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martedì 22 novembre 2022

Chi è venuto dall'aldilà?

 


L'ALDILA’ STUPENDA REALTA’ 

Il Paradiso

L'episodio qui riportato è uno dei miracoli studiati dalla Chiesa per la causa di Beatificazione di Papa Giovanni XXIII.

Suor Caterina Capitani, suora delle Figlie della Carità della provincia napolitana, cominciò ad accusare disturbi alla salute alcuni mesi dopo la vestizione. Era il 1962, la Suora aveva 18 anni e lavorava come infermiera presso gli Ospedali Riuniti di Napoli. Fino a quel tempo la sua salute era stata molto buona. Un giorno avvertì un dolore intercostale noioso, al quale non diede nessuna importanza. Dopo un paio di mesi però ebbe una emorragia e questa volta si spaventò. Era nella sua stanza. Ebbe un conato di vomito, corse al lavabo con la bocca piena di sangue molto rosso. Poiché le avevano insegnato che il sangue molto rosso proviene dal torace, pensò con terrore alla tisi. Con una simile malattia la sua vita di suora sarebbe finita perché la regola della Congregazione delle Figlie della Carità esige che le aspiranti religiose siano sane per poter affrontare i sacrifici che il lavoro in ospedale richiede.

Suor Caterina per il momento decise di non dir niente a nessuno. Per alcune notti non riuscì a dormire, ma poi, vedendo che l'emorragia non si ripeteva e che il dolore intercostale era scomparso, riprese la vita di sempre.

Per sette mesi non accadde più niente. Poi all'improvviso, senza alcun sintomo preventivo, ecco un'altra terribile emorragia che lasciò la suora molto spossata.

Cominciarono visite, controlli, esami clinici. Furono fatte radiografie del torace, dello stomaco, stratigrafie. Nessuno riusciva a trovare il perché di quelle emorragie.

Nel 1964 i medici degli Ospedali Riuniti si dichiararono vinti e Suor Caterina passò all'Ospedale «Ascalesi» sotto le cure del professor Alfonso DAvino.

Una eso fagoscopia rivelò una zona emorragica nel segmento toracico: sembrava che tutti i malanni provenissero da lì. Allora la Suora fu portata all'Ospedale Pellegrini dell'ematologo professor Giovanni Bile, ma anche egli non riuscì a migliorare la situazione. Restò un'ultima speranza: ricorrere al prof. Giuseppe Zannini, direttore dell'Istituto di semeiotica chirurgica dell'Università di Napoli, una personalità di spicco nel campo medico internazionale. Dopo una lunga visita e un'analisi minuziosa di tutti i referti degli altri medici, il professor Zannini iniziò una nuova cura che durò cinque mesi. Anche questa volta però la situazione non cambiò, per cui il professore decise di sottoporre la Suora a un intervento chirurgico.

Suor Caterina fu ricoverata nella Clinica Mediterranea e tre giorni dopo venne operata. L'intervento durò cinque ore. Lo stomaco, all'interno, era completamente ricoperto di varici. Una forma ulcerosa strana e rara, provocata forse da un cattivo funzionamento della milza e del pancreas che risultavano in pessime condizioni. Il professore fu costretto ad asportarle lo stomaco, la milza e il pancreas. Si trattò di un intervento molto delicato e le probabilità che la Suora uscisse viva dalla sala operatoria erano minime. Il pericolo sembrava superato. Le consorelle di Suor Caterina, senza perdere la fiducia, continuavano a pregare con fervore Papa Giovanni.

Nei giorni seguenti l'operazione lo stato di salute della Suora andò peggiorando. Durante la prima notte ebbe un collasso, poi un blocco intestinale la gonfiò come una botte. Il professore, molto preoccupato, pensava che fosse necessario un altro intervento. Ma dopo nove giorni le condizioni della Suora migliorarono all'improvviso, ma fu un miglioramento illusorio.

Tre giorni dopo, mentre la Suora stava sorseggiando un po' di liquido ed ecco che divenne cianotica e perse i sensi. Accorsero i medici con l'ossigeno. La visitarono riscontrandole la pleurite. In seguito alle cure appropriate ci fu un miglioramento e dopo dieci giorni fu in grado di uscire dalla clinica.

Ancora una volta però il miglioramento fu brevissimo: dopo due settimane cominciò a peggiorare. Suor Caterina vomitava succhi gastrici in grande quantità.

