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martedì 14 dicembre 2021

Santi Martiri del I – II e III Secolo

 


Dalla Gerarchia Cardinalizia di  Carlo Bartolomeo Piazza e dalle Rivelazioni Private della mistica 

 Maria Valtorta 


Deposizione di Sant’Agnese.  


Sempre il 20-1-44 alle 23,30, da scriversi dopo la narrazione della  visione. 

Dice la vergine Agnese:  

«Non guardare unicamente alla mia spoglia. 

Guarda piuttosto allo spirito mio, beato là dove suona quel cantico che tanto ti piace.  

Ivi sono felice. Niente più di quanto mi fu momentaneo  dolore sulla terra venne meco nella dimora dello Sposo. Ma  soltanto trovai ineffabile gaudio.  

Ivi, nella luce emanante da Dio, nostra gioia, viviamo nella  pace. Le armonie dei beati si intrecciano a quelle degli angeli.  Tutto è luce e armonia. In alto splende la Trinità santissima e  sorride la Madre di Dio.  

Ciò che sia il Paradiso non lo puoi pensare, anche se di esso  hai avuto un baleno. Conoscerlo in tutto il suo gaudio sarebbe  morire, perché è beatitudine non sopportabile alla carne che ne  muore. Dio te ne fa conoscere un saggio per incuorarti alla  prova. Come a noi che soffrimmo per Lui.  

Vieni. Il dolore cessa e la gioia dura eterna. Il dolore, visto da  questo luogo, è un attimo di tempo; la gloria che il dolore ci dà  è eterna. Qui è Colui che ci ama e che amando non  commettiamo colpa ma meritiamo premio.  

Gesù ti ha riscattata col suo amore. Amalo del tuo amore per  meritare di unirti al coro che empie il beato Paradiso.» 

Dopo che lei se ne è andato, alle 18, io rimasi nella gioia di quell’armonia e di quella visione. 

Ma poi si mutò nella presenza del corpo glorificato di  Agnese, bellissima, bianco-vestita e dallo sguardo rapito. E mi  pareva sentire due piccole mani carezzarmi dolcemente, manine  di bambina. Così sono andata in sopore. Un affannoso sopore,  perché i dolori tremendi (è notte fra il giovedì e venerdì) non mi  dànno tregua. 

Tornata in me, mentre i miei dolori si fanno sempre più  acuti, e mentre penso per sollevarli a quanto vidi, la martire  giovinetta mi dice queste parole.  

Ora mi stendo sentendomela vicina a consolare il mio  martirio di carne e di cuore. Soltanto lo spirito è beato. Ma suona la mezzanotte ed ha inizio il venerdì. Penso al mio  Signore nel suo tragico venerdì di passione e non mi lamento di  soffrire. Gli chiedo solo di sapermi far ben soffrire: per Lui e per  le anime. 

>>> 

A cura di Mario Ignoffo 

venerdì 29 ottobre 2021

Santi Martiri del I – II e III Secolo

 


Dalla Gerarchia Cardinalizia di  Carlo Bartolomeo Piazza e dalle Rivelazioni Private della mistica Maria Valtorta 


Deposizione di Sant’Agnese.  


Scritta nuovamente la mattina del 23, per paura di smarrimento di  quei fogli staccati. 


Vedo un giardino di casa patrizia. Vi sono viali, aiuole, peschiere, praticelli, piante d’alto fusto. Pare molto vasto e deve confinare con la campagna o con altri vasti giardini, come vedo  poi, perché là dove finisce non vi sono case ma altri prati e  piante. 

Il giardino all’inizio della visione è vuoto di persone. Lo vedo al chiarore di rade luci date da lucerne a olio o da torce  messe qua e là. Vedo le fiamme rossastre che si piegano ogni  tanto al vento leggero della sera. Vi è anche un chiaro di luna.  Essa è alla sua fase iniziale perché lo spicchio è sottile e volto a  ponente. Giudico, data la stagione e la posizione della luna, che  è appena alta al limite del cielo, che siano le prime ore della  notte, che di questa stagione è molto precoce. 

In un secondo tempo noto presso la casa, che pare tutta  chiusa come fosse vuota, molti gruppi di uomini e donne vestiti  come a quel tempo, accompagnati da altri uomini che sembrano  rivestiti di speciale incarico e dignità, ai quali tutti ubbidiscono  con rispetto. Comprendo che sono cristiani venuti ai funerali di  Agnese. 

Molti hanno delle lucernette a olio, cosa che mi permette di  vedere che ce ne sono alcuni, fra gli uomini, con capelli corti, direi rasati, e vesti corte e bigiognole, altri con chiome più curate ma sempre corte e vesti  lunghe e chiare con manto di cui un lembo passa sulla testa come un  cappuccio. Nelle donne pure alcune vestite dimesse e di scuro, altre in chiaro e meglio vestite; un folto gruppo è vestito di bianco, con velo bianco sul capo.  Mentre osservo tutti questi particolari, si apre una vasta  porta nella casa, nella facciata che dà sul giardino, e ne esce viva  luce. Questa proviene da un peristilio vivamente illuminato. Di fronte a questa porta ve ne è un’altra, certamente sulla facciata che dà sulla via, la quale ad un certo punto viene aperta come se  dal di fuori qualcuno avesse bussato. 

Entra un gruppo di persone che circondano una lettiga portata da quattro robusti uomini vestiti di color scuro (color lana bigia), i  quali depongono il loro carico in mezzo al peristilio mentre la  porta di casa è subito rinchiusa con cura. Quando vengono sollevate le cortine della lettiga, vedo che essa contiene un corpo steso, tutto  avvolto in un sudario. Questo corpo viene pietosamente  sollevato e adagiato, senza il sudario che resta nella lettiga, su una  specie di barellina ricoperta di un prezioso drappo porpureo  che pare ricamato a bordure come fosse un damasco. Essa era  certo già preparata a ricevere il suo carico. 

Vedo la martire Agnese, irrigidita nella morte. Pare una  statua di marmo candido tanto è esangue nel volto, nelle mani  piccine, nei piccoli piedi calzati da sandali. È tutta vestita di  bianco e con un velo candido che l’avvolge tutta. Ma il primo  velo glielo fanno i suoi splendidi capelli biondi, lunghi sino al ginocchio, ora tutti sciolti come un manto d’oro. Non sono ricci, sono morbidi e appena ondati, ma tanti, tanti e bellissimi.  Ella sorride come davanti ad una visione di pace. Ha le mani  congiunte sul grembo e con una palma, unico ornamento, fra le  dita irrigidite. 

È tutta monda. Si capisce che l’hanno detersa dal sangue e rivestita di veste pulita prima di trasportarla qui, perché non ha più  sangue sul volto, fra i capelli e sulla veste. La ferita al collo non si vede. Gliel’hanno pietosamente coperta coi capelli e col velo. 

Si avvicinano a lei i parenti che la baciano piangendo sulle  manine ceree e sulla fronte gelata. Ma il loro dolore è composto e  dignitoso. Nessuna di quelle manifestazioni isteriche solite in quei casi. Un  dolore cristiano. Dopo i parenti si affollano gli amici e fratelli di  fede. Vedo Emerenziana piangente e sorridente insieme alla sorellina di latte che l’ha preceduta nella gloria. Tutti salutano la martire e pregano. 

Ho qui l’impressione, che ho dimenticato di scrivere nella 1a versione,  limitandomi di dirla a lei a voce, di un grande amore fra i cristiani, la sensazione di quello che sia la “comunione dei santi” così come era intesa  dai primi cristiani, dai quali tanto avremmo da imparare. Essi erano  venuti, sfidando ogni pericolo, a rendere onore alla martire di Cristo, a  raccomandarsi a lei, già assurta al Cielo, di esser per tutti loro fonte di  intercessione presso Dio nei prossimi combattimenti per la Fede, e lei mi  pareva planasse già col suo spirito sui presenti, trasfondendo in essi i suoi  sentimenti eroici e la sua protezione. Il Cielo e la Terra erano in  comunicazione. 

In questo mentre105 si riapre la porta esterna ed entra un  vegliardo accompagnato da due uomini dai 25 ai 35 anni. Il  vecchio ha un aspetto dolcemente serio, è molto magro, direi  sofferente, e pallidissimo. Deve essere persona molto influente  presso i cristiani, perché al suo apparire tutti si inginocchiano ed  egli passa fra due file di teste chine, benedicendo. Ho l’impressione sia un vescovo o lo stesso Pontefice. 

Si avvicina alla barella e benedice la morta e prega su lei. Poi  si veste degli abiti sacerdotali (vedo il pallio, non so se si dice così: è  una striscia bianca che forma come un cerchio sulle spalle e sul petto e  scende poi dietro e davanti in due strisce. Il tutto è ornato di piccole croci  scure). Anche gli altri suoi accompagnatori si vestono mettendo  le vesti dei diaconi (tunica sino al ginocchio e maniche sino a poco più su  del gomito). 

Poi il corteo si ordina. Davanti il clero, ossia il vegliardo, i  due diaconi e gli altri sacerdoti che prima erano sparsi fra la  folla dei cristiani e che hanno messo pure loro le stole sacerdotali. 

Intorno ad essi si pongono uomini portanti fiaccole accese. 

Hanno la veste corta e scura. Direi che sono servi, cristiani, perché ho l’impressione che nella casa tutti siano seguaci di Gesù. Anche intorno  alla barella si fa una fila di lumi portati dalle vergini biancovestite e bianco-velate, una vera siepe di gigli intorno al giglio  reciso. La barella viene sollevata facilmente da 4 vergini, fra cui  Emerenziana. Non deve pesare molto perché, per quanto  Agnese, stesa come è, sembri più alta che da viva, è sempre un’adolescente e per di più poco formosa. 

