se non al gusto di  Dio, col lume del quale si riconosce subito qualsivoglia disordine. Finalmente in questa conformità  nella divina volontà consiste la Somma della perfezione e di tutte le virtù, ed è la strada più breve,  più universale, più sicura, più meritoria di tutte, ed è la regola universale dell' altre, e il compendio  della disciplina e vita spirituale, che in un dettame e in una regola sola comprende tutta la sua  dottrina 

   Ultimamente si deve, avvertire, come importerà grandemente che le orazioni giaculatorie (le  quali, secondo il consiglio dei santi, bisogna fare tra il giorno) siano quelle, le quali, abbiamo detto,  raccomandò Nostro Signore a S. Geltrude e ad altri santi e generalmente a tutta la Chiesa  nell'orazione che ci insegnò, e il medesimo Signore aveva costume di ripetere spesso, come fece  alcune volte nell'orto, dicendo al Padre che si facesse la sua volontà e come egli voleva. E così noi  dobbiamo sempre avere nella bocca e nel cuore queste parole: Padre nostro, sia fatta la tua volontà  così in terra come in cielo, le quali parole, perché siano dette con frutto, non si devon dir solo per  modo di lode e di benedizione a Dio e di affetto amoroso di conformità a lui, ma anche per modo di  preghiera e di petizione, nata da zelo della gloria di Dio e dell'amor del prossimo, supplicando in  essa Dio che tutti gli uomini in terra facciano la sua santissima volontà, poiché pei nostri fratelli non  possiamo chiedere cosa migliore. Con ciò si unirà insieme in questa breve orazione la carità di Dio  e del prossimo. Dimodochè per mezzo di esso l'anima si starà unendo e conformando con pio,  lodandolo, benedicendolo, e magnificandolo, e insieme starà facendo bene al prossimo, orando  continuamente per i suoi fratelli, per tutta la Chiesa, per tutto il mondo, chiedendo per ciascuno e  per tutti quella cosa che possa esser per loro di maggior bene, e quello di che hanno più bisogno ed  è loro più importante; il che è un atto di avvantaggiato merito. 

P. EUSEBIO NIEREMBERG, S. J. 


venerdì 27 maggio 2022

LA VOLONTÀ DI DIO O STRADA REALE E BREVE PER ACQUISTAR LA PERFEZIONE

 


Esempi e sentenze notabili dei Gentili, che insegnarono come dobbiamo adempire la volontà  di Dio e conformarci ad essa. 


Per ultimo voglio proporre alcuni esempi e sentimenti di quelli, che mancarono del lume della  fede e non ebbero molto chiaro quello della ragione: ma con tutto ciò arrivarono a conoscere che  non vi era cosa più giusta, né più fondata in ragione, né più generosa, né più utile che l'adempire e il  fare la volontà di Dio; affinché noi ci vergogniamo di noi medesimi di non arrivare dove arrivarono,  e di non sentire quello che sentirono uomini senza legge e senza il conoscimento dell'obbligazione,  che porta seco il vedere un Dio morto, crocifisso per noi. 

   Cleonte, maestro di gran filosofi, diceva, benché gentile: «Guidami, Dio mio, e conducimi dove ti  sarà di gusto: ché io ti obbedirò, adempiendo la tua volontà, ancorché sia con gran travagli, ed io  che sono cattivo, farò, ancorché fosse, gemendo e affaticando, quello che deve fare un uomo  giusto.»  

   Demetrio, insigne filosofo, ancorché si ritrovasse in gran povertà e nudità, diceva: «Di questo solo  io mi posso lamentare, o Dio immortale, che prima d'ora non mi abbiate notificata la vostra volontà,  perché io sarei giunto prima a queste cose, alle quali io sto al presente prontissimo. Volete levarmi i  figliuoli? Per voi li ho allevati. Volete alcun membro del mio corpo? Pigliatelo, e non fo gran cosa  ad offrirvelo, avendo a lasciarli tutti assai presto. Volete la vita? E perché non ve l'ho a dare? Non ci  sarà alcun indugio a restituirvi quello che mi deste. Tutto quello che domanderete, lo riceverete da  me, che io lo do volentieri. Dunque di che mi lamento? Di quello che avrei voluto dare con  volontaria offerta, piuttosto che per restituzione? Che necessità v'era di levarmi quello che potevate  da me ricevere? Sebbene non potete voi levarmi cosa alcuna, perché non si leva se non a quello che  la ritiene. Io in nulla sono sforzato e niente patisco contro il mio gusto, né in questo fa a voi  servizio. Io mi conformo con la vostra volontà, perché conosco che tutte le cose corrono con, una  certa legge, che è promulgata per sempre.» 

   Socrate ancora, nel passo più arduo, quale è quello della morte, che patì ingiustamente, si mostrò  tanto conforme con la volontà divina, che disse: «Se Dio vuole così, così si faccia, perché tutti i  miei accusatori e nemici non mi potranno far danno.» E Simplicio disse che la vera perfezione  dell'anima consisteva in questa unione e conversione di volontà a Dio. 

   Epitetto, illustre stoico, faceva a Dio questa generosa offerta: «Adoprami, Signore, per  qualsivoglia cosa, che vuoi: con te ho il medesimo sentimento e il medesimo animo. Non ricuso  niente di quello che a te pare: vengo dietro a te: incamminami dove vorrai. Vuoi ch'io comandi,  ch'io tenga vita privata, ch'io sia sbandito, povero, ricco? Mi acquieto al tuo gusto, alla presenza  degli uomini, per tutte le cose.» 

   Il medesimo filosofo disse una cosa che gli passava per la mente, molto meravigliosa e !'insegnò e  predicò pubblicamente: «Nessuna cosa, diceva, ch'io voglia, mi può essere impedita, né disturbata  da uomo nato; ed a nessuna cosa, ch'io non voglia, non può sforzarmi potenza umana. Dirai: Come  può essere questo? Ti dico che è perché soggettai la mia volontà a Dio. Se Dio vuole ch'io abbia la  febbre, io ancora la voglio; se vuole ch'io faccia alcuna cosa, io non mi scuserò; se mi comanderà  che io prenda qualche cosa, non la rifiuterò; se vorrà ch'io la conseguisca, non la rinuncierò; se egli  non vorrà, io ancora non vorrò; se vuole ch'io muoia, chi distoglierà questo desiderio all'anima mia  e qual forza potrà disturbarlo? Nessuno potrà per certo far più violenza a me, che al medesimo Dio:  la causa e la volontà è la medesima. I viandanti, che hanno. qualche prudenza, fanno il medesimo;  perché se alcuno sente che vi sono assassini per la strada, non se ne va solo, ma aspetta compagni o  si unisce con persone principali mandate da qualche proconsole o questore, con la cui compagnia  sia sicuro. Non in altra maniera fa il prudente, perché nella strada di questa vita ci sono molti luoghi  infestati da assassini, ci sono molti tiranni, molte e varie temo peste e difficoltà e morti fra quelli  che grandemente amiamo. Che rifugio ci sarà per evitare tanti mali e per non cadere negli assassini? 