Erano così forti che le bruciavano la pelle. Dopo alcuni giorni aveva la parte inferiore della faccia ridotta a una piaga e poiché non riusciva a ingerire niente, veniva nutrita con flebloclisi. Il professore Zannini, sempre più preoccupato, decise di mandarla a casa, a Potenza, per provare se l'aria nativa potesse giovarle. Ma dopo due mesi la Suora ritornò a Napoli peggiore di quando era partita. Sembrava un cadavere.

Il 14 maggio 1966, dopo una breve crisi di vomito, si era aperto sullo stomaco un buco dal quale uscivano succhi gastrici, sangue e quel poco di succo d'arancia che la Suora aveva bevuto poco prima. Si era formata una perforazione che aveva causata una fistola esterna. Era in atto una peritonite diffusa. La febbre era salita a 40. La situazione era disperata. Il professor Zannini la fece ricoverare immediatamente all'Ospedale della Marina. Le ordinò delle medicine in attesa dello sviluppo della crisi, perché un intervento chirurgico in quelle condizioni era impensabile.

Essendo in pericolo di morte, fu concesso alla Suora di emettere i voti anzitempo e dopo le fu amministrato l'Olio degli Infermi.

Nel frattempo una consorella le portò da Roma una reliquia di Papa Giovanni, che Suor Caterina mise sulla perforazione dello stomaco e pregava il Papa di portarla con lui in Paradiso. La fine si avvicinava.

Il 25 maggio verso le 14,30 Suor Caterina si assopì. A un certo punto sentì una mano che le premeva la ferita sullo stomaco e una voce d'uomo che la chiamava. La Suora pensò che fosse il professor Zannini che ogni tanto veniva a controllare le sue condizioni. Suor Caterina si girò verso la parte da cui veniva la voce e vide, accanto al suo letto, Papa Giovanni. Era lui che teneva la mano sulla ferita dello stomaco. Papa Giovanni le dice: Non temere, non hai più niente. Suona il campanello, chiama le suore che stanno in cappella, fatti misurare la febbre e vedrai che la temperatura non arriverà neppure a 37 gradi.

Mangia tutto quello che vuoi, come prima della malattia. Non avrai più niente. Va dal professore, fatti visitare, fa'delle radiografie e fai mettere tutto per iscritto, perché un giorno queste cose serviranno.

La visione scomparve e solo allora mi resi conto che non era stato un sogno. Suor Caterina si sentiva bene, non aveva più alcun dolore. Suona il campanello, le suore accorrono. La madre superiora pensò subito che la suora fosse in preda al delirio che precede la morte.

Trovarono la Suora seduta a metà letto. La guardavano trasognate. Suor Caterina, non potendo contenere la gioia, quasi gridando disse: Sono guarita. È stato Papa Giovanni. Misuratemi la febbre, vedrete che non ho più nulla. La febbre arrivò a 36,8. Ora datemi da mangiare perché ho fame.

La febbre arrivò a 36,8. Con grande voracità ingoiò semolino, polpette, una minestrina, anche un gelato. Era guarita completamente. Della fistola nessuna traccia: la pelle era liscia, pulita e bianca. Allora Suor Caterina raccontò alle sue consorelle l'apparizione di Papa Giovanni.

Da quel giorno Suor Caterina non ha avuto più niente. I medici la visitarono, la sottoposero a decine di radiografie. Dei suoi malanni non c'era più nessuna traccia.

Il giorno dopo il miracolo la suora riprese una vita normale. Sono trascorsi più di 27 anni e ella sta benissimo.

Il testimonio più prezioso del miracolo è il professor Zannini, il quale afferma: La guarigione di Suor Caterina è un caso di cui non trovo spiegazione nella scienza medica. Ho operato io l'ammalata, le ho asportato quasi tutto lo stomaco perché affetto da una gastrite ulcerosa emorragica gravissima. Le lasciai poco più di un centimetro di stomaco. Le asportai anche la milza. Ci fu una convalescenza difficile, l'ammalata non poteva nutrirsi. Poi si aprì la fistola, ci fu fuoriuscita di liquido, peritonite, febbre altissima, stato ansioso grave, condizioni disperate.

