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domenica 21 marzo 2021

Il Crocifisso di Cevo - AVEVA RAGIONE DON LUIGI VILLA!

 


Questo crocifisso, fatto esporre dalla Gerarchia bresciana, il 20 settembre 1998, in un campo sportivo di Brescia, era il simbolo della “beatificazione” e della “canonizzazione” di Paolo VI che Giovanni Paolo II, in quell’occasione, aveva presentato come date per certe e scontate.


PAOLO VI 

a vent’anni dalla morte (1978 - 1998)

***

SITUAZIONE DELLA CHIESA ALLA MORTE DI PAOLO VI 

Dopo questo breve squarcio d’assieme, a mo’ di cornice, faccio punto, per rifarmi ancora alle parole di Giovanni Paolo II, pronunciate a Brescia la domenica 20 settembre 1998 e che abbiamo riportate all’inizio dell’articolo. Ma mi rifaccio col ripetere, prima, le parole pronunciate dallo stesso Paolo VI all’udienza del 31 dicembre 1975, a chiusura dell’Anno Santo, in cui disse: «… Noi abbiamo esortato tutto il mondo a promuovere la “CIVILTÀ’ DELL’AMORE”, ciò che costituisce tutto un programma. Sì, così deve essere… il princìpio della nuova ora di grazia e di buona volontà che il calendario della storia apre davanti a noi: LA CIVILTÀ’ DELL’AMORE!». Che voleva dire?.. Lo spiegò Lui stesso: «Noi vogliamo aprire alla vita degli uomini, in questa congiuntura storica, le vie di una civiltà e di un benessere migliore, animato dall’amore. E per civilizzazione, Noi intendiamo quell’assieme di condizioni morali, civili e materiali, che permettono alla vita umana delle migliori possibilità di esistenza, una pienezza ragionevole, un felice destino eterno». 