Il corteo si avvia verso la tomba per i viali del giardino. Tutti  portano fiaccole o lucerne accese. E cantano. Sottovoce. Un  inno pieno di dolcezza e speranza che sulle prime non  riconosco. Mi pare di avere già udito quelle parole, ma non so  dove. Il vento serale piega le fiamme che poi si drizzano più  belle. Vedo distintamente una ciocca di capelli di Agnese, uscita  da sotto al velo, che si muove sotto il sospiro della brezza. Il  corteo è molto composto e pio. 

Si giunge al limite del giardino. Lì vi è una specie di pozzo dall’apertura molto larga. Una scaletta, intagliata nell’arenaria o nel tufo, porta in basso. Si scende in molti.  

Chi non può, resta intorno all’orlo del pozzo e canta ancora,  rispondendo ai canti del basso. Nella cavità del pozzo le voci acquistano  risonanza e comprendo bene di che si tratti. Sono versetti dell’Apocalisse nel punto dove parla dei vergini che seguono  l’Agnello.106 Un versetto è cantato dagli uomini, l’altro dalle  donne alternativamente e come le ho scritto nel I° racconto. 

Vedo che il pozzo è semicircolare, anzi a ferro di  cavallo, e dei cunicoli partono da esso a raggiera. Così. 

Dove ho fatto la crocetta vi è un loculo scavato nell’arenaria. Preparato per Agnese. Il primo di questo sepolcro,  futura tomba di molti martiri e catacomba. Dei cunicoli, il primo  a destra della croce (rispetto a chi guarda, quello che io segno con un V) è il più fondo.  

Si addentra nella terra per un 5 o 6 metri. Mentre gli altri sono meno  fondi e uno, il primo a sinistra di chi guarda, presso la scala, è appena appena iniziato. Ho l’impressione che sia un ipogeo che è appena  incominciato, quasi che la morte di Agnese l’abbia trovato impreparato. 

I parenti e i più prossimi si accostano per un ultimo saluto. 

Poi il drappo porpureo su cui è appoggiata la martire viene alzato ai lati  sulla stessa ed ella viene avvolta in questa stoffa preziosa dalla testa ai  piedi. 

Il Pontefice le dà l’ultimo saluto: “Veni, sponsa Christi. Veni, Agne sanctissima. Requiescant in pace!” come se a nome della 

Chiesa la prendesse in consegna. E il corpo viene sollevato con  devozione e deposto nel loculo, sul quale viene ribattuta una  pietra che lo chiude. 

E la visione si cristallizza così. 

In me rimane la dolcezza del canto e la religiosità di tutta la scena, nei suoi particolari più minuti, in cui è palese l’unione degli antichi cristiani e il loro fervore. 

Ho scritto nuovamente questa visione per ordine di Gesù, il quale mi dice: 

«Questa è un’altra ragione probatoria. Solo chi ha visto una  scena che lo ha fortemente colpito può, a distanza di giorni,  ripeterne con esattezza il racconto.» 

Questo me lo dice questa sera, 23-1, alle 24, quando cioè io ho scritto per la causa dettami all’inizio. 

 A cura di Mario Ignoffo 

sabato 11 settembre 2021

Santi Martiri del I – II e III Secolo

 


Dalla Gerarchia Cardinalizia di  Carlo Bartolomeo Piazza  

e dalle Rivelazioni Private della mistica Maria Valtorta 


Deposizione di Sant’Agnese.  

20 - l - 44, alle l6.101 

A conforto della mia tristezza, il buon Gesù mi concede la  seguente visione che mi affretto a descriverle pensando le possa  far piacere. 

Assisto alla deposizione di Agnese.102 

Vedo un giardino di una casa patrizia. Non so se sia la casa  paterna di Agnese o di altra famiglia cristiana. Del resto, ciò non  ha molta importanza. Vedo, insomma, questo amplissimo giardino con viali e vialetti, aiuole, peschiere e piante d’alto fusto. 

È sera, potrei dire notte perché le ombre sono già folte. Il  luogo è rischiarato da un bel chiaro di luna e da rade fiaccole o  lumi che siano. Vedo le fiamme piegarsi ogni tanto al lieve  vento della sera. La luna è al suo primo quarto e perciò penso  siano le 20 o anche meno delle venti, perché essa si è appena alzata all’orizzonte e in gennaio essa si alza presto, specie quando è nella sua fase iniziale. 

In principio non vedo altro. Poi la scena si anima. Entrano  nel giardino molte persone con lumi e torce, e la luce cresce.  Sono certo cristiani e cristiane, condotti dai loro sacerdoti e  diaconi al seppellimento di Agnese. 

Ad un certo momento si apre una porta della casa e appare  un peristilio vivamente illuminato, certo in corrispondenza con  la via, perché di fronte a questa porta - dirò così: verso l’interno - ve ne è un’altra, che pure si apre come se qualcuno avesse bussato dal di fuori, ed entra un gruppo di persone portando su  una lettiga una forma avvolta in un sudario. 

Deposta la lettiga in mezzo a questo peristilio e chiusa la  porta che dà sulla via, la forma viene scoperta, alzata piamente e deposta su un’altra specie di barella simile ad un lettuccio senza sponde, ricoperto di una stoffa rosso cupo ricchissima, direi  trapunta a ricamo. 

Vedo che la martire è già stata lavata e composta. Non è più  sangue sul suo volto e nella sua chioma, non più sulla sua veste.  Devono averle messo una tunica pulita perché nessuna macchia  è su essa. 

La giovinetta martire pare una statua marmorea, tanto è  pallida in volto. Ma è tanto in pace. Sorride. Ha i capelli sciolti  sotto il velo candido che la copre tutta. Ma il primo velo glielo fanno i suoi lunghi capelli biondi. Un vero manto d’oro che la avvolge sino alle ginocchia. Ha le mani congiunte sul petto ed una palma fra esse. La ferita al collo non si vede. Glie l’hanno coperta pietosamente colle ciocche d’oro e il candido velo.  Intorno a lei si affollano i parenti che piangono senza  strepito e la baciano sulle manine ceree e sulla fronte marmorea, i familiari, i compagni di fede, i sacerdoti. 

Entra un vecchio venerando fiancheggiato da due altri. Sono tutti vestiti da romani dell’epoca. Da quanto avviene comprendo che il vegliardo è il Pontefice o un suo vicario. Ma  direi il Pontefice, perché tutti si inginocchiano mentre egli entra  e benedice. Anche egli si accosta alla martire e prega su lei. Poi  si mette i paramenti sacerdotali e ugual cosa fanno i due diaconi  che lo accompagnano, e così molti dei sacerdoti sparsi fra i  cristiani, e il corteo si ordina. 

Un gruppo di vergini, fra cui Emerenziana, si stringono alla  barellina e la sollevano. Per quanto, vista distesa, Agnese sembri  più alta di quando era viva, non deve essere soverchio il peso: è  una bambina e non molto formosa. Le vergini sono tutte  biancovestite e bianco velate: una siepe di gigli intorno al giglio  spento coricato sulla porpora del drappo funebre. Davanti il  Pontefice e i sacerdoti, preceduti e fiancheggiati da famigli con  fiaccole, dietro le vergini con la martire, poi i genitori, i parenti, i cristiani, tutti con lumi, vanno per i viali del giardino, verso il  luogo dove questo confina con una campagna (mi pare). Certo  non vi sono altre case dopo, ma altre piante e prati. 

La scena è placida e solenne. La luna bacia la candida forma  e il vento la carezza. Vedo una ciocca bionda ondeggiare  lievemente sotto il soffio del vento leggero. 

I cristiani cantano a bassa voce. In principio stento a capire,  forse perché sono distratta nel guardare tante cose. Poi afferro  le parole della santa melodia latina e ricordo di conoscerla, non mi è nuova. Penso dove l’ho udita o letta. 

Intanto si è giunti ad una specie di pozzo, molto largo di  bocca, nel quale si scende per una scaletta tagliata nel tufo o  arenaria che dir si voglia. Piano piano scendono i principali  personaggi e nella cavità sotterranea, che è fatta in forma  circolare con molti cunicoli che sembrano appena iniziati in  diverse direzioni, le voci si fanno più forti e solenni. 

Ora ricordo bene. Sono le parole dell’Apocalisse, nel punto  dove parlano di quel “canto” che solo potranno dire coloro che non si contaminarono sulla terra.103 Ma non è detto tutto. È detto così. Lo dicevano così lentamente, quell’inno, che ho potuto trascriverlo, e poi ho guardato se la mia asineria aveva  fatto molti errori latini. 

“Et vidi supra montem Sion Agnum stantem” cantavano gli uomini. 

“Et audivi vocem de cælo, tamquam vocem aquarum multarum” rispondevano le donne. 

“Sicut citharoedorum citharizantium in citharis suis”.  

“Et cantabant quasi canticum novum”. 

“Et nemo poterat dicere canticum, nisi illa 144.000 qui empti sunt de terra”.  

“Hi sunt qui cum mulieribus non sunt coinquinati: virgines enim sunt”. 

“Hi sequuntur Agnum, quocumque ierit”. 

“Hi empti sunt ex hominibus primitiæ Deo et Agno”. 

“Sine macula enim sunt ante thronum Dei” cantavano 

alternativamente, un versetto gli uomini, uno le donne. 

Un’armonia celeste! Avevo le lacrime agli occhi e tuttora è in 

me come un fiume di dolcezza che placa tutto. La sento sopra  tutti i rumori che ho attorno... 

Un ultimo saluto dei parenti e poi la salma viene sollevata e 

portata verso il loculo lungo e stretto scavato nell’arenaria, 

scavato di fianco, non per il lungo. Il Pontefice segue la 

deposizione con queste parole: “Veni, sponsa Christi. Veni, 

Agne sanctissima. Requiescant in pace”104. 

Una pietra viene ribattuta e fissata sull’apertura. La visione si cristallizza lì. 

Io mi sento in pace come fossi io pure coricata in quel  piccolo loculo a fianco della dolce creatura, in attesa di risorgere  con lei in Cristo dopo il martirio. Come se fossi, come lei, già  uscita dai tormenti e dalle cattiverie del mondo e cantassi al suo  fianco il cantico che cantano solo coloro che sono stati riscattati  dalla terra. 