Non era possibile intervenire con una nuova operazione. Feci delle prove: tutto quello che l'ammalata beveva usciva dalla fistola. Consigliai trasfusioni, plasma, antibiotici, più che altro come terapia d'attesa. Non ebbi successo: la fistola s'ingrandì e le condizioni dell'ammalata peggiorarono. Avevo pensato di far trasportare Suor Caterina alle sezione rianimazione degli Ospedali Riuniti di Napoli per fare un ultimo tentativo. Invece ricevetti una telefonata in cui mi diceva che la Suora era migliorata. Andai a trovarla e con mia somma sopresa la trovai perfettamente guarita. Per il momento non venni informato di quello che era realmente accaduto. Continuai il mio lavoro di medico sottoponendo l'ammalata ad esami radiografici, visite, ecc. Nessuna traccia di malattia. Solo venti giorni dopo la superiora m'informò dell'apparizione di Papa Giovanni.

Affermo che non ho mai visto una cosa del genere, né posso immaginare come ciò sia potuto accadere. Non trovo modo di spiegare scientificamente quello che è accaduto.

Sono un medico e ho seguito il caso con la freddezza del medico. Sono stato anche più pignolo e scrupoloso dopo che mi hanno raccontato dell'apparizione di Papa Giovanni.

Sono pienamente convinto che si tratta di una guarigione assolutamente inspiegabile, al di fuori delle leggi fisiologiche e dell'esperienza umana. Il fatto che resista da tanti anni, senza ricadute, la rende ancora più inspiegabile e insieme importante.

(Da « Un uomo mandato da Dio - Biografia di Giovanni XXIII» di Renzo Allegri - Editrice Ancora Milano).

P. GNAROCAS N.I.


sabato 27 agosto 2022

GIUDIZIO PARTICOLARE E UNIVERSALE - Giudizio Particolare - Giudizio Universale



L'ALDILA’ STUPENDA REALTA’

Il Paradiso


Giudizio Particolare

Il Giudizio Particolare è una delle verità rivelate. Infatti l'Apostolo Paolo (Ebrei 9,27) dice: È stabilito che gli uomini muoiano una sola volta; e dopo la morte venga il giudizio.

Il Catechismo di S. Pio X, in risposta alla domanda 97, risponde: «Ci sono due giudizi: l'uno particolare, di ciascun'anima, subito dopo la morte; l'altro universale, di tutti gli uomini, alla fine del mondo».

Il Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 1022, afferma: «Ogni uomo fin dal momento della sua morte riceve nella sua anima immortale la retribuzione eterna, in un giudizio particolare che mette la sua vita in rapporto a Cristo, per cui o passerà attraverso una purificazione, o entrerà immediatamente nella beatitudine del Cielo, oppure si dannerà immediatamente per sempre».

Il Giudizio particolare esprimerà con esattezza la condizione in cui l'uomo, nei riguardi di Dio, si troverà al momento della morte: condizione d'amore (se è morto in grazia di Dio), o di odio (se è morto in peccato grave).

Il giudizio particolare è immutabile, perché l'uomo, dopo la morte, non può più cambiare l'orientamento della sua volontà sia verso il bene, sia verso il male.

Non dobbiamo però pensare al giudizio particolare alla maniera dei tribunali umani, perché la sentenza del giudizio particolare viene percepita dall'uomo nell'intimo della sua coscienza, la quale, nella luce sfolgorante di Dio, sarà pienamente illuminata nell'esatta valutazione di se stessa e del giudizio divino a suo riguardo. Il Papa Paolo VI, nella sua Professione di Fede, afferma: «Coloro che hanno risposto di sì all'Amore e alla Misericordia di Dio, andranno alla vita eterna (del Paradiso); e andranno nel fuoco inestinguibile (dell'Inferno) coloro che fino all'ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto».

Perciò la salvezza o la perdizione eterna di ciascun uomo dipende dal suo giudizio particolare, per cui il Conc. Vat. II (Lumen Gentium - n. 48 d) afferma: «Siccome non conosciamo né il giorno né l'ora (della nostra morte) bisogna, come ci avvisa il Signore, di vigilare assiduamente affinché, finito l'unico corso della nostra vita terrena, meritiamo entrare con Lui al banchetto nuziale (cfr. Mat. 25,31 e 46), ed essere annoverati fra i Beati (in Paradiso), né ci si comandi, come ai servi cattivi e pigri (cfr. Mat. 25,26 e 41) di andare al fuoco eterno, nelle tenebre esteriori dove ci sarà il pianto e lo stridore dei denti (cioè all'Inferno)».