1) Dunque, per Paolo VI, il fine da perseguire è quello della cultura e del “benessere”, in questo mondo, e la vita eterna nell’altra; come aveva già scritto nella “Populorum Progressio”, e come si scrisse, in Concilio, sulla “Gaudium et Spes”. 2) Il “mezzo” per raggiungervi è l’Amore, al posto dell’odio, delle ingiustizie, della guerra, della violenza che, “ancora oggi”, agitano e rattristano l’umanità. 3) Il fondamento di questo bel progetto di “una umanità civilizzata, felice”, è il CULTO DELL’UOMO. Paolo VI, infatti, lo proclama nella parte finale della Sua allocuzione: «Facciamo Noi un sogno quando parliamo della Civiltà dell’Amore? No! Noi non sogniamo! Se essi sono autentici (?), se essi sono umani, gli ideali non sono dei sogni; essi sono dei doveri, specialmente per noi cristiani. Ed essi sono tanto più urgenti e fascinosi quanto il brontolìo dell’uragano scuote più a lungo gli orizzonti della nostra storia. Essi sono una forza, una speranza. IL CULTO – e si tratta bene di questo, ora! – CHE NOI ABBIAMO PER L’UOMO, ci conduce a quello, quando noi ripensiamo a questa celebre frase di un Padre della Chiesa, il grande Sant’Ireneo: “L’uomo vivente è la gloria di Dio”»3 . Ora, per noi, questa allocuzione di Paolo VI sente di una visione teilhardiana, ma è anche il Suo stile, romantico, nostalgico e progressista; ed anche il Suo pensiero utopico e messianico; oltre che un Suo messaggio immutato fin dall’inizio del Suo discorso: «Cercate la felicità in questo mondo, attraverso le dolcezze dell’amore universale che il culto dell’uomo ispira, nella paternità di un Dio di cui c’è tutta la gloria»! Comunque, Sant’Ireneo non ha mai detto né scritto che la gloria di Dio costituisce in una buona vita tranquilla, nel benessere, nella cultura, nell’amore del mondo. Quella affermazione, quindi, di Paolo VI, a riguardo di Sant’Ireneo, è una autentica falsificazione del testo. Sant’Ireneo, infatti, ha detto, sì: “Gloria Dei vivens homo”, e cioè che la gloria di Dio è l’uomo vivente, ma questa Sua frase, così, non è completa, perché essa continua dicendo: “ET VITA HOMINIS VISIO DEI”!.. la vita dell’uomo è la “Visione di Dio”! Il dire di Paolo VI, quindi, olet di materialismo, di religione dell’uomo e della terra. Egli, cioè, invoca Dio, ma solo per farLo garante dell’errore che Egli stava dicendo! Ma allora, cos’è questa Sua “Civiltà dell’Amore?”.. Qui, mi basta ricordare quello che scrisse il Suo maggior amico, Jean Guitton, nei suoi “Dialoghi”: «Io, prima di aver ascoltato Paolo VI, mai avevo sentito parlare di MONDO con un tale accento d’ammirazione, di fervore» (p. 297). Non sarà fuori luogo, perciò, che richiamiamo, qui, anche quello che scrisse l’evangelista San Giovanni: «NON AMATE IL MONDO, NÉ CIO CHE SI TROVA NEL MONDO. SE QUALCUNO AMA IL MONDO, L’AMORE DEL PADRE NON E IN LUI» (1 Jo. 2, 15). Leggete la “Volgata”4 e comprenderete la differenza che c’è tra “amore” e “amore”: “Si quis diligit mundum, non est caritas Patris in eo” (= Se qualcuno ama il mondo, in lui non c’è l’amore del Padre). Anche San Pio X, nella Sua “Lettre sur le Sillon” (N. 11), ha scritto: «No, Venerabili Fratelli… non si edifica la città se non l’edifica Dio… No, la civiltà non è più da inventare, né la città nuova è da edificare sulle nuvole. Essa c’è stata; essa c’è: è la civiltà cristiana, è la civiltà cattolica. Non c’è altro da fare che instaurarla e di restaurarla di continuo sui suoi fondamenti naturali e divini, contro gli attacchi sempre rinascenti dell’utopia malsana, della rivolta e dell’empietà: OMNIS INSTAURARE IN CHRISTO!». Che dire, allora, di quel parlare di Paolo VI quando accarezza la sua utopia pacifista, umanista, giudeo-massoni ca?.. Si legga anche la Sua “Esortazione Apostolica: Evangelii Nuntiandi” del 18 dicembre 1975; un documento di 22 pagine, con 135 “note”, comprendenti 127 citazioni del N. T., di cui 46 prese dal Vangelo, 1 dall’A. T., 35 dagli “Atti” del Vaticano II, e 6 di altri Concilii, 12 dai Padri della Chiesa, 4 diversi…; un documento, quindi, di Magistero autentico, che congiunge Rivelazione biblica e insegnamenti conciliari. Ebbene, io qui, cito un testo di Gesù quando disse ai suoi Apostoli e ai discepoli: «Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra. Andate, dunque, e insegnate a tutte le Nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a praticare tutto quello che Io vi ho comandato. Ed ecco che IO sono con voi fino alla fine dei tempi» (28, 18-26). E in S. Marco: «Andate per il mondo intero a predicare il Vangelo a tutte le creature. Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo; chi non crederà, sarà condannato» (16, 15-16). Ora, di questi due testi integri di Gesù, quali li leggiamo nel Santo Vangelo, non v’è alcuna traccia nell’Esortazione sopra indicata, di Paolo VI, se non quei tre brani che io ho sottolineato. Quindi, la mutilazione del testo di S. Marco è fragrante e significativa; come pure le omissioni nel testo di S. Matteo. Una vera estrapolazione da inganno! Un vero tradimento della Fede! Infatti, perché quel Suo modo diverso di annunciare la “Buona Novella” al Mondo moderno? Perché quel Suo sottacere l’obbligo che gli uomini hanno di credere?.. l’obbligo del Battesimo, sotto minaccia di dannazione?.. l’obbligo della Morale insegnata da Cristo? Ma allora, per Paolo VI non valeva più la formula dogmatica: “Extra Ecclesiam nulla salus”? (“Fuori della Chiesa non c’è salvezza?”5 )… Ma allora non è più necessario il Battesimo per salvarsi, né l’Eucarestia per conoscere e raggiungere la vita eterna?.. Ma allora non sono più parti integranti del “depositum Fedei”?.. Era così che Paolo VI voleva che si predicasse la “Buona Novella”, quella cioè, che condurrebbe alla Sua “Civiltà dell’Amore”? Povera Chiesa se così fosse! perché fare questo sarebbe un passaggio formale della religione cattolica a un super-protestantesimo, a un modernismo integrale, a una religione di democrazia totale! Ma fare questo, sarebbe proprio un adottare quel “CULTO DELL’UOMO” che noi abbiamo già denunciato del nostro libro: “Paolo VI... beato?”. Comunque, la PAROLA di Gesù è ben altra cosa: «Vai indietro, Satana! Sta scritto: ADORERAI IL SIGNORE DIO TUO E LUI SOLO SERVIRAI!» (Mt. 4, 10). Che cos’è, allora, quel vaneggiare di Paolo VI sulla Sua fantastica “CIVILTÀ DELL’AMORE?”. Si direbbe che Egli misconoscesse perfino l’Apocalisse di San Giovanni evangelista, in cui si parla dei tremendi castighi di Dio, di un Suo “redde rationem” finale a tutta l’umanità che Lo ha abbandonato, negato, rinnegato, vituperato, dileggiato, messo al bando anche in tutta la vita civile... Non è, certo, serena visione di una avvenuta “Civiltà dell’Amore”! Anche se avesse tenuto presente quest’altra frase del Signore: «... ma il Figlio dell’uomo, alla Sua venuta, troverà fede sulla terra?» (Lc. 18, 8), non avrebbe sognato quell’avvenire di bengodi universale per tutti, in un ricreato “paradiso terrestre”!