È pur bello morire per Gesù! È pur bello potersi dire: “il  mio dolore mi ottiene il Paradiso!”. 

Ora mi raccolgo in attesa che lei venga. Mi raccolgo nell’eco di quel dolce canto così pieno di promesse per chi ha dato se stesso al servizio dell’Agnello e lo segue in ogni sua volontà. 

A cura di Mario Ignoffo 

sabato 7 agosto 2021

Santi Martiri del I – II e III Secolo

 


Dalla Gerarchia Cardinalizia di  Carlo Bartolomeo Piazza e dalle Rivelazioni Private della mistica 

 Maria Valtorta 


Martirio di Sant’Agnese.

13 gennaio 1944

Dice Gesù: 

«È detto: “Dio, avendo amato infinitamente l’uomo, lo amò sino alla morte”.97 I miei seguaci più veri non sono e non sono stati dissimili dal loro Dio ed a Lui ed agli uomini, a suo esempio e per sua gloria, hanno dato un amore senza misura che va sino alla morte. Ti ho già detto98 che un unico nome ha la morte di Agnese come quella di Teresa: amore. Sia che sia la spada o il morbo la causa apparente della morte di queste creature, che seppero amare con quella “infinità” relativa della creatura (dico così per i cavillatori della parola) che è la copia minore di quella perfetta di Dio, l’agente vero ed unico è l’amore. Una sola parola andrebbe apposta per epigrafe su questi miei “santi”. Quella che si dice di Me: “Dilexit”. Amò. Amò la fanciulla Agnese e la giovane Cecilia, amò la schiera dei figli di Sinforosa, amò il tribuno Sebastiano, amò il diacono Lorenzo, amò Giulia la schiava, amò Cassiano maestro, amò Rufo carpentiere, amò Lino pontefice, amò la candida aiuola delle vergini, la tenera prateria dei fanciullini, la soave schiera delle madri, quella virile dei padri, e la ferrea coorte dei soldati, e la sacerdotale teoria dei vescovi, dei pontefici, dei preti, dei diaconi, amò l’umile e due volte redenta massa degli schiavi.

Amò questa mia porpurea corte che mi ha confessato fra i tormenti. E amò, in epoche più dolci, la moltitudine dei consacrati dei chiostri e dei cenobi, le vergini di tutti i conventi e gli eroi del mondo, che vivendo nel mondo hanno saputo fare dell’amore clausura allo spirito perché viva amando unicamente il Signore, per il Signore, e gli uomini attraverso il Signore. Amò. Questa piccola parola che è più grande dell’universo - perché nella sua brevità racchiude la forza più forza di Dio, la caratteristica più caratteristica di Dio, la potenza più potenza di Dio - questa parola il cui suono, detto soprannaturalmente a definizione di una vita vissuta, empie di sé il creato e fa trasalire di ammirazione l’umanità e di giubilo i Cieli, è la chiave, è il segreto che apre e che spiega la resistenza, la generosità, la fortezza, l’eroismo di tante e tante creature che per età o per condizioni di famiglia e di posizione parevano le meno atte a tanta perfezione eroica. Ché, se ancora non fa stupore che Sebastiano, Alessandro, Mario, Espedito, possano aver saputo sfidare la morte per il Cristo, così come avevano sfidato la morte per il Cesare, fa stupire che delle poco più che fanciulle, come Agnese, e delle madri amorose abbiano saputo gettare fra i tormenti la vita, accettando per primo tormento di strapparsi all’abbraccio dei parenti e dei figli per amore di Me. Ma a generosità umana e sopra-umana del martire dell’amore corrisponde generosità divina del Dio d’amore. Io sono che a questi miei eroi e a tutte le vittime dell’incruento ma lungo e non meno eroico martirio do la f orza. Mi faccio Io forza in loro. All’agnella Agnese come al vegliardo cadente, alla giovane madre come al soldato, al maestro come allo schiavo, e poi nei secoli alla claustrata come allo statista che muore per la fede, alla vittima ignorata come al condottiero di spirito, Io sono che infondo fortezza. Non cercate in fondo ai loro cuori e sulle loro labbra altra perla ed altro sapore che questo: “Gesù“. Io, Gesù, sono là dove la santità raggia e la carità s’effonde.» È la mezzanotte. Gesù ha appena finito di dettare questo brano, che io connetto alla mia visione di questa sera. La frase: “Dio, avendo amato infinitamente l’uomo, lo amò sino alla morte” mi suonava in cuore sino da questa mattina. Tanto che avevo sfogliato tutto il nuovo testamento per vedere di trovarla. Ma non l’ho trovata. O mi è sfuggita o non è lì. Quasi accecata, mi sono rassegnata a smettere le ricerche, convinta che Gesù avrebbe parlato certamente su quel tema. E non ho sbagliato. Ma prima di parlare di esso, il mio Signore mi ha dato una dolce visione, con la quale nel cuore mi sono abbandonata al mio solito... riposo, ritrovandola poi, fresca come al primo momento, al mio ritorno fra i vivi. Mi pareva dunque di vedere come un portico (peristilio o foro che fosse), un portico dell’antica Roma. Dico “portico’’ perché c’era un bel pavimento di mosaico di marmo e delle colonne di marmo bianco sorreggenti un soffitto a volta, decorato di mosaici. Poteva essere il portico di un tempio pagano o di un palazzo romano, o la Curia o il Foro. Non so. Contro una parete, era una specie di trono composto di una predella marmorea sorreggente un seggio. Su questo seggio era un romano antico in toga. Compresi poi essere il Prefetto imperiale. Contro le altre pareti, statue e statuette di dèi e tripodi per l’incenso. In mezzo alla sala o portico, uno spazio vuoto avente una gran lastra di marmo bianco. Nella parete di fronte al seggio di quel magistrato si apriva il portico vero e proprio, per cui si vedeva la piazza e la via. Mentre osservavo questi particolari e la fisionomia arcigna del Prefetto, tre giovinette entrarono nel vestibolo, portico, sala (quello che vuole lei). Una era giovanissima: una bambina quasi. Vestita di bianco completamente: una tunica che la copriva tutta lasciando visibile soltanto il collo sottile e le manine piccoline dai polsi di bimba. Aveva il capo scoperto ed era bionda. Pettinata semplicemente con una divisa in mezzo al capo e due pesanti e lunghe trecce sulle spalle. Il peso dei capelli era tanto che le faceva piegare lievemente indietro il capo dandole, senza volere, un portamento da regina. Ai suoi piedi scherzava belando un agnellino di pochi giorni, tutto bianco e col musetto roseo come la bocca di un bambino. A pochi passi dietro alla fanciullina erano le altre due giovinette. Una di quasi pari età della prima, ma più robusta e di aspetto più popolano. L’altra era più adulta: sui 16 o 18 anni al massimo. Erano anche loro vestite di bianco e a capo velato. Ma vestite più umilmente. Parevano ancelle perché rimanevano in aspetto rispettoso verso la prima. Compresi che questa era Agnese, quella della sua stessa età Emerenziana, e l’altra non so. Agnese, sorridente e sicura, andò fin contro alla predella del Magistrato. E qui sentii il seguente dialogo: “Mi desideravi? Eccomi”. “Non credo che, quando saprai perché ti volli, chiamerai ancora desiderio il mio. Sei tu cristiana?”. “Sì, per grazia di Dio”. “Ti rendi conto cosa ti può portare questa affermazione?”. “Il Cielo”. “Bada! La morte è brutta e tu sei una bambina. Non sorridere perché io non scherzo”. “Ed io neppure. Sorrido a te perché tu sei il pronubo delle mie eterne nozze e te ne sono grata”. “Pensa piuttosto alle nozze della terra. Sei bella a ricca. Molti già pensano a te. Non hai che da scegliere per essere una patrizia felice”. “La mia scelta è già fatta. Amo il Solo degno d’esser amato e questa è l’ora delle mie nozze, questo è il tempio di esse. Odo la voce dello Sposo che viene e già ne vedo l’amoroso sguardo. A Lui sacrifico la mia verginità perché Egli ne faccia un fiore eterno”. “Se di essa hai premura e della tua vita insieme, sacrifica tosto agli dèi. Così vuole la legge”. “Ho un unico vero Dio, e ad Esso sacrifico volentieri”.99 E qui pareva che degli aiutanti del Prefetto dessero ad Agnese un vaso con dell’incenso perché lo spargesse su quel tripode da lei prescelto, davanti ad un dio. “Non sono questi gli dèi che amo. Il mio Dio è nostro Signore Gesù Cristo. A Lui che amo sacrifico me stessa”. Mi pareva a questo momento che il Prefetto irritato desse ordine ai suoi aiutanti di mettere i ferri ai polsi di Agnese per impedirle la fuga o qualche atto irriverente verso i simulacri, essendo da quel momento considerata rea e prigioniera. Ma la vergine sorridente si volse al carnefice dicendo: “Non mi toccare. Sono venuta qui spontaneamente perché qui mi chiama la voce dello Sposo che mi invita dal Cielo alle nozze eterne. Non ho bisogno dei tuoi braccialetti, né delle tue catene. Soltanto se mi volessi trascinare al male dovresti mettermeli. E (forse) non servirebbero perché il mio Signore Iddio li renderebbe più inutili di un filo di lino al polso di un gigante. Ma per andare incontro alla morte, alla gioia, alle nozze con il Cristo, no, le tue catene non servono, o fratello. Io ti benedico se mi dai il martirio. Non fuggo. Ti amo e prego per lo spirito tuo”. Bella, bianca, diritta come un giglio, Agnese era visione celeste nella visione... Il Prefetto dette la sentenza che non udii bene. Mi parve ci fosse come una lacuna durante la quale persi di vista Agnese, intenta come ero ai molti che si erano accatastati nell’ambiente. Poi ritrovai la martire, ancor più bella e gioconda. Di fronte a lei una statuetta d’oro di Giove e un tripode. Al suo fianco il carnefice con la spada già snudata. Parevano fare un ultimo tentativo per piegarla. Ma Agnese con gli occhi sfavillanti scuoteva il capo e con la piccola mano respingeva la statuetta. Non aveva più ai piedi l’agnellino che era invece nelle braccia di Emerenziana piangente. Vidi che facevano inginocchiare Agnese sul pavimento, in mezzo alla sala, là dove era la gran lastra di marmo bianco. La martire si raccolse con le mani sul petto e lo sguardo al cielo. Lacrime di sovrumana gioia le imperlavano l’occhio, rapito in una contemplazione soave. Il volto, senza essere più pallido di prima, sorrideva. Uno degli aiutanti le prese le trecce come fossero una fune per tenerle fermo il capo. Ma non ce ne era bisogno. “Amo Cristo!” gridò quando vide il carnefice alzare la spada, e vidi la stessa penetrare tra la scapola e la clavicola e aprire la carotide destra e la martire cadere, sempre conservando la sua posizione di inginocchiata, sul lato sinistro, come uno che si adagia nel sonno, in un beato sonno, perché il sorriso non si diparti dal suo volto e fu nascosto solo dal fiotto di sangue che sgorgava a nappo dalla gola squarciata. Eccole la mia visione di questa sera. Non vedevo l’ora di esser sola per scriverla e rigodermela in pace. Era così bella che, mentre l’avevo - e mi scendevano lacrime che la penombra della stanza credo abbia nascoste ai presenti, e me ne stavo ad occhi chiusi, parte perché ero talmente assorbita nella contemplazione che avevo bisogno di concentrarmi, e parte per far credere che dormissi, per quanto non ami far capire... dove sono - non ho potuto sopportare di udire brani di frasi comuni e molto umane galleggiare come rottami fra la bellezza della visione, e ho detto: “Zitti, zitti” come se mi dessero noia i rumori. Ma non era quello. Era che volevo rimanere sola per contemplare in pace. Come infatti m’è riuscito.