Giudizio Universale

Il Giudizio Universale, che avverrà alla fine del mondo, non riguarda direttamente il singolo uomo, già giudicato col giudizio particolare, ma riguarda l'umanità intera per la manifestazione pubblica dell'infinita Bontà, Misericordia e Giustizia di Dio, che ha voluto o permesso (per rispetto alla libertà umana) tutti gli avvenimenti dei singoli individui, e tutti gli avvenimenti sociali dell'umanità intera.

Il giudizio universale è una verità rivelata. Gesù Cristo ne ha parlato più volte in termini chiari e precisi. Mat. 24: «Quando verrà il Figlio dell'uomo, verrà nella sua gloria con tutti i suoi Angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno radunate davanti a Lui tutte le genti, ed Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore (cioè i buoni) alla sua destra e i capri (cioè i cattivi) alla sinistra... Allora dirà a quelli di destra: Venite, benedetti dal Padre mio, possedete il Regno preparatovi fin dalla fondazione del mondo! E poi dirà ai cattivi: Via da me, maledetti, al fuoco eterno, preparato al diavolo e ai suoi angeli... E questi andranno all'eterno supplizio; i giusti poi alla vita eterna».

Questo linguaggio è molto chiaro e non ammette dubbi, tuttavia, perché fosse ben compreso da tutti, volle chiarirlo ancor meglio raccontando la parabola della zizzania cresciuta in mezzo al grano (Mat. 13,24-30): « Un uomo ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No - rispose - perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio».

Cosa volle significare con questa parabola, il Signore? Ecco la spiegazione data dallo stesso Gesù: «Colui che ha seminato il buon grano è il Figlio dell'uomo (cioè Gesù Cristo); il campo è il mondo (cioè gli uomini che sono nel mondo); il buon seme sono i figli del Regno (cioè i buoni); la zizzania sono i figli del maligno (cioè i cattivi); il nemico che ha seminato la zizzania è il Demonio; l'epoca della raccolta è la fine del mondo, e i mietitori sono gli Angeli. Come dunque, all'epoca della raccolta, si raccoglie la zizzania e si getta nel fuoco, così alla fine del mondo il Figlio dell'uomo manderà i suoi Angeli che separeranno tutti gli operatori d'iniquità e li getteranno in quella fornace di fuoco (cioè l'Inferno) dove vi sarà pianto e stridor di denti; mentre i giusti risplenderanno come il sole nel Regno del loro Padre Celeste (cioè in Paradiso)». Poteva Gesù assicurarci in modo più chiaro della realtà del Giudizio finale, universale?


I motivi del Giudizio Universale

Il Giudizio Universale, ci dice il Catechismo, si farà per la gloria di Dio, per la gloria di Gesù Cristo, per la gloria degli eletti, per la vergogna e la confusione dei cattivi.

1) Per la gloria di Dio. - Ci furono e ci sono uomini arroganti, superbi, ribelli che hanno criticato e criticano la condotta di Dio nel governo del mondo. Il fatto che spesso i cattivi trionfano e prosperano, mentre i buoni soffrono nell'umiliazione e nelle avversità, dà motivo a molti di bestemmiare la divina Provvidenza. Col Giudizio universale Dio farà conoscere a tutti la sua infinita Sapienza, Giustizia, Misericordia, Santità e Amore nel governo del mondo e di ogni singola creatura, darà la risposta a tutti i nostri «perché» insoluti.

2) Per la gloria di Gesù Cristo. - Egli, Figlio di Dio e fatto Uomo per la nostra salvezza, quanto soffrì nella sua vita terrena, a cominciare dalla sua concezione nel grembo materno fino al supplizio più infame riservato agli schiavi, la croce. Quanti insulti, quante umiliazioni, quante offese da parte dei suoi nemici di allora. E chi può numerare tutti gli insulti, le bestemmie, le offese dai suoi nemici lungo i secoli! Col Giudizio universale Egli verrà pieno di maestà e di grandezza a rivendicare il suo onore, a confondere i suoi nemici, a mostrare a tutti la sua innocenza, la sua giustizia, la sua santità, la sua divinità... Mostrerà a tutti la sua Maestà divina e l'esaltazione e il trionfo come Giudice supremo!