E poi, come poter parlare di completa “Civiltà dell’Amore”, quando già Gesù Cristo aveva detto che chi Lo segue non può “servire due padroni”, perché o si serve l’uno o si serve l’altro! E doveva pur sapere che chi serve Gesù, il vero unico Padrone, è sicuramente perseguitato dall’altro. «Se il mondo vi odia, sappiate che ha già odiato Me prima di voi». «Se foste del mondo, il mondo amerebbe quel che è suo; ma poiché non siete del mondo, ma IO vi ho scelti di mezzo al mondo, per questo il mondo vi odia»... «Non c’è servo più grande del suo padrone». «Se hanno perseguitato ME, perseguiteranno anche voi» (Jo. 15, 18-25). E potrei continuare, dimostrando che questo scandaloso connubio del tanto predicato “Vogliamoci bene!”, in vista della futura “Civiltà dell’Amore”, è e sarà tutt’altro che reale. Infatti, Gesù dice ancora «Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno»... «Vi metteranno addosso le mani e vi perseguiteranno, traducendovi nelle sinagoghe e nelle prigioni... a motivo del mio nome»... «e sarete traditi persino dai genitori e dai fratelli, da parenti ed amici, e ne metteranno a morte tra di voi; e sarete in odio a tutti, a motivo del mio nome» (Lc. 21, 10-19). Venti secoli di storia lo stanno a testimoniare! Per cui si tenga sempre presente il detto del profeta Geremia: “MALEDICTUS HOMO QUI CONFIDIT IN HOMINE” (= MALEDETTO L’UOMO CHE PONE LA SUA CONFIDENZA NELL’UOMO!). (Jer. 17, 5). “Chiesa viva” *** Aprile 2014

del sac. dott. Luigi Villa

venerdì 19 marzo 2021

Il Crocifisso di Cevo - AVEVA RAGIONE DON LUIGI VILLA!

 


Questo crocifisso, fatto esporre dalla Gerarchia bresciana, il 20 settembre 1998, in un campo sportivo di Brescia, era il simbolo della “beatificazione” e della “canonizzazione” di Paolo VI che Giovanni Paolo II, in quell’occasione, aveva presentato come date per certe e scontate.