A cura di Mario Ignoffo 

sabato 19 giugno 2021

Dalla Gerarchia Cardinalizia di Carlo Bartolomeo Piazza e dalle Rivelazioni Private della mistica Maria Valtorta

 


Santi Martiri del I – II e III Secolo


I Martiri e le loro conquiste. Il sacerdote  Cleto e compagni. 


Sera del 24 – 11 - 1946. 90 

Vedo un luogo che per costruzione e per personaggi molto  mi ricorda il Tullianum nella visione91 della morte del piccolo  Castulo. Mi ricorda anche altri luoghi romani come le celle dei  circhi dove ho visto ammassati i cristiani prossimi ad essere gettati ai leoni. Ma non è né l’uno né l’altro luogo. Le muraglie 

sono con le solite robuste pietre squadrate sovrapposte. La luce  è poca e triste come filtrasse da feritoie e si mescolasse al lume  incerto di una fiammella ad olio insufficiente a rischiarare l’ambiente. Il luogo è sempre, di certo, una carcere, e carcere di cristiani, ma, a differenza degli altri luoghi che ho visto, questo  ambiente fosco e triste non è tutto chiuso da porte e muraglie.  Ha in un angolo un ampio corridoio che si diparte dallo  stanzone e va chissà dove. Anche il corridoio, un poco curvo  come facesse parte di una larga elissi, è con le solite pietre  quadrangolari e malamente rischiarato da una fiammella. Il  luogo è vuoto. Però al suolo, un suolo che pare di granito,  sparso di grossi sassi a far da sedili, sono degli indumenti. 

Un rumore sordo, come di mare in tempesta che si senta  lontano dalla riva, viene da non so dove. Delle volte è più  fievole, talora è forte. Ha quasi del boato. Forse per effetto delle  pareti a curva che lo devono raccogliere e amplificare come per  eco. È un rumore strano. Delle volte mi sembra fatto da onde di mare o da una grande cascata d’acque, delle volte mi pare di sentirlo fatto di voci umane e penso sia folla che urla, altre fa dei suoni inumani durante i quali l’altro rumore si sospende per esplodere poi più forte... Ora uno scalpiccio di passi, di molti  passi, viene dal corridoio ellittico che si illumina vivamente  come se altri lumi vi venissero portati, e col rumore dei passi un  rammarichio fievole di creature sofferenti... 

Poi ecco la tremenda scena. Preceduto da due uomini  colossali, anzianotti, barbuti, seminudi, muniti di torce accese,  viene avanti un gruppo di creature sanguinanti, parte sorrette,  parte sorreggenti, parte addirittura portate. Ho detto: creature.  Ma ho detto male. Quei corpi straziati, mutilati, aperti, quei  volti dalle guance segnate da atroci ferite che hanno dilaniato le bocche sino all’orecchio, o spaccato una guancia sino a mostrare i denti infissi nella mandibola, o cavato un occhio che spenzola fuor dall’orbita priva della palpebra ormai inesistente, o che è mancante affatto come per una barbara ablazione,  quelle teste scoperchiate del cuoio capelluto come se un  ordigno crudele le avesse scotennate, non hanno più aspetto di  creature. Sono una visione macabra come un incubo, sono  come un sogno di pazzia... Sono la testimonianza che nell’uomo si cela la belva e che essa è pronta ad apparire e a sfogare i suoi  istinti approfittando di ogni pretesto che giustifichi la belluinità.  Qui il pretesto è la religione e la ragion di stato. I cristiani sono  nemici di Roma e del divo Cesare, sono gli offensori degli dèi,  perciò i cristiani siano torturati. E lo sono. Che spettacolo!  Uomini, donne, vecchi, fanciullini, giovinette sono là alla  rinfusa in attesa di morire per le ferite o per un nuovo supplizio.  Eppure, tolto il lamento inconscio di coloro che la gravità  delle ferite fa insensati, non si sente una voce di rammarico.  Quelli che li hanno condotti si ritirano lasciandoli alla loro  sorte, e allora si vede che i meno feriti cercano di soccorrere i più gravi e chi appena può va a curvarsi sui morenti, chi non  può farlo stando ritto si trascina sulle ginocchia o striscia al suolo cercando l’essere a lui più caro o quello che sa più debole di carne e forse di spirito. E chi può ancora usar le mani cerca  dare soccorso alle forme denudate ricoprendole con le vesti che  erano al suolo, oppure raccogliendo le membra dei languenti in  positure che non offendano la modestia e stendendo su esse  qualche lembo di veste. E alcune donne raccolgono nel grembo i bambini morenti, e forse non sono i loro, che piangono di  dolore e paura. Altre si trascinano presso giovinette coperte  soltanto delle chiome disciolte e cercano rivestire le forme  verginali con le candide vesti trovate al suolo. E le vesti si intridono di sangue, e odor di sangue satura l’aria dell’ambiente mescolandosi al fumo pesante del lume ad olio. E dialoghi  pietosi e santi si intrecciano sommessi. 

“Soffri molto, figlia mia?” chiede un vecchio dal cranio scoperchiato della cute che pende sulla nuca come una cuffia  caduta e che non può vedere perché non ha più per occhi che  due piaghe sanguinanti, rivolgendoli ad una che sarà stata una  florida sposa ma che ora non è che un mucchio di sangue, stringente al petto aperto, con l’unico braccio che ancor lo può fare, in un disperato gesto di amore, il figliolino che sugge il  sangue materno in luogo del latte che non può più scendere  dalle mammelle lacerate. 

“No, padre mio... Il Signore mi aiuta... Se almeno venisse Severo... Il bambino... Non piange... non è forse ferito... Sento  che mi cerca il petto... Sono molto ferita? Non sento più una  mano e non posso... non posso guardare perché non ho forza  più di vedere... La vita... se ne fugge col sangue... Sono coperta, padre mio?...”. 

“Non so, figlia. Non ho occhi più...”. 

Più oltre è una donna che striscia al suolo sul ventre come fosse un serpente. Da uno squarcio alla base delle coste si vedono respirare i polmoni. “Mi senti ancora, Cristina?” dice curvandosi su una giovinetta nuda, senza ferite, ma col color  della morte sul viso. Una corona di rose è ancor sulla sua fronte  sopra i capelli morati disciolti. È semi svenuta. 

Ma si scuote alla voce e carezza materna, e raduna le forze per dire: “Mamma...”. La voce è un soffio. “Mamma! il serpente... mi ha stretta così... che non posso più...  abbracciarti...  

Ma il serpente... è nulla... La vergogna... Ero nuda... 

Mi guardavano tutti... Mamma... son vergine ancora anche  se... anche se gli uomini... mi hanno vista... così?... Piaccio ancora a Gesù?...”. 

“Sei vestita del tuo martirio, figlia mia. Io te lo dico: piaci a Lui più di prima...”. 

“Si... ma... coprimi, mamma... non vorrei più esser vista... 

Una veste per pietà...”. 

“Non ti agitare, mia gioia... Ecco. La mamma si mette qui e ti nasconde... Non posso più cercarti la veste... perché... 

muoio... Sia lode a Ge...”. E la donna si rovescia sul corpo della figlia con un grande fiotto di sangue, e dopo un gemito resta  immobile. Morta? Certo agli ultimi respiri. 

“La madre mia muore... Non è vissuto nessun prete per darle la pace?...” dice la giovinetta sforzando la voce. 

“Io vivo ancora. Se mi portate...” dice da un angolo un vecchio dal ventre aperto completamente... 

“Chi può portare Cleto da Cristina e Clementina?” dicono in diversi. 

“Forse io posso, ché ho buone le mani e forte ancora sono.  Ma dovrei essere condotto perché il leone mi ha levato gli occhi” dice un giovane bruno, alto e forte. 

“Ti aiuto io a camminare, o Decimo” risponde un giovinetto poco ferito, uno dei più illesi. 

“E io e mio fratello ti aiuteremo a portare Cleto” dicono due robusti uomini nel fior della virilità, anche essi poco feriti. 