3) Per la gloria dei buoni. - Vi sono sulla terra molte anime elette, tanto care al Signore, ma sconosciute, disprezzate, spesso perseguitate, calunniate, derise. Il Giudizio universale mostrerà a tutti la grandezza e le virtù dei buoni, restituirà l'onore a tanti innocenti condannati ingiustamente, esalterà i Martiri davanti ai loro carnefici, gli oppressi davanti ai loro oppressori; esalterà davanti a tutti il bene immenso che i buoni hanno fatto all'umanità intera con la loro santa vita!

4) Per la vergogna e confusione dei cattivi. - Quanti peccatori ci sono nel mondo le cui opere cattive non sono conosciute e vengono stimate persone onorate e degne di rispetto! Quanti dal mondo vengono chiamati «grandi», vengono rispettati, stimati, esaltati, applauditi, perché sanno mascherare le loro sozzure con l'astuzia e l'ipocrisia. Quanti scandalosi, tanto applauditi nel mondo, hanno trascinato nel fango innumerevole anime! Ebbene il Giudizio Universale smaschererà dinnanzi a tutti le magagne di tutti questi figli del maligno, i quali, per la vergogna pubblica e per la paura del Divin Giudice, (Luca 23,30): «Cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! e ai colli: Copriteci!».

P. GNAROCAS N.I.


domenica 6 marzo 2022

L'ALDILA’ STUPENDA REALTA’ - Il Paradiso

 


Chi è venuto dall'aldilà?

Don Teodosio Galotta, salesiano di Napoli, era ammalato così gravemente che i suoi parenti gli avevano preparato il loculo al cimitero con l'iscrizione già fatta.

L'urologo, dott. Bruno, fece questa diagnosi: Neoplasia prostatica con metastasi ossee e polmonari, una prostata aumentata di volume, di consistenza lignea e di superficie bornoccoluta.

La diagnosi era stata confermata dalle radiografie: Alterazione strutturale del terzo prossimale del femore destro e delle branche ischio-pubiche, specie a sinistra, per lesioni del tipo osteolitico. Nei campi polmonari alti, specie a destra, presenza di noduli neoplastici metastatici.

Descrivendo poi dettagliatamente quanto riscontrato, il radiologo, pro f. Acampora, aveva aggiunto: L'alterazione si presenta con scomparsa della normale trabecolatura ossea, sostituita da aree di osteolisi alternate ad aree di addensamento osseo, riproducenti il tipico quadro neoplastico del tipo osteoclastico e in parte osteoclastico. Successivamente si notò una frattura del piccolo trocantere di destra...

L'internista dott. Schettino, nella sua dichiarazione scritta, aveva parlato, in occasione dei due gravi collassi periferici, di condizioni fisiche molto precarie e di situazione molto pericolosa per la vita del paziente. Il medico legale a sua volta, dopo aver esaminato tutta la documentazione, disse che si trattava di una diagnosi precisa e non di un sospetto diagnostico o di un enunziato nosologico di probabilità.

La notte del 25-10-1976 Don Teodosio Galotta arrivò alla fine: era quasi in coma. L'assistente toccandogli il polso si lasciò sfuggire: Non si sente più.

Don Galotta, che ancora capiva, al sentire questo, invocò nel suo cuore i due martiri salesiani della Cina: Mons. Versaglia e Don Caravario, aiutatemi voi.

Subito gli comparvero i due martiri e gli dissero: Non temere, ci siamo noi.

All'istante Don Galotta guarì completamente. La documentazione medica è ora a Roma presso la Sacra Congregazione per le Cause dei Santi, per la beatificazione dei due martiri.

P. GNAROCAS N.I.


domenica 21 novembre 2021

L'ALDILA’ STUPENDA REALTA’ - Il Paradiso

 


LA MORTE

Prima di iniziare l'argomento del Paradiso, accenniamo alle verità che lo precedono: morte, giudizio, inferno, purgatorio, chiamati «novissimi».

Vogliamo vivere da buoni cristiani e morire della morte dei giusti? Ascoltiamo quello che ci dice la parola di Dio (Eccl. 7,20): «Memorare novissima tua et in aeternum non peccabis», cioè richiamatevi spesso alla memoria i vostri novissimi e non peccherete mai. Incominciamo con la morte, alla quale molti non vorrebbero pensarci mai. Purtroppo, però, sia che vi pensiamo o no, essa è inevitabile per tutti.