Che compagnia aspetterai per passar sicuro? Con chi ti unirai? Forse con un uomo ricco e facoltoso  o con alcun magistrato? Ma che profitto potrai cavar di qui? E che farai, se questi stesso sarà  spogliato e si lamenterà della sua disgrazia, o l'istesso appunto, che tu scegliesti per compagnia e  per guardia, potrà spogliarti come un ladro? Che farai? Procurerai forse di essere amico del  medesimo Cesare? Ma per ottenere questo, è necessario patire, soffrire gran cose, ed essere molte  volte spogliato. Oltre di che quel Cesare è uomo mortale, e mi può mancare, e dato anche che non  muoia, può mutarsi, odiarmi, e così bisognerà andare in altra parte. Dove adunque andrò, per essere  difeso? A un eremo, nel deserto? Ma forse ci sarà porta serrata, acciocché non giunga qui vi una  febbre o altra infermità? Qual rimedio dunque ci sarà? È possibile che ancora non si possa ritrovare  una compagnia sicura, fedele, stabile e senza insidie? La ritrovò veramente il Savio, considerando  che se si accosta a Dio, si farà il viaggio sicuro. Domanderai: Che cosa è questo che noi diciamo  accostarsi a Dio? È che quello che Dio vuole, si voglia anche dall'uomo, e che quello che egli non  vuole, si abbomini nella medesima maniera da lui? Ma come si potrà far questo? Non in altra  maniera, che stando intento alla volontà di Dio e considerando la sua prudenza.» Tutto questo è del  filosofo Epitetto. 

   Ancora Platone condanna quel modo di parlare: Iddio ti dia tutto quello che desideri, ti conceda  quello che vuoi. «Prega Dio, dice Platone, che non te lo conceda, ma faccia che tu voglia quello che  egli vuole, perché questo è un purissimo culto e una divina religione l'unirsi e legarsi in questa  maniera con Dio.» 

   Seneca, dando ragguaglio a un amico dei segreti del suo cuore e del costume che aveva in  sopportare le avversità, disse: «In tutte le cose, che paiono avverse e dure, mi diporto in questa  maniera: che non tanto obbedisco a Dio, quanto accommodo il mio sentimento al suo, e voglio il  medesimo che egli vuole e lo seguo di cuore e di buona volontà, e non perché ciò sia di necessità. E  però non mi occorre mai cosa, ch'io sopporti con tristezza, né di mala voglia; perché non posso dare  di mala voglia quello che devo come tributo, essendo tutte le cose, per le quali piangiamo e ci  spaventiamo, tributo di questa vita.» 

   Lo stesso consiglia che per adempire la volontà divina, si deve correggere il giudizio umano in  tutte le cose, che ci paiono ardue e ci molestano, ripetendo molte volte fra sé stesso: «A Dio pare  un'altra cosa: Iddio giudica meglio così.» E in un altro luogo dice che il meglio che uno possa fare,  è sopportare le cose avverse allegramente e ricevere tutto nella medesima maniera, come se egli per  suo gusto e per sua volontà lo cercasse e pigliasse; e che si deve voler così e pigliar le cose con  nostro gusto e volentieri, poiché vengono dalla volontà di Dio. È quello stesso che insegnò S. Doroteo, che uno poteva andar sempre adempiendo la sua volontà, mentre non aveva altra volontà  se non quella del suo superiore. Non ho riportato questo, perché ai servi di Dio siano necessari  questi consigli dei filosofi; ma perché noi ci vergogniamo che, dopo la dottrina di Cristo e l'esempio  e morte sua, non arriviamo con l'opera a quello che dalla forza della ragione naturale furono sforzati  a dire i ciechi gentili. 

P. EUSEBIO NIEREMBERG, S. J. 

giovedì 2 dicembre 2021

LA VOLONTÀ DI DIO O STRADA REALE E BREVE PER ACQUISTAR LA PERFEZIONE

 


Si prova con esempi l'importanza di far la volontà di Dio. 

   Basterebbe ciò che fu detto per persuadere questa divina occupazione di fare la volontà di Dio e  non la nostra: ma per molti non serve tanto la ragione né l'autorità delle parole, quanto l'esempio  delle opere: perciò non voglio lasciare di proporne alcuni, che noi possiamo imitare. Chi ci diede  maggior esempio in questo, fu il nostro Maestro e Redentore Gesù, che solo avrebbe potuto senza  pericolo fare la sua volontà, per averla egli libera da sinistri affetti e passioni e impossibilità di  peccare, e che non poteva errare in quello che eleggesse: tuttavia non volle allontanarsi punto dalla  volontà dell'eterno Padre. Egli stesso confessò che non venne al mondo a fare altra cosa, e che il suo  cibo e la sua bevanda erano questo. E nel periodo doloroso della sua passione, quantunque avesse  potuto fare la Redenzione con meno costo, e la natura si spaventasse di tormenti sì inauditi che  l'aspettavano, non volle chiedere assolutamente a suo Padre che da essi lo liberasse, ma volle  mettersi nelle sue mani, chiedendo che si facesse la sua volontà, non domandando quello che il suo  naturale difetto voleva, ma quello ch'era di gusto a suo Padre. E perciò la sua morte fu per adempire  la volontà divina e per non allontanarsi punto da essa, sebbene per redimere il mondo non era  necessario che morisse. E le ultime parole dette sulla croce, con le quali spirò, furono  raccomandarsi nelle mani di suo Padre, per insegnare a noi a rimetterei nelle mani di Dio e non  volere altra cosa, se non quello che egli vuole, ancorché solamente per questo perdessimo la vita e  patissimo tutti i tormenti del mondo: poiché egli, senza altra ragione, né altra necessità che di fare la  volontà di Dio, avrebbe patito molto più. 

   Questa legge e amore della volontà di suo Padre fu profetizzata singolarmente da Davide, quando  disse nella sua persona: Nel principio del libro fu scritto di me, che facessi la tua volontà: Dio mio,  così ho voluto, e tengo la tua legge nel mezzo del mio cuore (Salmo 39. 8-9). Degli altri giusti disse  Davide che tenevano nel cuore la volontà e la legge di Dio; ma del giusto dei giusti, Gesù, disse che  l'aveva non solo nel cuore, ma nel mezzo. di esso, come cosa che più di tutte stimava e voleva.  Finalmente tutta la vita e tutti i travagli di Gesù furono per adempire lui e far ad altri adempire la  volontà di suo Padre, essendogli obbediente fino alla morte e morte tanto penosa, quanto quella di  croce: affinché noi ci ricordassimo che l'opera, con la quale ci ha redenti è stata di soggezione e  conformità alla volontà divina, e però avessimo in maggior stima quella conformità e l'imitassimo  in essa con tale costanza, come se ci fosse impossibile il fare ogni altra cosa. Riferendo gli  Evangelisti l'orazione che fece il nostro Salvatore nell'orto, uno scrive che disse: Padre, se, volete,  passi da me questo calice; e l'altro disse: se è possibile, (Matt. 26. 39; Marc. 14. 36) affinché  intendessimo che ci deve essere la medesima cosa tanto il non gustar Dio d'una cosa, quanto l'essere  impossibile. 