“Dio vi compensi tutti” dice il vecchio prete sventrato mentre lo trasportano con precauzione. E deposto che è presso  la martire prega su di lei, e agonizzante come è trova ancora il modo di raccomandare l’anima ad un uomo che, scarnificato nelle gambe, muore di dissanguamento al suo fianco. E chiede a  quello cieco che lo ha portato se non sa nulla di Quirino. 

“È morto al mio fianco. La pantera gli ha aperto la gola per il primo”. 

“Le belve fanno presto all’inizio. Poi sono sazie e giuocano  soltanto” dice un giovinetto che si dissangua lentamente poco lontano. 

“Troppi cristiani per troppo poche belve” commenta un vecchio che si zaffa con un cencio la ferita che gli ha aperto il  costato senza ledergli il cuore. 

“Lo fanno apposta. Per godere poi di un nuovo spettacolo.  Certo lo stanno ideando ora...” osserva un uomo che sorregge  con la destra l’avambraccio sinistro quasi staccato da una zannata di belva. 

Un brivido scuote i cristiani. 

La giovinetta Cristina geme: “I serpenti no! È troppo orrore!”. 

“È vero. Esso ha strisciato su me leccandomi il viso con la lingua viscida... Oh! Ho preferito il colpo d’artiglio che mi ha aperto il petto ma che ha ucciso il serpente, al gelo dello stesso. 

Oh!” e una donna si porta le mani vacillanti e insanguinate al volto. 

“Eppure tu sei vecchia. Il serpente era serbato alle vergini”. 

“Hanno satireggiato sui nostri misteri. Prima Eva sedotta dal  serpente, poi i primi giorni del mondo: tutti gli animali”. 

“Già. La pantomima del Paradiso terrestre... Il direttore del Circo è stato premiato per essa” dice un giovane. 

“I serpenti, dopo averne stritolate molte, si sono gettati su  noi finché aprirono alle belve e fu il combattimento”. 

“Ci hanno cosparse di quell’olio e i serpenti ci hanno sfuggite come preda di cibo... Che sarà ora di noi? Io penso alla nudità...” geme una poco più che fanciulla. 

“Aiutami, Signore! Il mio cuore vacilla...”.  

“Io confido in Lui...”. 

“Io vorrei che Severo venisse, per il bambino...”. 

“È vivo tuo figlio?” Chiede una madre molto giovane che piange su ciò che era il figlio suo e che ora non è che un  pugnello informe di carne: un piccolo tronco, solo tronco,  senza testa, senza membra. 

“È vivo e senza ferite. Me lo sono messo dietro la schiena. 

La belva ha squarciato me. E il tuo?”. 

“Il suo piccolo capo dai ricci leggeri, i suoi occhietti di cielo, le sue piccole guance, le manine di fiore, i piedini che  imparavano appena a camminare sono ora nel ventre di una  leonessa... Ah! che era femmina e certo sa cosa è essere madre e non seppe avere pietà di me!…”. 

“Voglio la mamma! La mamma voglio! È rimasta col padre là per terra... E io ho male. La mamma mi farebbe guarire la pancina!...” piange un bambino di sei, sette anni, al quale un morso o una zampata ha aperto nettamente la parete  addominale, e agonizza rapidamente. 

“Ora andrai dalla mamma. Ti ci porteranno gli angeli del  cielo tuoi fratellini, piccolo Lino. Non piangere così...” lo conforta una giovane sedendosi al suo fianco e carezzandolo  con la mano meno ferita. Ma il bambino soffre sul duro  pavimento e trema, e la giovane, aiutata da un uomo, se lo  prende sui ginocchi e lo sorregge e ninna così. 

“Vostro padre dove è?” chiede Cleto ai due fratelli che lo hanno portato insieme all’accecato. 

“È divenuto cibo del leone. Sotto i nostri occhi. Mentre già  la belva gli mordeva la nuca disse: ‘Perseverate’. Non disse di  più perché ebbe la testa staccata...”. 

“Ora parla dal Cielo. Beato Crispiniano!”. 

“Beati fratelli! Pregate per noi”.  

“Per l’ultima lotta!”. 

“Per l’ultima perseveranza”.  

“Per amor di fratelli”. 

“Non temete. Essi, perfetti già nell’amore, tanto che il Signore li volle nel primo martirio, sono ora perfettissimi  perché viventi nel Cielo, e del Signore altissimo conoscono e  riflettono la Perfezione. Le spoglie loro, che abbiamo lasciate sull’arena, sono solamente spoglie. Come le vesti che ci hanno levate. Ma essi sono in Cielo. Le spoglie sono inerti. Ma essi vivi sono. Vivi e attivi. Essi sono con noi. Non temete. Non abbiate  preoccupazione per come morirete. Gesù lo ha detto92: ‘Non preoccupatevi delle cose della terra. Il Padre vostro sa di che avete bisogno’. Sà la vostra volontà e la vostra resistenza. Tutto sa e vi sovverrà. Ancora un poco di pazienza, o fratelli. E poi è  la pace. Il Cielo si conquista con la pazienza e con la violenza. 

Pazienza nel dolore. Violenza verso le nostre paure d’uomini.  Stroncatele. È l’insidia del Nemico infernale per strapparvi alla Vita del Cielo. 

Respingete le paure. Aprite il cuore alla confidenza assoluta. 

Dite: ‘il Padre nostro che è nei Cieli ci darà il nostro pane quotidiano di fortezza perché sà che noi vogliamo il suo Regno e moriamo per esso perdonando ai nostri nemici’. No. Ho detto una parola di peccato. Non ci sono nemici per i cristiani. Chi ci  tortura è nostro amico come chi ci ama. Ci è anzi duplice amico. Perché ci serve sulla terra a testimoniare la nostra fede, e  ci veste della veste nuziale93 per il banchetto eterno. 

Preghiamo per i nostri amici. Per questi nostri amici che non  sanno quanto li amiamo. Oh! veramente in questo momento  noi siamo simili a Cristo perché amiamo il nostro prossimo sino  a morire per esso. Noi amiamo. Oh! parola! Noi abbiamo imparato ciò che è essere dèi. Perché l’Amore è Dio, e chi ama è simile a Dio, è veramente figlio di Dio. Noi amiamo  evangelicamente non coloro dai quali attendiamo gioie e  compensi, ma coloro che ci percuotono e ci spogliano anche della vita. Noi amiamo col Cristo dicendo: ‘Padre, perdonali  perché non sanno ciò che fanno’. Noi col Cristo diciamo: ‘È giusto che si compia il sacrificio perché siamo venuti per compierlo e vogliamo che si compia’. Noi col Cristo diciamo ai  superstiti: ‘Ora voi siete addolorati. Ma il vostro dolore si muterà in gaudio quando ci saprete in Cielo. Noi vi porteremo dal Cielo la pace in cui saremo’. Noi col Cristo diciamo:  ‘Quando ce ne saremo andati manderemo il Paraclito a compiere i suoi misteriosi lavori nei cuori di quelli che non ci  hanno capito e che ci hanno perseguitato perché non ci hanno capito’. Noi col Cristo non agli uomini ma al Padre affidiamo lo  spirito perché lo sostenga col suo amore nella nuova prova. 

Amen”.  

Il vecchio Cleto, sventrato, morente, ha parlato con una  voce così forte e sicura che un sano non avrebbe tale. Ed ha  trasfuso il suo spirito eroico in tutti. Tanto che un canto dolce  si leva da quelle creature straziate... 

“Dove è mia moglie?” interroga una voce dal corridoio interrompendo il canto. 

“Severo! Sposo mio! il bambino è vivo! Te l’ho salvato! Ma a tempo giungi... perché io muoio. Prendi, prendi Marcellino nostro!”. 

L’uomo si fa avanti, si curva, abbraccia la sposa morente, raccoglie il bambino dalla mano tremante di lei e le due bocche, che si sono santamente amate, si uniscono un’ultima volta in un unico bacio deposto sulla testolina innocente. 

“Cleto... Benedici... Muoio...”. Sembra che la donna abbia  proprio trattenuto la vita sino all’arrivo dello sposo. Ora si abbatte in un rantolo fra le braccia del marito al quale sussurra: 

“Va’, va’... per il bambino... a Puden...”. La morte le tronca la  parola... 

“Pace ad Anicia” dice Cleto. 

“Pace!” rispondono tutti. 

Il marito la contempla stesa ai suoi piedi, svenata,  squarciata... Delle lacrime gli cadono dagli occhi sul viso della morta. Poi dice: “Ricordati di me, o mia sposa fedele!...”. Si  volge al vecchio suocero: “La porterò nella vigna di Tito. Caio e Sostenuto sono qui fuori con la barella”.  

“Vi fanno passare?”.  

“Si. Chi ha ancora parenti fra i vivi avrà sepoltura...”. 

“Col denaro?”. 

“Col denaro... e anche senza. Ognuno che vuole può venire a raccogliere i morti e a salutare i vivi. Sperano così che la vista  dei martiri indebolisca quelli che ancor liberi sono e li persuada  a non farsi cristiani, e sperano che le nostre parole...  Indeboliscano voi. Chi non ha parenti andrà al carnaio... Ma i nostri diaconi nella notte ricercheranno i resti...”. 

“Si prepara forse il nuovo martirio?”. 

“Sì. Per questo fanno passare i parenti e anche per questo nella notte i martiri verranno sepolti. Essi saranno occupati nello spettacolo...”. 

“Così a tarda ora? Che spettacolo mai nella notte?”. 

 “Sì. Quale spettacolo?”. 

“Il rogo. Quando sarà notte piena...”.  

“Il rogo!... Oh!...”  