PAOLO VI 

 a vent’anni dalla morte (1978 - 1998)

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I “FATTI” SONO “FATTI”

Le “parole”, invece, sono “parole”, più o meno sentimentali, più o meno vuote di reale contenuto. Per questo, sarà opportuno che diamo, qui, uno sguardo, sia pure in sintesi, sull’inizio del Pontificato di Paolo VI.

Mi servirò, ad hoc, di alcune pagine di Paul Hoffmann, prese dal suo libro: “O Vatican!”1 , senza cambiarne una linea e senza permettermi alcuna mia riflessione. L’Autore, dunque, scrive che Paolo VI introdusse in Vaticano una truppa di consiglieri, di collaboratori e di parassiti – in gran parte “laici” – senza una precisa funzione; una truppa che fu ben presto battezzata: “mafia milanese”, (anche se non tutti erano milanesi!). Un personaggio di questi era un siciliano trapiantato: Michele Sindona, del quale la Polizia Italiana scoperse, poi, che aveva legami con l’autentica Mafia, e che trascinò ben presto il Vaticano in una avventura finanziaria disastrosa, per cui l’immagine della Santa Sede ne usciva appannata2 . Un altro di quei personaggi era il Prelato americano Paul C. Marcinkus, appartenente anch’egli all’entourage di Paolo VI. Al centro di quella troupe, però, c’era il Suo segretario personale, mons. Pasquale Macchi (che, nella Curia Romana, si finirà col chiamarlo: “la madre Pasqualina di Montini”, anche dopo essere stato insignito, nel 1964, del titolo di “Monsignore”). Appassionato d’arte moderna, come lo era pure Montini, collezionava opere di pittura e di scultura contemporanea. Sarà, poi, il violinista Ingres che aprirà all’arcivescovo Montini un nuovo campo di artisti, di scrittori e di attori, che allargarono, al certo, l’orizzonte intellettuale e umano di Montini, ma ne approfondirono vieppiù anche il solco liberale del suo animo, allargandosi con le frequentazione e l’amicizia con la società industriale milanese, specie con banchieri e finanzieri, dai quali ebbe non pochi contributi in danaro, per i progetti e le opere caritative nella Sua Diocesi. Contatti, che lo resero più “moderno”, anche nei metodi di gestione, sì da apportare, poi, da Papa, la “modernità” in Vaticano.