   Dopo Cristo il più bel esempio ce l' ha dato la sua santissima Madre, la quale meritò di essere tale  per l'obbedienza e sommissione alla volontà divina. Per questo ella medesima si chiamò la serva del  Signore: e per un atto, che fece, di conformità alla volontà divina, entrò subito il Verbo eterno nel  suo seno a vestirsi di nostra carne. Dimodochè le due opere maggiori di Dio, che apportarono  stupore ai Serafini, che son l'Incarnazione e la Redenzione, si effettuarono con atti di conformità col  gusto divino, perché non ci è cosa più grata a Dio. E ora nel cielo stando la Vergine, coronata regina  degli angeli tiene per Sua maggior grandezza il soggettare la propria volontà a quella di Dio, e si  compiace in atti di conformità con il gusto divino. Quindi è che un monaco cistercense, come  racconta Cesario, udì la dolce voce di questa Signora, la quale, passando avanti di lui in una nuvola  molto risplendente, diceva: «Facciasi la tua volontà così in terra, come in cielo.» Il che diceva con  tanta dolcezza, che tutte le volte che quel monaco si ricordava la dolce melodia, si scioglieva tutto  in lacrime. E non v'ha dubbio veruno che in questo la Vergine dà esempio ai Serafini più ardenti nell'amore del suo Creatore. Onde non è adesso gran cosa dire che la maggiore eccellenza e il  maggior titolo che conobbe Davide negli angeli, per invitarli a lodare Dio, come più puri, e più a  proposito per supplire i suoi mancamenti, sia l'adempimento della volontà di Dio, e però dice:  «Benedite il Signore, voi tutti angeli suoi, che siete potenti in eseguire con gran valore la sua parola,  subito in quell'istante che udite la voce del suo parlare» ; o secondo l'esplicazione più letterale: «Per  questo solo fine. di obbedire e adempire la voce che udite delle sue parole, benedite il Signore voi  tutte, virtù sue,» cioè tutti gli eserciti del Cielo, Arcangeli, Principati, Dominazioni, Troni,  Cherubini e Serafini, che siete creati da Dio, e che fate la sua volontà. Dimodochè la maggior  nobiltà e il maggior cuore degli Spiriti celesti, sebbene siano beati, viene da Davide misurata con  questo solo impiego di adempire puntualmente la divina volontà con grande sforzo e valore e con  gran purità d'intenzione, non per altro fine che per sé stessa e per obbedirla e adempirla. E di questo  si compiace tanto Iddio, che ad essi volle imporre nel cielo esercizio di obbedienza, affinché la loro  sommissione e annegazione della propria volontà fosse maggiore; non solo obbedendo a Dio  immediatamente, ma anche ad altre creature per Dio, ordinando che alcuni angeli a stessero ad altri  soggetti, come figliuoli a padri, come S. Paolo afferma della paternità, che riferisce essere nel cielo.  E quello che comanda Iddio, non lo comanda a tutti gli angeli da sé medesimo, ma per mezzo di  altri. Per cui gli angeli ricevono l'ordine di quello che devono fare, immediatamente dagli altri  Spiriti di più alta gerarchia. 

    Ed è chiaro che è maggior esercizio d'obbedienza obbedire ad una creatura per amor di Dio, che  non a Dio immediatamente; ed è maggior cosa in certo modo star soggetto alle creature e a Dio, che  non a Dio solo in sé medesimo. Questa obbedienza adunque hanno gli angeli, rimirando con tal  rispetto e con conformità della loro propria volontà gli angeli superiori, come se fossero il  medesimo Dio, e ascoltando le loro parole come se fossero del medesimo Dio. E però disse Davide  di tutti generalmente che ascoltavano la parola e la voce di Dio; non perché tutti l'udissero per sé  stessi, ma perché in quella medesima maniera riputavano e adempivano qualsivoglia ordinazione  degli altri spiriti superiori, come se quelli fossero il medesimo Iddio.  

   Agli Apostoli ancora comandò il loro umile Maestro Gesù Cristo, che si diportassero come servi,  non solo rispetto a Dio, ma anche tra di loro; non solo perché facessero la volontà divina, ma anche  perché non facessero la propria e piuttosto volessero fare la volontà di un altro uomo, rimirando  quello come signore, e sé medesimi come schiavi, per non far mai la propria volontà né assecondare  il proprio gusto. E quando volle significare uno stato di maggior perfezione a quell'Apostolo, che  egli elesse per capo della sua Chiesa, lo fece con dirgli che altri lo cingerebbe e lo condurrebbe  dove non voleva, cioè che non farebbe la sua volontà. E quando ebbe a sollevare uno al principato  della sua Chiesa e al comando e governo dei suoi, non lo fece se non nella persona di chi si  chiamava obbediente (ché questo vuol dire Simone, che era il nome di S. Pietro). E quando ridusse  e sollevò a quell'altra colonna della Chiesa, la prima parola, che volle udire da quella bocca fu di  conformità e di soggezione alla volontà sua, avendo detto S. Paolo subito convertito: Signore, che  volete ch'io faccia? (Atti 9, 6); parole che non si dovrebbero mai partire dalla bocca e dal cuore. 

   Né di ciò fu contento il Signore, ma affinché questo nuovo gigante del cielo maggiormente  s'abbassasse e soggettasse la sua volontà, lo rimise ad Anania, il quale fosse suo padre e maestro di  spirito, volendo così che si assoggettasse anche alla volontà d'un altro uomo, perché tanto meno  facesse la sua. Nel che si deve avvertire, per nostra consolazione che non disse il Signore: Egli ti  dirà quello che io voglio che tu faccia, ma egli ti dirà quello che ti conviene fare; e questo disse per  farci intendere che Dio non vuole altra cosa se non quello che ci conviene e ci sta bene; e ancorché  gli uomini non ci parlino manifestamente come vicari di Dio, né certi della sua volontà, nondimeno,  quando la cosa non è cattiva, dobbiamo far la volontà d'altri, anche se non è superiore, piuttosto che  la nostra, la quale sempre deve avere l'ultimo luogo, o per dir meglio, nessun luogo. I Santi, i quali  rinnovarono lo spirito degli Apostoli, posero ogni loro studio in questo medesimo esercizio. 

   S. Teresa di Gesù fece voto di non far cosa che non fosse volontà di Dio, di suo maggior gusto e  compiacenza, non volendo fare il suo gusto in nulla. Un somigliante voto fece la venerabile vergine  donna Luisa di Caravascial, cioè di far sempre in tutte le cose quello che intendesse essere di maggior perfezione e di maggior gusto nel divino cospetto. Il ferventissimo padre Diego di Saura,  della Compagnia di Gesù, scrisse e confermò lo stesso voto col sangue cavato si vicino al cuore. Un'  altra anima aveva tanto gusto in non fare la propria volontà, ma quella di Dio, che desiderava che  anche il serrare e l'aprire gli occhi e il movere un dito fosse precetto divino. 

   S. Ignazio non si contentò di cercar il solamente in tutto il più perfetto e la maggior gloria di Dio e  di fare la volontà del suo Creatore, ma quello che più gustava a sua Divina Maestà. Né solo si  contentò di fare in niente la sua propria volontà, ma in tutto cercava quello che era meno di proprio  gusto: dimodoché diceva che se si fossero date due cose di ugual gusto di Dio o gloria divina, egli  avrebbe eletta la più penosa e travagliosa, non tanto per fare la volontà di Dio, quanto per far meno  la sua: quindi é che per vincere la sua volontà, patendo di più e per essere oltraggiato di più, si finse  alcune volte pazzo. 