“A coloro che sperano nel Signore le fiamme saranno come  la dolce rugiada dell’aurora. Ricordate i giovinetti di cui parla94  Daniele. Essi andarono cantando fra le fiamme. La fiamma è  bella! Purifica e veste di luce. Non le immonde belve. Non i  lubrici serpenti. Non gli impudichi sguardi sui corpi delle  vergini. La fiamma! Se resto di peccato è in noi, ci sia la fiamma  del rogo simile al fuoco del Purgatorio. Breve purgatorio e poi,  vestiti di luce, andiamo a Dio. A Dio: Luce, noi andremo!  Fortificate i vostri cuori. Volevano essere luce al mondo  pagano. I fuochi del rogo siano il principio della luce che noi 

daremo a questo mondo delle tenebre” dice ancora Cleto. 

Dei passi pesanti, ferrati, nel corridoio. “Decimo, sei vivo ancora?” chiedono due soldati apparendo nella stanza. 

“Si, compagni. Vivo. E per parlarvi di Dio. Venite. Perché io non posso venire a voi, perché non vedrò mai più la luce”.  “Infelice’’ dicono i due. 

“No. Felice. Io sono felice. Non vedo più le brutture del  mondo. Entrando dalle mie pupille le lusinghe della carne e dell’oro non mi potranno più tentare. Nelle tenebre della cecità  temporanea io vedo già la Luce. Dio vedo!...”. 

“Ma non sai che fra poco sarai arso? Non sai che perché ti amiamo avevamo chiesto di vederti, per farti fuggire se vivo eri ancora?”. 

“Fuggire? Così mi odiate da volermi levare il Cielo? Non eravate così nelle mille battaglie che sostenemmo fianco a fianco per l’imperatore. Allora a vicenda ci spronavamo ad essere eroi. Ed ora voi, mentre io mi batto per un imperatore eterno, immenso nella sua Potenza, mi consigliate alla viltà? Il  rogo? E non sarei morto volentieri fra le fiamme, durante gli assalti ad una città nemica, pur di servire l’imperatore e Roma: 

un uomo mio pari, ed una città che oggi è e domani non è più? 

Ed ora che do l’assalto al Nemico più vero per servire Dio e la Città eterna dove regnerò col mio Signore, volete che io tema le fiamme?”. 

I due soldati si guardano sbalorditi. 

Cleto parla di nuovo: “Il martire è l’unico eroe. Il suo eroismo è eterno. Il suo eroismo è santo. Non nuoce col suo  eroismo a nessuno. Non emula gli stoici dagli stoicismi aridi.  Non i crudeli dalle violenze inutili e nefande. Non prende  tesori. Non usurpa poteri. Dà. Dà del suo. Le sue ricchezze...  Le sue forze... La sua vita... È il generoso che si spoglia di tutto  per dare. Imitatelo. Servi supini di un crudele che vi manda a  dare morte e a trovare la morte, passate alla Vita, a servire la  Vita, a servire Dio. Forseché, caduta l’ebbrezza della battaglia, quando il segnale impone silenzio nel campo, voi avete mai  sentito la gioia che sentite essere nel vostro compagno? No.  Stanchezza, nostalgia, paura della morte, nausea di sangue e di  violenze... Qui... guardate! Qui si muore e si canta. Qui si muore  e si sorride. Perché noi non moriremo ma vivremo. Noi non conosciamo la Morte ma la Vita, il Signore Gesù”. 

Entrano ancora quei due nerboruti uomini venuti al  principio con le torce. Sono con loro altri due uomini vestiti  pomposamente. Le torce fumigano tenute alte dai due. Gli altri  che sono con loro si chinano a guardare i corpi... 

“Morto... Anche questo... Costei agonizza... Il fanciullo ghiaccia già... Il vecchio morrà fra breve... Questa?... Il serpente  le ha schiacciato le costole. Osserva, schiuma rosa è già alle labbra...” si consultano fra loro. 

“Io direi... Lasciamoli morire qui”. 

“No. Il giuoco è già fissato. Il Circo si riempie nuovamente...”.  
“Gli altri delle carceri basterebbero”. 
“Troppo pochi! Procolo non ha saputo regolare le masse.  Troppi ai leoni. Troppo pochi per i roghi...”.  
“Così è... Che fare?”. 
“Attendi”. Uno si porta in mezzo alla stanza e dice: “Chi di  voi è meno ferito sorga in piedi”. 
Si alzano una ventina di persone. 
“Potete camminare? Reggervi in piedi?”.  
“Lo possiamo”. 
“Tu sei cieco” dicono a Decimo. 
“Posso essere guidato. Non mi private del rogo, poiché  penso che a questo pensate” dice Decimo. 
“A questo. E vuoi il rogo?”. 
“Lo chiedo in grazia. Sono un soldato fedele. Guardate le  cicatrici delle mie membra. Per premio del mio lungo fedele servizio all’imperatore, datemi il rogo”. 
“Se tanto ami l’imperatore, perché lo tradisci?”. 
“Non tradisco né l’imperatore né l’impero, perché non faccio atti contro la loro salute. Ma servo il Dio vero che è l’Uomo Dio e l’Unico degno di essere servito sino alla morte”. 
“O Cassiano, con simili cuori i tormenti sono vani. Io te lo  dico. Non facciamo che coprirci di crudeltà senza scopo...” dice un intendente del Circo al compagno. 
“È forse vero. Ma il divo Cesare...”. 
“E lascia andare! Voi che camminate, uscite di qui!  Attendeteci presso le uscite. Vi daremo delle vesti nuove”. 
I martiri salutano quelli che restano. Un giovinetto si  inginocchia per essere benedetto dalla madre. Una fanciulla col  suo sangue appone una crocetta come fosse un crisma sulla  fronte della madre che la lascia per salire al rogo. Decimo abbraccia i due commilitoni. Un vecchio bacia la figlia morente  e si avvia sicuro. Tutti prima di uscire si fanno benedire dal  prete Cleto... I passi dei morituri si allontanano nel corridoio. 
“Voi rimanete ancora qui?” chiedono gli intendenti ai due soldati.  
“Si. Rimaniamo”. 
“Per qual motivo? È... pericoloso. Costoro corrompono i fedeli cittadini”. 
I due soldati scrollano le spalle. 
Gli intendenti se ne vanno mentre entrano dei fossori con  delle barelle per portare via i morti. Vi è un poco di confusione  perché con i fossori sono anche i parenti dei morti e dei  morenti e vi sono lacrime o addii fra questi e i malvivi. I due  soldati ne approfittano per dire a un fanciullo: “Fingiti morto.  Ti porteremo in salvo”. 
“Tradireste voi l’imperatore mettendovi in salvo mentre egli  ha fiducia in voi per la sua gloria?”. 
“No certo, fanciullo”. 
“E neppure io tradisco il mio Dio che è morto per me sulla Croce”. 
I due soldati, letteralmente sbalorditi, si chiedono: “Ma chi  dà loro tanta forza?”. E poi, col gomito appoggiato alla muraglia, a sostenere il capo, restano meditabondi osservando.  Tornano gli intendenti con schiavi e con barelle. Dicono: 
“Siete ancora pochi per il rogo. I meno feriti si siedano  almeno”. 
I meno feriti!... Chi più chi meno sono tutti agonizzanti. E non possono sedersi più. Ma le voci pregano: “io! io! Purché mi  portiate…”. 
Vengono scelti altri 11... 
“Voi beati! Prega per me, Maria! A Dio, Placido! Ricordati di  me, o madre! Figlio mio, chiama l’anima mia presto! Sposo mio, ti sia dolce il morire!...”. I saluti si incrociano... 
Le barelle vengono portate via. 
“Sorreggiamo i martiri col nostro pregare. Offriamo il  duplice dolore delle membra e del cuore che si vede escluso dal martirio per essi. Padre nostro...”. 
Cleto, che è paurosamente livido ed è morente, raccoglie le forze per dire il Pater. 
Entra uno trafelato. Vede i due soldati. Arretra. Rattiene il  grido che aveva già sulle labbra. 
“Puoi parlare, uomo. Non ti tradiremo. Noi, soldati di  Roma, chiediamo di essere soldati di Cristo”. 
“Il sangue dei martiri feconda le zolle!” esclama Cleto. E  rivolto al sopraggiunto chiede: “Hai i misteri?”. 
“Si. Ho potuto darli agli altri un momento prima che fossero portati nell’arena. Ecco!”. 
I soldati guardano stupiti la borsa di porpora che l’uomo si leva dal seno. 
“Soldati. Voi ci chiedete dove noi troviamo la forza. Ecco la forza! Questo è il Pane dei forti. Questo è Dio che entra a vivere in noi. Questo...”. 
“Presto! Presto, o padre! io muoio... Gesù... e morirò felice!  Vergine, martire e felice!” grida Cristina ansante negli spasimi della soffocazione. 
Cleto si affretta a spezzare il pane e a darlo alla giovinetta  che si raccoglie quieta chiudendo gli occhi. 
“Anche a me... e poi... chiamate i servi del Circo. Io voglio  morire sul rogo...” gorgoglia un fanciullo dalle spalle dilaniate e  dalla guancia aperta dalla tempia alla gola che sanguina. 
“Puoi inghiottire?”. 
“Posso! Posso. Non mi sono mai mosso né ho mai parlato  per non morire... prima della Eucarestia. Speravo... Ora...”. 
Il prete gli dà una mollichina del Pane consacrato. E il fanciullo cerca di inghiottire. Ma non riesce. Un soldato si china  impietosito e gli sorregge il capo mentre l’altro, trovata in un  angolo un’anfora con ancora un sorso d’acqua nel fondo, cerca  di aiutarlo ad inghiottire versandogli l’acqua stilla a stilla fra le labbra. 
Intanto Cleto spezza le Specie e le dà ai più vicini. Poi prega i soldati di trasportarlo per distribuire ai morenti l’Eucarestia. 
Poi si fa ricondurre dove era e dice: “Il nostro Signore Gesù Cristo vi ricompensi per la vostra pietà”. 
Il fanciullino che stentava a inghiottire le Specie ha un breve  affanno, si dibatte... Un soldato impietosito lo prende fra le  braccia. Ma mentre lo fa, un fiotto di sangue sgorga dalla ferita del collo e bagna la lorica lucente. “Mamma! il Cielo... Signore...  Gesù...”. Il corpicino si abbandona.  
“È morto... Sorride...”. 
“Pace al piccolo Fabio!” dice Cleto che impallidisce sempre  più. “Pace!” sospirano i morenti. 
I due soldati parlano fra loro. Poi uno dice: “Sacerdote del  Dio vero, termina la tua vita mettendoci nella tua milizia”. 
“Non mia... Di Cristo Gesù... Ma... non si può... Prima... 
bisogna essere catecumeni...”. 
“No. Sappiamo che in caso di morte viene dato il battesimo”.  
“Voi siete... sani...”.  
Il vecchio ansa... 
“Noi siamo morenti perché... Con un Dio quale è il vostro che vi fa tanto santi, a che restare a servire un uomo corrotto?  Noi vogliamo la gloria di Dio. Battezzaci: Io Fabio, come il  piccolo martire; e il mio compagno Decimo come il nostro  glorioso commilitone. E poi voleremo al rogo. A che vale la vita del mondo quando si è compresa la Vita vostra?”. 
Non c’è più acqua... nessun liquido... Cleto fa giumella della sua tremula mano, raccoglie il sangue che goccia dalla sua atroce ferita: “Inginocchiatevi... Io ti battezzo, o Fabio, nel nome del  Padre, del Figlio, dello Spirito Santo... Io ti battezzo, o Decimo,  nel nome del... Padre... del Figlio... dello Spirito... Santo... Il Signore sia con voi per la Vita... eterna...Amen!...”.  
Il vecchio sacerdote ha finito la sua missione, la sua  sofferenza, la sua vita... È morto... 
I due soldati lo guardano... Guardano per qualche tempo  quelli che muoiono lentamente, sereni... sorridenti fra le agonie, rapiti nell’estasi eucaristica.  
“Vieni, Fabio. Non attendiamo un attimo ancora. Con simili  esempi è sicura la via! Andiamo a morire per il Cristo!”.  
E rapidi corrono via per il corridoio incontro al martirio e alla gloria. 
Nel locale i gemiti si fanno sempre più lievi e più pochi... Dal Circo torna il fragore che era all’inizio. La folla torna a rumoreggiare in attesa dello spettacolo. 
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domenica 18 aprile 2021