Naturalmente, mons. Macchi si mostrò subito il Suo mecenate dell’arte moderna, come già lo era a Milano, circondandosi persino di agenti che percorrevano, per lui, i mercati europei e americani per acquistare appunto molte opere d’arte (o da Lui presunte come tali!). E per meglio riuscire nell’impresa, si assicurarono il concorso di un mecenate in America, il noto Lawrence Fleischmann, direttore della “Kennedy Galleries”, a New York; e poi fondarono persino una organizzazione, gli “Amis de l’Art Américain en Religion”, proprio per garantire gli acquisti. Dopo di chè, organizzarono due Seminari, a Roma, per discutere sulla strategia da usare negli acquisti, ma anche perché servissero a porre i fondamenti per una grande esposizione d’opere d’arte, provenienti dalle collezioni vaticane; il che avvenne, prima, alla Metropolitana di New York, poi a Chicago e, terzo, a San Francisco, nel 1983. Ma già nel 1973, mons. Macchi e i suoi collaboratori potevano presentare, per il 10.mo anniversario dell’intronizzazione di Paolo VI, parecchi dei tesori che essi avevano raccolti. Vi occorsero ben tre piani del Palazzo Apostolico, più altre sale adiacenti. Furono impegnati, cioè, anche gli appartamenti Borgia – già abitati da Alessandro VI e dalla sua famiglia! – per mettervi tele e opere grafiche del XX secolo. Sui muri furono tese delle grosse tele, per ricreare l’atmosfera d’un museo moderno, offrendo, però, uno strano contrasto con gli affreschi del Pinturicchio, che ornano i plafoni e le ogive! L’esposizione, in totale, occupò cinquanta sale, in cui vi erano esposte, tra le altre, tele di Ben Shahn, di Chagall, di Kokoschka; ceramiche di Picasso e disegni di Klee e di Kandinsky. In totale, le opere esposte, quasi tutte figurative, erano più di seicento. L’arte astratta vi era pochissimo rappresentata. Ora, mentre Paolo VI, nel suo discorso d’inaugurazione, dichiarava che l’arte moderna aveva magnificamente fatto la prova della sua capacità ad esprimere i valori cristiani, il critici d’arte italiana, invece, scrissero che la nuova collezione pontificia era una raccolta alla peggio, e che v’erano troppe opere di secondo piano e che non c’era alcunché di realmente rimarchevole! Oggi, quella Collezione d’Arte religiosa è ancora esposta, in permanenza, nei musei vaticani, quasi del tutto ignorata, comunque, dai visitatori! A quell’epoca, mons. Macchi, sulla cinquantina d’anni, era già più influente dello stesso arcivescovo Benelli, e su Paolo VI teneva un atteggiamento di protettore; sembrava, cioè, che Lui fosse indispensabile per Paolo VI, il cui umore era divenuto capriccioso – come si diceva in Vaticano! – anche perché Paolo VI soffriva, oltre che di artrite, anche di depressione e d’insonnia. Mons. Macchi, per questo, lo sforzava a nutrirsi e a bere un po’ di più, come pure lo richiamava perché sorridesse quando si mostrava in pubblico, e lo invitava a riposarsi piuttosto che stare a scrivere lunghe lettere agli amici. Ormai, Paolo VI era ammalato da lungo tempo e la morte lo sorprese, quasi all’improvviso, nel Palazzo di Castel Gandolfo, nell’agosto 1978. Ma quando si aprì il Suo “Testamento”, nessuno fece meraviglie al sapere che Paolo VI aveva nominato il “suo caro don Pasquale Macchi” come “esecutore testamentario” autorizzandolo a distribuire un certo numero di “souvenir”, che appartenevano al Papa, a delle “persone care”, non precisate. Ma anche mons. Macchi doveva aver collezionato non pochi beni in quei quindici anni passati in Vaticano! Difatti, lasciando il Palazzo Apostolico, si portò via “plusieurs camions d’affaires personelles”!.. “Chiesa viva” *** Aprile 2014 

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del sac. dott. Luigi Villa


martedì 16 marzo 2021

Il Crocifisso di Cevo - AVEVA RAGIONE DON LUIGI VILLA!

 


Questo crocifisso, fatto esporre dalla Gerarchia bresciana, il 20 settembre 1998, in un campo sportivo di Brescia, era il simbolo della “beatificazione” e della “canonizzazione” di Paolo VI che Giovanni Paolo II, in quell’occasione, aveva presentato come date per certe e scontate.


PAOLO VI 

 a vent’anni dalla morte (1978 - 1998)

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Durante la solenne “Concelebrazione Eucaristica”, presieduta da Giovanni Paolo II domenica mattina, 20 settembre 1998, a Brescia, nello stadio, per la “beatificazione” di Giuseppe Tovini e per la conclusione delle celebrazioni centenarie della nascita di Paolo VI, i punti nodali della Sua omelia, a riguardo di Paolo VI, si possono ridurre a questi: «(…) Pietro, mi ami? Possiamo dire che la vita di Paolo VI sia stata tutta una risposta a questa domanda di Cristo: una grande prova di amore a Dio, alla Chiesa ed agli uomini». «(…) Volle essere servo di una Chiesa evangelizzatrice dei poveri, chiamata con ogni persona di buona volontà a costruire quella “Civiltà dell’Amore”, nella quale non vanno agli ultimi soltanto le briciole del progresso economico e civile, ma dove devono regnare la giustizia e la solidarietà».  