   S. Pandolfo gustava tanto della volontà di Dio, che, divenuto cieco, se ne rallegrava con indicibile  contento e consolava quelli che di lui avevano compassione, e restituendo la vista a tutti i ciechi,  che venivano a lui, non volle curare sé stesso, né chiedere a Dio che lo sanasse: e però con questo  esercizio di non aver volontà, (se non la divina) ascese a un altissimo grado. 

   A S. Geltrude disse il suo sposo Gesù: «In questa mano porto la sanità, in quest'altra l'infermità:  eleggi, figliuola, quello che più ti piace.» Ma la santa, avendo gran desiderio di patire per Cristo,  non ardì di scegliere a suo giudizio, ma incrocicchiando le braccia avanti il petto e ponendosi in  ginocchio, disse: «O Signore mio, quello di che io vi supplico con ogni efficacia, é che non  guardiate la mia volontà, ma la vostra; e però, per essere pronta e disposta a qualsivoglia cosa di  quelle due, non ne eleggo alcuna. A voi, Signor mio, tocca di vedere quale di esse mi volete dare.»  Il che piacque tanto allo sposo celeste, che le disse: «Chiunque desidera ch'io entri molte volte nella  sua casa, mi dia la chiave della sua volontà e non me la voglia mai più levare.» Ammaestrata con  questo S. Geltrude faceva ogni giorno trecentosessantacinque volte questa orazione: «Amantissimo  Gesù mio, non si faccia la mia volontà, ma la tua.» 

   All'arbitrio di S. Francesco Borgia lasciò Iddio il vivere o il morire di sua moglie; ma il santo  ricusò umilmente di farne la scelta a suo gusto, rispondendo al Signore: «Signore, Dio mio, perché  rimettete al mio arbitrio quello che é solo della vostra volontà? Per me è bene il seguire il vostro  santissimo volere e il non avere io volere alcuno. Chi sa meglio di voi, Dio mio, quello che deve  essere bene per me? Facciasi,  Dio mio, la vostra volontà, la quale io domando che si adempia in me  e in tutte le cose.» Quanto giovi questo esercizio per avanzarsi in gran merito, lo dichiara bene  un'istoria che racconta Cesario di un monaco di Castello, il quale faceva gran miracoli, senza notarsi  in lui differenza di vita degli altri. Al solo toccare degli abiti di lui risanavano gli infermi, e se  qualsiasi altro monaco si poneva la sua cinta o altra cosa del suo vestito, subito restava sano; onde l'  abbate; avendo notato il molto, che quel monaco valeva presso Dio, e che non faceva maggiori  esercizi che gli altri monaci, stava di ciò meravigliato: e tiratolo un giorno da parte, gli disse:  «Dimmi, figliuol mio, qual é la causa di tanti miracoli che fai?» Rispose il monaco: «Non lo so,  poiché io non sto in orazione più degli altri fratelli, né voglio di più, né digiuno di più, né fatico di  più. Solo una cosa potrei avere più degli altri, ed é che mi curo tanto poco delle cose della terra, che  non v'ha prosperità né contento che m'innalzi, né avversità che mi abbatta e faccia impressione  alcuna nell' animo mio, sia nelle cose che toccano la mia persona, sia in quelle che toccano ad altri.»  Gli replicò l'abbate: «Non ti sdegnasti, né turbasti, quando quel cavaliere ci bruciò il nostro  podere?» Ed egli: «No, per certo: perché rimisi il tutto a Nostro Signore Iddio; poiché se m'é dato  poco, ne rendo grazie a Dio e lo ricevo; e se mi è dato assai, parimenti lo ricevo, rendendo grazie a  Dio, perché non voglio se non che si adempisca la sua volontà.» Allora conobbe l'abbate che la  causa dei miracoli, che faceva quel monaco, era l'amor grande di Dio e il meraviglioso disprezzo  delle cose temporali, per conformarsi in tutte le sue azioni alla volontà divina. 

   Per insegnarci parimente a fare tutte le cose con purità d'intenzione, è molto a proposito quello  che successe a due monaci che vivevano insieme nell'eremo con grande perfezione. Il demonio  apparve al più vecchio, in forma di angelo, facendogli sapere da parte di Dio, come il suo compagno  era prescito; e però tutte le sue opere buone, travagli e penitenze non gli dovevano giovare a nulla. 

Restò il vecchio molto mesto per questa rivelazione; durandogli il suo sentimento per molti giorni,  se ne accorse il monaco giovane, il quale, a forza di prieghi e di importunità, ottenne da lui, che gli  dicesse la causa del suo dolore. Sentendo che la causa era l'avergli Dio rivelato che si aveva a  dannare e che vane erano le sue fatiche, il santo giovane molto allegro gli disse: «Non ti turbi  questo, o padre, né ti affligga, perché sempre ho servito a Dio non come mercenario per il cielo e  per il pagamento, ma come figliuolo o come chi deve fare per essere Dio sommo bene, al quale  devo quanto sono, ed egli può far di me tutto quello che gli parrà.» Con la qual risposta il vecchio si  consolò: e molto più, quando di poi con vera rivelazione seppe da un altro angelo buono, come il  demonio l'aveva ingannato e che per quell’atto che aveva fatto e per 1'animo tanto puro e generoso,  che aveva di venire a Dio o di fare la sua volontà, aveva acquistato meriti molto grandi ed era  piaciuto singolarissimamente al Signore. 

   Di un altro servo di Dio racconta Gersone che faceva grande penitenza e stava assai in orazione; o  il demonio, avendo invidia di opere tanto buone, per distornarlo da esse, l'assalì con una tentazione,  dicendogli: «perché ti stanchi tanto? Già non ti hai a salvare, né andare alla gloria.» Ma egli rispose:  «Io non servo a Dio per la gloria, ma per essere egli chi è, por adempire la sua volontà.» E con  questo restò il demonio confuso. 

   Non voglio tralasciare di far memoria dell'esercizio ammirabile di conformità con la volontà  divina, che ebbe il servo di Dio, Gregorio Lopez, del quale si dice che il Signore gli insegnò come  esercizio di orazione e presenza di Dio il ripetere queste parole: «Si faccia la tua volontà, così nella  terra, come nel cielo: amen: Gesù!» Ed egli abbracciò con tanta diligenza e amore questa divina  orazione, che la ripeteva moltissime volte il giorno: e di essa usava per infervorarsi nell'amor di  Dio, e per difendersi contro le tentazioni del demonio. E volendo che anche gli altri provassero la dolcezza e la forza di questo esercizio, lo consigliava per ordinario ad  altrui. 

P. EUSEBIO NIEREMBERG, S. J. 

domenica 3 ottobre 2021

LA VOLONTÀ DI DIO O STRADA REALE E BREVE PER ACQUISTAR LA PERFEZIONE

 


Come è pericoloso il tralasciar di adempire la volontà divina, anche in cose piccole. 