Dalla Gerarchia Cardinalizia di Carlo Bartolomeo Piazza e dalle Rivelazioni Private della mistica Maria Valtorta

 

STATUA DI SANTA CECILIA

Santi Martiri del I – II e III Secolo

Ritrovamento dei corpi di Santa Cecilia, Valeriano, Tiburzio  e Papa Urbano. 


[…] Fù sommamente intento  il medesimo S. Pasquale con  pia gelosia, che non si  smarrissero, e fossero, come  era auvenuto, tolti li Corpi santi da’ Cimiteri, di levarli da essi, e distribuirli per diverse Chiese  dentro Roma, acciò che con  più culto, e divozione fossero  onorati, e trà gli altri usò  diligenza per ritrovare nel Cimiterio di Calisto dove  sapeva essere stato sepolto da  S. Urbano Papa, il corpo della  gloriosa Vergine, e Martire S. Cecilia; e no’l ritrovando, pensò, che, come si era  pubblicamente vociferato, fosse  stato robbato da Astolfo Re de’ Longobardi, che realmente,  come disse la stessa Santa, nella  visione apparsa al detto  Pontefice, onde con diligenza  grande la ricercò, ma non gli  riuscì di ritrovarla. Non potendo egli dunque sodisfare in ciò  al suo desiderio, si rivolse tutto a ristorare la Chiesa dedicata  alla medesima Santa, che per l’antichità ne andava in rovina; il che, come si è detto,  felicemente riuscì, ponendo nell’Altare rinovato, e nobilmente abbellito i Corpi de’ SS. 

Pontefici Urbano, e Lucio Papi,  e Martiri, di S. Massimo, di  novecento altri martiri; e di molti altri, il nome de’ quali è descritto in diverse tabelle e nella Chiesa e nell’ornatissima Confessione sotterranea; Gradì  sommamente la generosa, e pia  industria del Santo Pontefice  questa gloriosa Vergine e  Martire, e volle con un modo  meraviglioso consolarlo,  peròche trovandosi una  Domenica al Matutino avanti l’Altare di S. Pietro in Vaticano, ed essendosi di stanchezza, e nell’udire la musica addormentato, gli apparve la Santa in  un aspetto bellissimo di una  Verginella, con un abito  risplendente, e maestoso, e  lodando la diligenza, e pietà di  lui nel trasferire da’ Cimiteri li  Corpi de’ Santi, gli disse che auvicinato al suo in quello di  Calisto, che se fosse stata viva,  poteva parlargli, e che se bene i  Longobardi cercata l'havevano,  non però erano giunti per  grazia della Gran Madre di Dio  a ritrovarla: onde proseguisse  pure le sue industrie per  cercarla di nuovo. Allegro di  cosi lieta rivelazione, il Santo  Pontefice, andò con altri  Vescovi in abito Pontificale al  Cimiterio, cavò, cercò, ed  arrivò al nascosto tesoro,  riposto in una grand'Arca di  marmo, e dentro in un'altra di  cipresso; e in un'altra vicina ritrovarono i corpi de’ SS.  Valeriano, e Tiburzio l'uno  sposo, l'altro cognato della  Santa Vergine. Apertasi la  Cassa si vide il Corpo, vestito di  drappo ricamato a foglia(387)mi d'oro ancora spruzzato  di gocciole di sangue, e fu  creduto quello, che nelle Nozze  fatto gli haveva fatto lo stesso Sposo; ed a’ piedi vi erano i  pannilini, con i quali asciugato  gli havevano il sangue dalle  ferite, quando fù tre volte  percossa nel collo, dal che si raccoglie, che in que’ tempi non erano così facili li Fedeli a  levare le Reliquie de’ Martiri  dalle loro tombe; e perciò nello scavare i sagri Corpi de’ medesimi, si osserva esservi  diligentemente poste vicine le  ampolline del Sangue loro.  Appresso vi trovò il Corpo di S.  Urbano Papa. Portò con molta  celebrità questi SS. Corpi, con  la frequenza di tutto il popolo  di Roma in questa Chiesa, e sotto l’Altar maggiore nella  ristorata, ed ornata Confessione  onore-volmente le ripose,  donandogli molti preziosi  addobbi, vasi, ed ornamenti; e  di nuovo consagrandola, dedicò, come dice l’Anastasio,  il Monastero de’ Monaci a S. Andrea Appostolo, e San  Gregorio, fabbricato nel luogo  chiamato Proto, e Giacinto. 

Fece il Ciborio tutto d’argento di peso di libre  cinquantacinque, ed otto oncie. 

Coprì di ogn’intorno la Confessione di lamine d’argento dentro, e fuori, di  peso di 63 libre. Avanti il  Corpo della Santa vi pose nel cavare si era tanto un’Immagine d’argento di essa di peso di libre 95. Così pure di  argento fece il vestibolo dell’Altare, con diverse lamine, due colonne con un architrave,  con altre diverse Immagini pure  di argento indorato; due Canestri; e due Lampadi, di libre d’argento in tutto 226, con molte vesti di seta, e di broccato d’oro, descritte con curiosa osservazione degli usi antichi  distintamente dal medesimo  Anastasio. La suddetta traslazione de Corpi santi, viene  espressa in una lastra di marmo  sotto l'Altare con questi antichi  versi: 

 Hanc fidei zelo Paschalis  primus ab imo Ecclesia renovas  dum corpora sacra requirit  Elevat inventum venerandu  Martyris almæ Ceciliæ corpus;  hoc illud marmore condens  Lucius, Urbanus huic Pontifices  sociantur, vosque Dei testes  Tiburti, Valeriane Maximè,  cum dictis consortia digna  tenetis Hos colit egregios devota Roma Patronos. 

A cura di Mario Ignoffo 

giovedì 4 marzo 2021

Dalla Gerarchia Cardinalizia di Carlo Bartolomeo Piazza e dalle Rivelazioni Private della mistica Maria Valtorta

 


Santi Martiri del I – II e III Secolo

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Santa Cecilia. 

 22 luglio 1944. 

 Festività di S. Maria Maddalena. 


23 luglio 1944. 

 La bontà del Signore mi concede il proseguimento della visione. 

Vedo così il battesimo dei due fratelli,84 istruiti certo dal  Pontefice Urbano e da Cecilia. Lo comprendo perché Valeriano dice nel salutare Urbano: “Or dunque tu, che mi hai dato la conoscenza di questa gloriosa Fede, mentre Cecilia mia me ne  ha dato la dolcezza, aprimi le porte della Grazia. Che io sia di Cristo per esser simile all’angelo che Egli m’ha dato per sposa e che mi ha aperto vie celesti in cui procedo dimentico di tutto il  passato. Non tardare oltre, o Pontefice. Io credo. E ardo di  confessarlo per la gloria di Gesù Cristo, nostro Signore”. 

Questo lo dice alla presenza di molti cristiani che appaiono  molto commossi e festanti, e che sorridono al nuovo cristiano e alla felice Cecilia che lo tiene per mano, stando fra sposo e cognato, e che sfavilla nella gioia di quest’ora. 

La chiesa catacombale è tutta ornata per la cerimonia.  Riconosco drappi e coppe preziose che erano nella dimora di Valeriano. Certo sono stati donati per l’occasione e per inizio di una vita di carità dei nuovi cristiani. 

Valeriano a Tiburzio sono vestiti di bianco senza nessun ornamento. Anche Cecilia è tutta bianca e pare un bell’angelo.  Non vi è fonte battesimale vero e proprio. Almeno in questa catacomba non c’è. Vi è un largo e ricchissimo bacile appoggiato su un basso tripode. Forse in origine era un bruciaprofumi in qualche casa patrizia o un brucia-incensi. Ora fa da fonte battesimale. Le laminature d’oro, che rigano con greche e  rosoni l’argento pesante del bacile, splendono alla luce delle numerose lampadette che i cristiani hanno in mano. 