Dunque, è questo il senso delle parole di Giovanni Paolo II a riguardo di Paolo VI. Parole che furono come un pane girico per una Sua futura e certa “beatificazione” e “canonizzazione”. Ma questo, però, il Papa lo disse prima ancora che sia avvenuto l’esame della dottrina di Paolo VI e del Suo Pontificato, prima che sia stato espresso un giudizio sulla riuscita o non del Vaticano II, e prima che Paolo VI abbia fatto i “miracoli” prescritti, e ancora prima che venisse provata la Sua presunta “santità”!.. Insomma, un vaticinio di “beatificazione” che è stato senz’altro tutto il rovescio da quello che il sottoscritto ha scritto nel suo libro: “Paolo VI… beato?”. Perciò, quanto detto da Giovanni Paolo II, a Brescia, in quella occasione, mi suggerisce alcune riflessioni che qui sottopongo, sul tema: “Paolo VI è da beatificare”? Inizio col sottolineare che la “notificazione” che aprì l’istanza diocesana del “processo di beatificazione” di Paolo VI, ebbe luogo a Brescia il 13 maggio 1992. Fu una data scelta o casuale? Se scelta, non poteva essere più sbagliata! Non fu, forse, Paolo VI quell’ostinato profanatore e avversario delle “Apparizioni” Mariane avvenute a Fatima, e delle “domande” poste dalla Vergine, per la Quale Egli non ebbe mai né un pensiero piacente, né una parola serena, né una preghiera umile e devota? Anche quando Paolo VI si recò a Fatima, il 13 maggio 1967, in occasione del 50.mo delle “Apparizioni”, parve che quell’andata avesse tutto il sapore di una sfida a Colei che chiedeva la “Consacrazione al Suo Cuore Immacolato”, condizione “sine qua non” per la conversione della Russia! Infatti, non si può dimenticare che l’allora Mons. Montini, “Sostituto” della Segreteria di Stato di Pio XII, che Egli tradiva, spudoratamente, lavorando sotto banco con Mosca e suoi satelliti, mentre Pio XII lavorava, proprio al contrario, per fare argine allo straripare dell’immenso male morale e materiale che il marxismo-comunismo recava a tutto il mondo cristiano e non, mentre mons. Montini trattava segretamente con Mosca, per allacciare contatti e collaborazioni, che saranno, poi, divenuto Egli Papa, la Sua infausta e diabolica “Ost-politik”! La scelta del 13 maggio, quindi, per l’apertura del “processo di beatificazione” non poteva non richiamare quel lavoro “pro e contro” a quel comunismo già marchiato da Pio XI come “intrinsecamente perverso”, e, dalla Madonna di Fatima, come un “Satana” che avrebbe “diffuso nel mondo i suoi errori”! Una brutta partenza, perciò, quel 13 maggio 1992, per quell’apertura del “processo di beatificazione” che poi, dopo un anno, veniva portato a Roma, diventando, così, “causa romana”, e addirittura con quel termine sbalorditivo: “IL PROFETA DELLA “CIVILTÀ’ DELL’AMORE!”. 

Un “profeta”, quindi, da “canonizzare” al più presto possibile! Ma comunque, questo “processo”, che fu aperto a Roma pure il 13 maggio dell’anno successivo, 1993, dovrà pur esaminare e la “pratica eroica delle virtù” e la “reputazione di santità” della Sua vita; e questo mediante un Tribunale che non sia “compiacente”, bensì rigoroso! Una causa di “beatificazione”, infatti, è una dichiarazione ufficiale della Chiesa che proclama una “persona defunta” già “beata nei Cieli”; una prima tappa, questa, sulla ancora lunga strada che conduce fino alla proclamazione di “santità”; una proclamazione che, dal secolo XII, è monopolio solo dei Papi. Ora, una procedura ad hoc esige che il candidato alla santità sia processato da giudici ecclesiastici, compito che appartiene alla Congregazione per la causa dei Santi. Un processo che è lungo e difficile. Un funzionario di questa Congregazione, detto popolarmente “avvocato del diavolo”, deve scrutare la vita e gli scritti del candidato per spulciarvi tutti quegli elementi che potessero opporsi alla sua canonizzazione. Anche quando si tratta di un Capo della Chiesa cattolica romana, benché lo si chiami “Santo Padre”, quel titolo, tuttavia, non è affatto nel senso dottrinale, né si accompagna necessariamente al suo ufficio così elevato. Tutta la storia dei Papi lo sta ad attestare. Sono ben pochi, infatti, i Papi santificati! L’ultimo Papa a salire sugli altari fu S. Pio X (103-1914).