   Non solo dobbiamo considerare e temere i giusti giudizi di Dio, per conformarci con tutto quello  che Dio farà, ma anche per adempire ed eseguire in tutte le nostre opere la sua santissima volontà,  benché sia minima la nostra azione; sicché non ci pigliamo ardire di muoverci, neppure un tantino,  se non è per dar gusto a lui in tutto. Per il che si deve grandemente avvertire che l'infinita sapienza  di Dio ha disposto grandi beni, così temporali come eterni, dipendenti tutti dall'adempire noi la Sua  volontà in cose piccole. Il che è un meraviglioso e secreto giudizio della divina provvidenza. Alle  volte non castiga Dio in questa vita molti che commisero peccati gravi, e castiga altri santi, e alle  volte, severissimamente, anche i medesimi peccatori, di qualche leggera trascuraggine che hanno  commessa. Altre volte lasciando di premiare in questa vita opere grandi di virtù, suole per un  piccolo servizio fare segnalatissime grazie e rimunerarle con maggiori dimostrazioni e con altre  opere maggiori. Di modo che ci sono alcune azioni virtuose, nella esecuzione delle quali od  omissione, ancorché sia molto leggera, per giusti e altissimi giudizi, fa Dio dimostrazioni notabili,  concedendo grazie grandi, se si adempie in esse la sua volontà, o mandando castighi grandi se si ci  passa sopra. Non conoscendo dunque quali siano queste opere, dobbiamo stare molto attenti e  solleciti a non mancare in cosa alcuna, per minima che sia, all'intero adempimento del suo  santissimo gusto, perché non sappiamo se quello che ci pare meno importante, sia quello per il  quale abbiamo ad essere più castigati. 

   Chi avrebbe detto che per tanto gravi peccati di Davide, per tanto gravi ingiustizie, quanto  l'adulterio di Bersabea e l'omicidio di Uria, la divina giustizia si avesse di presente a contentare con  la morte di una creatura? E che il numerare il popolo, nel che Davide non fece ingiustizia ad alcuno,  anzi pareva buon governo, fosse castigato da Dio con la morte di settantamila uomini? Al sacerdote  Aronne, per peccato sì enorme, come il lasciar che il popolo adorasse il vitello d'oro, non toccò Dio  un capello della testa. E invece perché egli e il suo santo fratello, nel percuotere una pietra perché  scaturisse acqua, non si diportarono del tutto come Dio voleva, che fu colpa solamente veniale, li  castigò molto rigorosamente, negando loro la cosa che più desideravano in questa vita, che fu  l'entrata nella Terra promessa, e non contentandosi di questo solamente, levò loro la medesima vita. 

   Per certo l'infinita bontà del nostro Dio ha ordinato tutto questo con divina sapienza, perché non  solo adempissimo la sua volontà nel più, ma anche nel meno, non solo nel molto, ma anche nel  poco, e però ha castigato molto fortemente il mancare, in cose piccole, al suo gusto. Veramente fu  altissimo giudizio di Dio la morte infelice del santo re Giosia, per la poca considerazione con la  quale non volle credere a quello che da parte di Dio gli significò un re barbaro. E chi non stupisce di  Oza, che per toccar l'Arca del Testamento, quando stava per cadere, Iddio l'avesse a castigare con  tanto subitaneo e terribile castigo, quanto il restar morto all'improvviso, percosso dalla mano di  Dio? Si racconta nella Sacra Scrittura di altri due, i quali, perché mancarono leggermente a quello  che Dio ordinò loro, furono infelicissimamente uccisi dai leoni, Grande castigo fu quello della  moglie di Lot, che non per altro che per essersi voltata indietro (il che le era stato proibito), fu  convertita in statua di sale. Aggiungo di più: la caduta di S. Pietro nel negare il Salvatore, fu pena di  un poco di presunzione. La caduta di Davide fu un poco di amar proprio e una immodestia d'occhio.  Quella di Salomone ancora fu per qualche vanagloria. E la eterna perdizione di Saul, non v' ha  dubbio che fu cagionata da poca cosa, donde si ridusse a non far la volontà divina in cosa grave: dal  che venne la sua riprovazione, la morte infelice, la tragica fine della sua famiglia e la sua eterna  condanna. 

   Per il contrario Iddio ha rimunerato opere di piccole virtù con abbondantissime grazie: Abigaille,  per alcune buone parole e per la liberalità che usò con Davide, fu innalzata da Dio ad essere moglie  di un re. Rebecca, perché fu cortese col servo di Abramo, meritò di accasarsi con Isacco; e fu della progenie del Messia. Per una limosina che fece S. Gregorio, Iddio lo fece pontefice della sua  Chiesa, e gli concesse grandi doni spirituali. Di modo che l'opera buona che uno meno pensa, può  essere causa di grandissimi beni e della propria salvezza e santità, e il mancamento e la  trascuratezza di cui fa meno conto, può essere principio di grandi mali e della morte temporale ed  eterna. 

   Che cosa dunque dobbiamo imparare da ciò, se non che dobbiamo vigilare in tutte le nostre opere  e azioni per non mancare in cosa alcuna all'adempimento del gusto divino? Quanto avrebbe perso  Abigaille se avesse lasciato di essere cortese, con Davide? E da quanto gran male si sarebbero  liberati Salomone e Saul, se in tutto avessero adempito il divino beneplacito? Dovremmo tremare di  lasciar un' opera di virtù e di mancare un poco al gusto di Dio, perché non sappiamo quanto ciò sia  per costarci, né conosciamo che può importarci molto quello che ci par poco. 

   Vorrei che ponderassimo questo, come io giudico essere necessario, e che ci facesse quella forza  che ha questa ragione, perché corre rischi grandi chi va mancando all'adempimento della volontà  divina; e ancorché l'adempisca in alcune cose, se non l'adempie con lealtà, se ne lascia alcune,  benché piccole, può correre gran pericolo d'incontrare il principio della sua perdizione, o di lasciar  l'occasione della sua ventura e perfezione. Sono grandi e altissimi i giudizi di Dio, ed è dovere che  li teniamo sempre davanti agli occhi e ce ne ricordiamo spesso quando ci si offre alcuna opera di  virtù, ancorché ci paia di poca importanza. Che so io quello che me ne va in questo? perché ci può  andare la mia perdizione o la mia salvezza: ne possono seguire grandi mali o beni; i giudizi di Dio  sono secreti: non voglio per poca cosa pormi a rischio di cose tanto grandi. 

   Se ad uno fosse posta davanti una quantità di bicchieri pieni, alcuni grandi ed altri piccoli, e gli  fosse detto che in uno di essi è il veleno, avrebbe per avventura ardire di berne alcuno, per piccolo  che fosse? No, per certo, ancorché gli fosse promesso di farlo re. Possiamo dunque far questo conto  per non mancare in nulla all'adempimento della volontà di Dio; perché non sappiamo se in alcuna di  queste omissioni e negligenze sta nascosto il veleno della nostra perdizione. 