Cecilia conduce i due presso il bacile e sta loro al fianco  mentre il Pontefice Urbano, usando una delle coppe portate da Valeriano, attinge l’acqua lustrale e la sparge sulle teste chine sul bacile pronunciando la formula sacramentale. Cecilia piange di  gioia e non saprei dire dove guardi di preciso, perché il suo  sguardo, pur posandosi carezzoso sullo sposo redento, pare  vedere oltre e sorridere a ciò che solo lei vede. 

Non vi è altra cerimonia. E questa termina con un inno e la  benedizione del Pontefice. Valeriano, con ancora gocce di  acqua fra i capelli morati e ricciuti, riceve il bacio fraterno dei  cristiani e le loro felicitazioni per avere accolto la Verità. 

“Non ero capace di tanto, io, infelice pagano avvolto  nell’errore. Ogni merito è di questa soave mia sposa. La sua  bellezza e la sua grazia avevano sedotto me uomo. Ma la sua  fede e la sua purezza hanno sedotto lo spirito mio. Non le ho  voluto essere dissimile per poterla amare e comprendere più  ancora. Di me, iracondo e sensuale, ella ha fatto ciò che vedete: 

un mite e un puro, e spero, con l’aiuto di lei, crescere sempre più in queste vie. Ora ti vedo, angelo del verginale candore,  angelo della sposa mia, e ti sorrido poiché mi sorridi. Ora ti  vedo, angelico splendore!... La gioia del contemplarti è ben  superiore ad ogni asprezza di martirio. Cecilia, santa, preparami  ad esso. Su questa stola io voglio scrivere col mio sangue il nome dell’Agnello”. 

L’assemblea si scioglie e i cristiani tornano alle loro dimore. 

Quella di Valeriano mostra molti mutamenti. Vi è ancora  ricchezza di statue e suppellettili, ma già molto ridotta e  soprattutto più casta. Mancano il larario e i bracieri degli incensi  davanti agli dèi. Le statue più impudiche hanno fatto posto ad  altri lavori scultorei che, per essere o rappresentazioni di  bambini festanti o di animali, appagano l’occhio ma non offendono il pudore. È la casa cristiana. 

Nel giardino sono raccolti molti poveri e ad essi i neocristiani distribuiscono viveri e borse con oboli. Non vi sono  più schiavi nella casa, ma servi affrancati e felici. 

Cecilia passa sorridente e benedetta, e la vedo poi sedersi fra  sposo e cognato e leggere loro dei brani sacri e rispondere alle  loro domande. E poi, ad istanza di Valeriano, ella canta degli  inni che allo sposo devono piacere molto. Comprendo perché  sia patrona della musica. La sua voce è duttile e armoniosa, e le  sue mani scorrono veloci sulla cetra, o lira che sia, traendone  accordi simili a perle ricadenti su un cristallo sottile e arpeggi  degni della gola di un usignolo. 

E non vedo altro perché la visione mi cessa su questa armonia. 

Ritrovo Cecilia sola e comprendo già perseguitata dalla legge romana. 

La casa appare devastata, spoglia di quanto era ricchezza. Ma  questo potrebbe esser opera anche degli sposi cristiani. Il disordine invece fa pensare che siano entrati con violenza e con  ira i persecutori ed abbiano manomesso e frugato ogni cosa.  Cecilia è in una vasta sala seminuda e prega fervorosamente.  Piange, ma senza disperazione. Un pianto dato da un dolore  cristiano in cui è fuso anche conforto soprannaturale. 

Entrano delle persone. “La pace a te, Cecilia” dice un uomo sulla cinquantina, pieno di dignità. 

“La pace a te, fratello. Lo sposo mio?...” 

Il suo corpo riposa in pace e la sua anima giubila in Dio. Il  sangue del martire, anzi dei martiri, è salito come incenso al trono dell’Agnello unito a quello del persecutore convertito. 

Non abbiamo potuto portarti le reliquie per non farle cadere in mano dei profanatori”. 

Non occorre. La mia corona già scende. Presto sarò dove è  lo sposo mio. Pregate, fratelli, per l’anima mia. E andate. Questa casa non è più sicura. Fate di non cadere fra le unghie dei lupi  perché il gregge di Cristo non sia senza pastori. Saprete quando sarà l’ora di venire, per me. La pace a voi, fratelli”. 

Intuisco da questo che Cecilia era già in stato d’arresto. Non so perché è lasciata in casa sua, ma è già, virtualmente,  prigioniera. 

La vergine prega, avvolta in una luminosità vivissima, e  mentre delle lacrime scendono dai suoi occhi un sorriso celeste  le schiude le labbra. È un contrasto bellissimo in cui si vede il  dolore umano fuso col gaudio soprannaturale. 

Mi viene risparmiata la scena del martirio. Ritrovo Cecilia in una specie di torre, dico così perché l’ambiente è circolare come una torre. Un ambiente non vasto, piuttosto basso, almeno mi pare per la nebbia di vapore che lo empie e specie verso l’alto fa nube che vieta di vedere bene. È sola anche ora. Già abbattuta  ma non ancora nella posa che è stata eternata nella statua del Maderno (mi pare).85 

È su un fianco come se dormisse. Le gambe lievemente  flesse, le braccia raccolte a croce sul seno, gli occhi chiusi, un  lieve ansare di respiro. Le labbra molto cianotiche si muovono  lievemente. Certo prega. Il capo posa sulla massa dei capelli  semisfatti come su un serico cuscino. Il sangue non si vede. È  scolato via dai buchi del pavimento che è tutto traforato come  un crivello. Solo verso la testa il marmo bianco mostra anelli  rossastri ad ogni buco come li avessero, questi buchi, tinti all’interno con del minio. 

Cecilia non geme, non piange. Prega. Ho l’impressione che sia caduta così quando fu ferita e che così sia rimasta forse per  impossibilità di alzare il capo, il collo in specie, dai nervi recisi.  Pure la vita resiste. Quando ella sente che la vita sta per fuggire,  fa uno sforzo sovrumano per muoversi e porsi in ginocchio. Ma  non ottiene che di fare una semirotazione su se stessa e cadere  nella posa che le vediamo,86 sia del capo che delle braccia, sulle  quali si è inutilmente puntellata, e che sono slittate sul marmo  lucido senza sorreggere il busto. Là dove era prima il capo  appare una chiazza rossa di sangue fresco, ed i capelli da quel  lato della ferita87 sono simili ad una matassa di fili porpurei,  imbevuti di sangue come sono. 

La santa muore senza sussulti in un ultimo atto di fede,  compiuto dalle dita per la bocca che non può più parlare. Non vedo l’espressione del volto perché è contro il suolo. Ma certo ella è morta con un sorriso. 


Dice Gesù: 

 «La fede è una forza che trascina e la purezza un canto che  seduce. Ne avete visto il prodigio. 

Il matrimonio deve essere non scuola di corruzione ma di  elevazione. Non siate inferiori ai bruti, i quali non corrompono con inutili lussurie l’azione del generare. Il matrimonio è un sacramento. Come tale è, e deve rimanere, santo per non  divenire sacrilego. Ma anche non fosse sacramento, è sempre l’atto più solenne della vita umana i cui frutti vi equiparano quasi al Creatore delle vite, e come tale va almeno contenuto in  una sana morale umana. Se così non è, diviene delitto e lussuria. 

Due che si amino santamente, dall’inizio, sono rari, perché troppo corrotta è la società. Ma il matrimonio è elevazione  reciproca. Deve esser tale. Il coniuge migliore deve essere fonte  di elevazione, né limitarsi ad esser buono, ma adoperarsi perché alla bontà giunga l’altro. 

Vi è una frase nel Cantico dei cantici che spiega il potere soave della virtù: “Attirami a te! Dietro a te correremo all’odore  dei tuoi profumi”.88 

Il profumo della virtù. Cecilia non ha usato altro. Non è  andata con minacce e sussieghi verso Valeriano. Vi è andata  intrisa, come sposa da presentarsi al re, nei suoi meriti come in  tanti odoriferi oli. E con quelli ha trascinato al bene Valeriano. 

“Attirami a Te” mi ha detto per tutta la vita, e specie nell’ora in cui andava alle nozze. Sperduta in Me, non era più che una  parte di Cristo. E come in un frammento di particola vi è tutto  Cristo, così in questa vergine vi ero, operante e santificante  come fossi stato di nuovo per le vie del mondo. 

“Attirami a Te, perché Valeriano ti senta attraverso di me e noi (ecco l’amore vero della sposa) e noi correremo dietro di Te”. Non si limita a dire: “e io correrò dietro di Te perché non  posso più vivere senza sentirti”. Ma vuole che il consorte corra a Dio insieme a lei perché lui pure santamente nostalgico dell’odore di Cristo. 

E vi riesce. Come capitano su nave investita dai marosi - il  mondo - ella salva i suoi più cari, e per ultima lascia la nave,  solo quando per essi è già aperto il porto di pace. Allora il  compito è finito. Non resta che testimoniare ancora, oltre la  vita, la propria fede. 

Non vi è più bisogno di pianto. Esso era di amoroso affanno  per i due che andavano al martirio e che, perché uomini, potevano esser tentati all’abiura. Ora che sono santi in Dio, non 

più pianto. Pace, preghiera e grido, muto grido di fede: “io  credo nel Dio uno e trino”. 

Quando si vive di fede, si muore con uno splendore di fede  in cuore e sul labbro. Quando si vive di purezza, si converte senza molte parole. L’odore delle virtù fa volgere il mondo.  Non tutto si converte. Ma lo fanno i migliori fra esso. E ciò  basta. 

Quando saranno cognite le azioni degli uomini, si vedrà che  più delle altisonanti prediche sono valse a santificare le virtù dei  santi sparsi sulla terra. Dei santi: gli amorosi di Dio.»