Ora, nel quadro della procedura necessaria per stabilire “l’eroicità delle virtù”, c’è un preliminare indispensabile: le “testimonianze” di chi l’ha conosciuto e la verifica di un certo numero di “miracoli” post mortem, attribuiti all’intercessione celeste del candidato. E questa é una procedura legale, definita, che bisogna seguire. Ne andrebbe dell’onore della Chiesa! Derogare da essa, infatti, vorrebbe dire aprire la via a tanti abusi! Ma sarà così anche per Paolo VI? Perché la fama di virtù in Giovanni Battista Montini non fu mai ineccepibile, anzi!.. e questo la “Congregazione per le cause dei Santi” non può ignorarlo, e il Tribunale per la Sua “beatificazione” lo deve conoscere! Certo, si può tollerare che si faccia qualche elogio di Lui – ormai defunto! – in certe circostanze ufficiali, purché non si mentisca! Ma prevenire un “giudizio di Tribunale”, pronunciandosi per una Sua sicura beatificazione, è certamente un atto di imprudenza, che può turbare, anche per lungo tempo, l’esercizio di chi attende a una severa giusta causa. Ed è ancora più sconveniente che la si presenti ai fedeli come cosa già fatta, perché sarebbe come stornare i fedeli dalla giusta nozione della verità divina, della vera santità degli eletti e della stessa virtù, senza la quale non si può piacere a Dio! “Chiesa viva” *** Aprile 2014

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del sac. dott. Luigi Villa


lunedì 15 marzo 2021

Il Crocifisso di Cevo - AVEVA RAGIONE DON LUIGI VILLA!

 





Questo crocifisso, fatto esporre dalla Gerarchia bresciana, il 20 settembre 1998, in un campo sportivo di Brescia, era il simbolo della “beatificazione” e della “canonizzazione” di Paolo VI che Giovanni Paolo II, in quell’occasione, aveva presentato come date per certe e scontate.


AVEVA RAGIONE DON LUIGI VILLA!

Tutti i “bresciani”, partecipanti alla funzione di Giovanni Paolo II allo “stadio Rigamonti” di Brescia, la Domenica 20 settembre 1998, si sono trovati di fronte a un enorme Crocifisso, a testa in giù, che Alberto Bobbio, su “Famiglia (non) cristiana” del 27 settembre 1998, descrive così: “un Cristo a strapiombo. Sorge da un fuoco, s’inarca verso il cielo. Non sta ritto. E ripiomba di sotto...”.

Insomma, un Cristo che “ripiomba di sotto” è l’atto contrario delle parole di San Giovanni evangelista - che era stato presente sul Calvario! - scrivendo così: “Gesù disse: “Tutto è compiuto!”. Poi, chinato il capo, rese lo spirito!” (Giov. 19, 30). Quindi, quel Cristo policromo, scandaloso in quell’atto di caduta sull’intera platea, credo non abbia lasciato indifferente alcuno dei presenti al rito religioso, perché quel Cristo, che si tuffava su di loro, non poteva essere il Cristo redentore, vero Dio e vero Uomo, inchinato, sì, sull’uomo peccatore, ma che mai avrebbe preso quella posa da campione di tuffo, LUI, VIA, VERITÀ E VITA, che aveva pure detto: «... ed IO, quando sarò innalzato, attirerò tutto a ME!» (Giov. 12, 32).

Ma allora, perché la Gerarchia bresciana si è permessa di esporre - sia pure in un campo sportivo - ai fedeli bresciani quel Crocifisso in atto di tuffarsi sulla folla, pur sapendo che la CROCE, per noi cristiani, è il “segno” più sacro della nostra fede in quel Cristo che è morto sulla CROCE per i nostri peccati, e che è, quindi, anche la nostra unica vera bandiera, e che la Chiesa ci ha sempre fatto rappresentare, per due mila anni, non in quella orrida posizione, ma bensì nel Suo sereno divino abbandono al Padre?.. “Padre, nelle Tue mani affido il mio spirito!”? (Lc. 23, 46).

O CRUX, AVE SPES UNICA!



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