   Per il contrario se uno fosse messo in un luogo, dove fossero molte casse, alcune grandi, altre  mezzane, altre piccole, e fosse avvertito che in una di esse v'ha una perla di inestimabile valore, che  sarà sua, se saprà trovarla, lascerebbe egli forse di cercare in tutte le casse? Non sarebbe grande  sciocchezza se ne lasciasse alcuna, ancorché piccola? Non dovrebbe egli fare questo conto: che so  io se sta qui la perla? E pertanto poca diligenza non voglio già perderla. Il medesimo conto  dobbiamo far noi circa l'opere di virtù e di gusto di Dio. Non voglio lasciarne nemmeno una: io non  so se sta qui la sicurezza della mia salute; per piccola che sia, non deve restar indietro, anzi per  essere piccola, la devo lasciar meno. Forse di qui dipende l'essere santo; forse questo m'importa per  acquistar grazie grandi da Dio. Dimodoché così nel molto, come nel poco, ci obbligano i giusti  giudizi di Dio a fare in tutto la sua santissima volontà e a non tralasciarla mai. 

P. EUSEBIO NIEREMBERG, S. J. 

venerdì 3 settembre 2021

LA VOLONTÀ DI DIO O STRADA REALE E BREVE PER ACQUISTAR LA PERFEZIONE

 


Degli ammirabili e giusti giudizi di Dio, per i quali conviene conformarsi alla sua Santissima  volontà. 

   Questo è negozio di grande importanza, e però voglio inculcar anche più questa conformità con la  volontà divina, riducendo a memoria alcuni giusti giudizi di Dio e rare provvidenze, con le quali  molti si son salvati e condotti a felicissimo stato, mentre meno lo pensavano. Di modo che quello di  che piangevano gli uomini, quello che giudicavano essere peggiore per loro, era quello che per loro  era migliore e quello che, se avessero avuto cervello, dovevano maggiormente desiderare. Per il  contrario succede ogni giorno, che alcuno procuri di sua propria volontà qualche cosa, che si dà ad  intendere sia per lui, ed è invece per rovinarlo, essendo a lui causa di offendere Dio, poiché la  sanità, l'onore, la roba, la vita, che più si ama, è stata per alcuni un gran male e una grande  disgrazia. Per il contrario è stato per loro gran bene l'infermità, il discredito, la povertà e la  medesima morte. 

   Questo è cosa tanto certa, che, come ho detto, i Gentili stessi la conobbero. Di Pompeo dissero  che non mancò, per essere il più fortunato e famoso nel mondo, se non morire dieci anni prima:  dimodochè la lunga vita, che egli stimava per grande bene, fu la sua maggior disgrazia e l'occasione  di tutte le sue miserie. Per il contrario altri dissero che la maggior ventura di Alessandro Magno fu  morire tanto presto; perché se fosse vissuto di più, avrebbe perduta la sua nominanza di grande,  preparandosi già contro di lui l'Occidente: dimodochè anche per i beni temporali sogliono essere  meglio per noi molte perdite dei medesimi. Insomma quello che Dio ordina, è il più sicuro. Ma  veniamo ad altri esempi più chiari. Quel principe di Siria, Naamano, quanto mal volentieri  sopportava quell'infermità che Dio gli diede pel bene dell'anima sua e per maggior sanità del suo  corpo? Con quanta impazienza? Come si ritrovò per lo sdegno, che si prese della risposta salutevole  ricevuta da Eliseo? Soffriva forte di vedersi coperto di lebbra; ma se avesse saputo il bene, che gli  doveva portare, non aveva egli, né il re di Siria ricchezza da pagarne la mercede; perché quindi gli  venne la salute dell' anima sua, con la cognizione del vero Dio, e una sanità del corpo tanto compita,  che venne a rinnovarsi tutto; di maniera che quell'infermità era quello che gli stava meglio e quello  che aveva a desiderare per l'anima e per il corpo. Quell'altro paralitico del vangelo stava  afflittissimo per il suo male, eppure questo fu una grazia incomparabile, che Dio gli fece; perché per  esso ottenne la salute dell'anima e del corpo più compita che mai. O fortunata infermità, poiché per  mezzo di essa venne ad acquistare tanto gran ventura di meritare d'udire dalla bocca stessa del  Salvatore che gli erano perdonati i peccati: per vero, neppur con duemila anni di infermità, sarebbe  stato ricompensato quel bene. E quello fu per salute non solo dell' anima, ma anche del corpo; la  quale ricevé dal medesimo Salvatore con tale gagliardia di forze, che se n'andava carico del suo  letto, come se nulla portasse. Di più la perdita della roba, che è tanto sentita dagli uomini, a quanti é  stata occasione di grandi beni! Dall'esser povera venne a Ruth non solo l'essere più ricca che l'altre  del suo stato, ma l'essere della progenie del Messia. E quanto gran ventura fu per gli Apostoli l'esser  poveri! perché, se fossero stati molto potenti, non sarebbero stati eletti da Cristo per quella dignità. 

   Che dirò di Manasse re, il quale perdé non ricchezze di qualsivoglia sorte, ma un regno intero, e  non solo il regno, ma quello che più stimano gli uomini, che è la libertà, essendo lui fatto prigione e  schiavo de' suoi capitali nemici. Sentiva e piangeva questa calamità; ma essa era quello che  solamente era bene per lui e per il quale avrebbe dovuto dar tutti i regni del mondo, perché da ciò  dipese la sua salvezza, e quegli che fu un orrendo mostro di peccati, malvagio e maledetto re, quindi  riconobbe sé stesso e si mutò in un altro uomo. La perdita dell'onore e della riputazione, la quale è  eccessivamente sentita dagli uomini, è ad essi molte volte occasione della loro salute e di altro gran  bene e anche del medesimo onore. 

Il disonore che ebbe Giuseppe, quando fu preso prigione per giovane lascivo e traditore del suo  padrone, pare che era da sentirsi grandemente: ma non v'era cosa che fosse meglio per lui, anche per  salire a grandi onori, come con quella occasione giunse ad essere riverito da tutto l'Egitto e ad  ottenere molti altri beni, che gliene risultarono. La mancanza adunque della sanità, che tanto  dispiace, la perdita della roba, che tanto si piange, la perdita della libertà, che tanto si sente, il  discredito dell'onore, che tocca tanto sul vivo, tutto è ordinato da Dio per maggior bene, cioè per  maggior sanità, per maggiori ricchezze, per maggior felicità, per maggior onore, e sopratutto per la  salvezza dell'anima. 

   Per il contrario da quello di cui più si rallegrano gli uomini, suole derivare la loro perdizione e  infelicità. Tutto glorioso stava Aman per il favore del re e per le ricchezze che possedeva, per  l'onore che tutti gli facevano; ma se l'avesse saputo ben conoscere, non vi era cosa, della quale più  dovesse piangere e temere che di quelle, perché di là gli venne la perdita di tutto, roba, onore,  comando e vita, che finì su di una forca. Chi qui non si meraviglia dei giudizi di Dio? E chi non  teme e si riempie di orrore per quello di che si rallegra la sua propria volontà? Ma che dirò di  Salomone? La grande gloria e ricchezza, dove giunse, a qual male non l'indussero? La sanità del re  Antioco, quando la godeva, che male non gli fece fare? Quanto gli sarebbe stato meglio il non  levarsi mai più dal letto in tutta la sua vita? 

   Ora se é così, come chiaramente é, che i beni di questa vita e quello che più desiderano gli  uomini, e di che maggiormente si rallegrano, suol essere quello che é peggio per loro, anche  riguardo ai beni medesimi, e per il contrario i mali temporali, che tanto sogliono essere sentiti e  deplorati, possono essere quello che é meglio per noi, anche a ottenere beni temporali, che  dobbiamo cavare se non una grande indifferenza della nostra volontà, per non volere né questo né  quello, per non ricusare più una cosa che un'altra, in quanto tocca a noi; ma lasciar fare a Dio, il  quale fa quello che è meglio, quello che vorrà di noi? Dimodochè né desideriamo i beni di questa  vita, né ricusiamo i suoi mali; poiché questi si convertono in beni maggiori, e i beni sogliono  convertirsi in mali grandi. E che seguirà da questa indifferenza, se non l'avere almeno questo  perpetuo bene, di godere gran pace di cuore e grande quiete d'animo; di essere liberi da dispiaceri e  malinconie, e sopratutto di meritare assai, con lo stare in questa maniera conformati alla divina  volontà? Le cose per sé stesse sono sì uguali per il male e per il bene, che noi non possiamo  conoscere quali ci stiano bene e quali male. Dunque in questa confusione, qual rimedio migliore  può esservi che fidarsi di chi le conosce bene e ci ama come nostro Dio, padre, sposo, fratello,  Redentore? 

   Noi dobbiamo camminare nelle cose di questo mondo come un cieco, che sta in mezzo di molti  precipizi, e teme di cadervi in qualunque parte si volti: questi avrebbe per gran ventura che uno di  buona vista lo conducesse per mano. Noi siamo ciechi, e le vie sono piene di pericoli: se Dio ci  determina la strada che per noi è sicura, perché non l'abbiamo ad aver caro, carissimo? Perché non  gli renderemo grazie? Perché ci volgeremo ad altra parte? 

P. EUSEBIO NIEREMBERG, S. J. 

venerdì 30 luglio 2021

LA VOLONTÀ DI DIO O STRADA REALE E BREVE PER ACQUISTAR LA PERFEZIONE

 


Come per buona regola di prudenza, ancorché Dio non avesse di noi provvidenza  sopranaturale, dobbiamo adempire la sua volontà. 


Sin qui abbiamo inculcato questo sovrano esercizio con ragioni di spirito e sopranaturali, e con  considerazioni per la maggior parte sante: adesso voglio che calchiamo più la mano con ragioni  naturali, dichiarando manifestamente (di modo che non abbia che rispondere la nostra ingratitudine  e mala corrispondenza verso Dio) come per legge, se non fosse altro, di prudenza, dobbiamo star  disposti a quello che vuole e gusta Dio. Ed è chiaro che da quello che si è detto, si raccoglie essere  ciò una sapienza divina ed essere fondato nella cristiana prudenza: e il contrario essere una  sciocchezza e pazzia intollerabile. 

   Poiché quale maggior pazzia che in un colpo gittare a terra tante ragioni, distruggere tanti beni  propri e togliere a sé stesso la vita? Lasciando di soddisfare alle infinite obbligazioni che una  creatura tiene al suo Creatore, lasciando di far quello che gli è di tanto onore, lasciando di gustare  un favo di miele tanto dolce, lasciando di goder tante utilità: lasciando di portar volontieri quello,  che per forza deve sopportare, lasciando di dar gusto a Gesù suo redentore: lasciando di seguitare le  sue pedate tanto piene di sicurezza: lasciando di andar dietro a tanti Santi che tutti hanno tenuto  questa strada. È chiaro che questa è un'imprudenza, una follia, una dannazione. 

   Non parlo ora della prudenza che obbliga per queste ragioni e motivi maggiori; ma lasciando da  parte tutto questo e dato un caso impossibile, che noi non avessimo obbligo alcuno a Dio, né gli  dovessimo dar gusto, né egli dal far noi la sua volontà ricevesse gusto alcuno, né avessimo che  temere nell'altra vita, con tutto ciò. per legge di prudenza naturale e di umana saggezza, dobbiamo  fare quello che gusta a Dio e star del tutto conformati a quello che egli faccia, se non fosse altro, per  vivere e passar contento questa vita temporale. A persuader questo, che in quanto a me è cosa  chiara, si deve supporre che molti mali sono causa e occasioni di grandi beni, e per il contrario molti  beni di questa vita sono occasione di mali molto maggiori. Di modo che accade bene spesso che  quello di che uno si rallegra sia la sua rovina, e quello di che uno si lamenta sia il suo totale aiuto. 

   A quanti la roba che acquistarono, o il tesoro che ritrovarono, è stato occasione che loro fosse  tolta la vita! A quanti l'infermità, nella quale caddero, giovò per liberarsi dalle occasioni nelle quali  si sarebbero perduti se fossero stati sani! Di modo che non sa uno se l'infermità, nella quale incorre,  o la povertà che patisce. gli è male pernicioso; né se la salute che ha, o le ricchezze che gode, gli  tornino in bene; non sa se quelle gli servono per gran beni, né se queste gli servano per grandi mali. 

   Supposto questo, in qual giudizio e in qual legge di prudenza si trova che uno si alteri di alcune  cose più che di altre? Che rifiuti quelle e che desideri queste? Che pianga quelle e che si rallegri di  queste, se non sa che dietro a quelle ne seguiranno beni, e dietro a queste ne verranno mali? Non  sappiamo quello che sta dentro delle cose, e che è in esse nascosto; e però dobbiamo rimaner  indifferenti per quello che verrà e conformati a quello che succederà, senza timore, né desiderio  delle cose di questa vita; e questa è ragione e prudenza naturale. Il che io dichiaro con questi  esempi: se uno entrasse in una camera dove fossero varie casse, alcune piene di oro, altre di  piombo, altre di fango, ma in tal maniera che dal di fuori non si potessero distinguere, e gli fosse  dato di scegliere quella che egli volesse, certo che starebbe indifferente nello scegliere, perché non  avrebbe ragione, né differenza più di una che dell'altra, né potrebbe egli sapere quello che stesse  rinchiuso in quella che scegliesse. Di modo che più si contenterebbe se quegli, che pose quivi le  casse, gliene determinasse una, che se egli la scegliesse di sua mano, perché alla fine se gli riuscisse  male, non darebbe a sé la colpa, e potrebbe dall' altro canto presumere che quell'altro, se gli volesse  bene e sapesse meglio il tutto, non lo ingannerebbe. 

Nella medesima maniera, perché noi non sappiamo quello che portano seco le cose di questa vita,  dobbiamo stare indifferenti e conformati a pigliare tra esse più volontieri quelle che ci verranno e  saranno inviate da Dio. Parimenti se uno si ponesse a sedere a una mensa di varie vivande, la metà  delle quali fossero avvelenate, benché saporite, e l'altra metà fossero molto salutevoli, ma in modo  che non si potessero distinguere, qual prudenza avrebbe egli se cacciasse la mano nel piatto che gli  paresse più buono? Non sarebbe questa una temerità e un'imprudenza grande? Piuttosto dovrebbe  mangiare di quel piatto che la persona che ha fatto l'apparecchio, essendo di buona volontà, gli  porgesse. 

   Come dunque può essere prudenza l'aver uno più gusto delle ricchezze che della povertà, della  sanità più dell'infermità, se non sa che in queste o in quelle sta la morte o la vita? Non sarà meglio  pigliar quello che ci verrà dalle mani di Dio, che sa quello che si ritrova in ciascuna cosa, e ha tanto  buon animo verso le sue creature? Questo pare a me che sia tanto chiaro da conoscersi col solo lume  naturale. E però questa ragione fece tanta forza a molti gentili, che per essa persuadevano la  tranquillità d'animo e la conformità colla quale doveva uno stare in tutti i successi, ancorché non ci  fosse eternità, né in questo si desse gusto a Dio. 

   Un'altra ragione naturale e anche più prudente e nobile della passata, convinse altri intorno a  questa medesima massima: e questa é che nessuno deve affannarsi per quello che non gli tocca, né  sta in suo potere e libertà, poiché nessuno deve rendere conto se Don di sé e del buon uso del suo  libero arbitrio. Il succeder le cose in questa o in quell'altra maniera, che uno sia ingiuriato od  onorato di molte forze o poche, che gli succeda questa disgrazia o quella ventura, non sta nelle  nostre mani, né dipende dalla nostra libertà, e però non appartengono a noi questi successi. Per cui  non deve uno rattristarsi, né rallegrarsi di essi più che se fossero cose straniere. Ma di quello che sta  in sua mano, di questo sì che deve 1'uomo pigliarsi pensiero, e solamente queste sono le opere  buone o cattive, perché questo solo é quello che ad uno tocca, l'operar bene o male: questo é proprio  dell'uomo, a cui deve dispiacere di operar male e premere di operar bene. Del resto non si deve  pigliar alcuna sollecitudine: ma deve stare indifferente e conformato a quello che avverrà. 

   Aggiungevano altri un'altra ragione molto prudente: che di due mali si deve scegliere il minore, e  che maggior male era l'andar angustiandosi con timori, desiderii, sollecitudini, che non il patire i  medesimi mali che si temono. Onde giudicavano essere più prudenza e casa più giusta lo stare  ugualmente ben conformati a quello che succederà, che andar sempre carichi di paure e di  sollecitudini. Dicevano di più che tutte queste sollecitudini erano vane; poiché dalla nostra tristezza  e sentimento non riceve rimedio 1'infermità che ci assale, né la povertà che ci avviene, né la  disgrazia che ci succede; e però, per tutte queste ragioni naturali, dobbiamo star tutti molto quieti e  conformati con tutto quello che Dio ci manda. Tutta questa natural prudenza é per le cose, che non  stanno in nostra mano, ma che noi dobbiamo necessariamente soffrire. Perché, per quelle che stanno  in nostra mano, ci sono altre ragioni naturali, per le quali, secondo la prudenza morale e anche per  la comodità della vita, dobbiamo eleggere quelle, nelle quali più ci conformiamo con la volontà  divina, non in qualsivoglia modo, ma con le difficoltà della dottrina evangelica, la quale, per essere  dottrina divina, non lascia di essere molto conforme alla ragione e alla prudenza naturale. Quale é la  volontà di Dio in quello che egli vuole che noi facciamo? È chiaro che é la imitazione di Gesù  Cristo, il seguir la sua povertà, la sua nudità, il disprezzo del mondo, l'astinenza dai piaceri dunque  queste cose sono tali e tanto fondate nella ragione, che solo per legge di prudenza si devono  adempire, ancorché non vi fosse altra vita che questa. 

   E però i medesimi filosofi, i quali negavano essere l'anima immortale, come gli stoici, e altri che  negavano aver Dio provvidenza degli uomini, con la forza della ragione che loro dettava il lume  della sola natura, insegnavano, e alcuni l'esercitavano, che per passar uno questa vita contento,  doveva essere povero, disprezzare i diletti, fuggire il mondo. E la loro ragione era molto buona e  prudente, perché dicevano: Chi non fa così, sta ripieno di paure, timori, ansie, sollecitudini, con gli  affetti disordinati ed esposto ad altri mali molto maggiori, che seco in gran copia possono portare i  beni del mondo. Le ricchezze sono ripiene di pericoli, timori e sollecitudini nell' acquistarle, nel  distribuirle, nel conservarle; i diletti e gusti cagionano infermità e arrivano a privar del giudizio e dell'intero uso della ragione, e portano seco non minori pericoli gli onori del mondo, causa di grandi  inquietudini, sollecitudini, invidie ed odii. Di modo che per ogni legge di prudenza uno deve fuggire  tutto questo. Il che è conformarsi con la dottrina del nostro Salvatore e con la volontà di Dio.  Aggiungevano che queste erano le regole di vivere: non voler niente del mondo, contentarsi del  poco, cedere agli altri. E per legge di prudenza si dovrebbe far così, anche per vivere temporalmente  con la propria quiete e in pace con gli altri e per essere ben voluto da tutti. In ordine a questo  giudicavano che era prudenza il dare a sé stesso disgusto in molte cose e reprimere gli affetti  disordinati, il che in sostanza non è altro che un continuo esercizio di mortificazione. È cosa  meravigliosa quello che per questo operò Epicuro. Stava egli lottando e affaticandosi con ogni  sforzo per vincere i suoi affetti, e in una infermità che ebbe di acutissimi dolori, si stava facendo  una gran violenza per conformarsi con quel travaglio: il che, mancandogli l'unzione dello Spirito  Santo, riusciva molto difficile e di poco frutto. Ma alfine, perché era convinto che per legge di  prudenza e d'ogni buona ragione si doveva far così, per acquistar la pace del cuore, la quale giudicò  sommo diletto e unica felicita dell'uomo, si faceva in ciò violenza. Dunque noi altri illuminati dalla  fede, aiutati dalla grazia, obbligati con la morte di Gesù, invitati con eterni premi, animati con tanti  esempi, che dobbiamo fare? Facciamo almeno per prudenza quello che dobbiamo per infinite  obbligazioni. Facciamo almeno per cortesia (voglio parlar così) quello che si deve per ogni ragione.  Vergogniamoci perché, obbligati per la passione di Gesù, non arriviamo a quello che i gentili fecero  per sola prudenza. 

   Da tutto ciò dobbiamo cavare una regola di vivere meravigliosa e di natural prudenza, per la quale  si deve sapere che rispetto a ciascuno ci sono due sorta di vicende. Alcune che stanno in mano  altrui, altre che stanno in mano propria. Quelle sono la prosperità, la buona opinione nel mondo, la  salute, l'infermità, la lunga vita, le guerre, i contagi e altre cose di tal natura. Quelle che stanno in  propria mano, sono le opere di ciascuno. Dunque la regola è che solo di queste cose che sono in  propria mano, cioè delle sue opere, deve uno essere sollecito a desiderare e procurare che siano  buone. Ma delle cose che non sono in propria mano, non deve l'uomo pigliar sollecitudine, non  desiderarle, non temerle, non rattristarsene, non rallegrarsene, ma star con l'animo ugualmente  disposto a tutto e conformato con quello che succederà: l'uno perché non può con la sua tristezza  impedirle, anzi è per affliggersene maggiormente, senza profitto; l'altro perché non lo toccano,  perché non stanno in sua mano; e finalmente perché non sa quello che portano seco, né se siano per  recargli tristezza, come perniciose, o allegrezza, come fruttuose. 

P. EUSEBIO NIEREMBERG, S. J.