Spesso si sente dire con una certa tristezza: «Perché Dio ci fa morire? Perché tronca la vita delle creature uscite dalle sue mani»?

Si risponde: «Dio non crea per distruggere. Egli è la Vita e non poteva volere la morte. Egli è l'Amore e non poteva fare una cosa così dolorosa. Egli ha creato l'uomo per la felicità e per la vita immortale. Perché allora, si obietta, la sofferenza e la morte attanagliano l'umanità? La risposta ci viene data dalla parola di Dio, incisa nella Sacra Scrittura Sap. 2,23): «Dio ha creato l'uomo per l'immortalità; lo fece a immagine della propria natura. La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo».

Satana, ribellatosi a Dio per orgoglio, lo odia. Però, non potendo sfogare il suo odio contro il suo Creatore, lo sfoga contro l'uomo, creatura prediletta da Dio, e verso di lui nutre una grande invidia perché andrà a occupare in Paradiso il posto perduto da lui e dai suoi angeli ribelli. Per questo tenta gli uomini a ribellarsi a Dio, per neutralizzare il suo disegno d'amore verso le creature umane, far perdere loro il Paradiso e renderli suoi schiavi all'Inferno. La prima creatura a essere tentata fu Eva, che, sedotta dalle lusinghe di Satana, disubbidisce a Dio e persuade suo marito Adamo a fare altrettanto. Commettono un peccato gravissimo di orgoglio, di superbia, di ribellione a Dio, chiamato «peccato originale» perché commesso da loro che sono l'origine dell'umanità.

Commesso il peccato originale, ecco echeggiare la voce della Giustizia Divina (Gen. 3,16-19): «II Signore Dio disse alla donna: Moltiplicherò i tuoi dolori e i tuoi parti, con dolore partorirai i figli; sarai sotto la potestà del marito ed egli ti dominerà. Poi disse ad Adamo: Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dal frutto dell'albero, di cui ti avevo comandato di non mangiarne, maledetta sia la terra per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita... con il sudore della tua fronte mangerai il pane finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!».

Come nei figli si trasmettono i difetti dei loro genitori, così anche in noi, discendenti da Adamo ed Eva, si trasmette la pena del loro peccato: sofferenza e morte.

Dal giorno della condanna della Giustizia Divina contro l'uomo ribelle, noi siamo diventati vittime della fatica, del dolore e della morte. Però verrà giorno, l'ultimo dei giorni, e su quella polvere, in cui si è ridotto il nostro corpo, echeggerà onnipotente il comando della Misericordia Divina: «Sorgete o morti!». Noi risorgeremo. Infatti nel Vangelo (Giov. 5,28-29) Gesù afferma solennemente: «Verrà l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri (cioè tutti i morti), udranno la sua voce (la voce imperativa di Gesù) e ne usciranno fuori: quanti fecero il bene, per una resurrezione di vita, e quanti fecero il male, per una resurrezione di condanna».

La nostra morte perciò non è eterna, ma temporanea, fino alla fine del mondo. Per questo l'Apostolo S. Paolo ci esorta a non piangere come i pagani che non hanno speranza.

Con la morte ha inizio la vera vita, quella eterna. Tanto la Sacra Scrittura, quanto il Magistero della Chiesa insegnano che la salvezza o la dannazione eterna dipendono dalla condizione in cui si trova l'anima al momento della morte. La vita terrena è il periodo dell'unica prova che finisce con la morte, la quale fissa la condizione definitiva della persona: o beata in Paradiso, o sofferente nell'Inferno.

Con la morte l'unica prova è finita e non si ripeterà più, contrariamente a quanti credono erroneamente alla « reincarnazione», teoria che sostiene che le anime, le quali al momento della morte non sono abbastanza purificate, passerebbero in altri corpi, per riprendere quel cammino di purificazione che le conduca alla purificazione finale e alla salvezza.

La teoria della reincarnazione è falsa, infatti il 2° Concilio di Lione (XIV ecumenico-1274) definì che le anime di coloro che muoiono in peccato mortale «subito» discendono all'Inferno. - Il recente Catechismo della Chiesa Cattolica, al numero 1013, dice: «La morte è la fine del pellegrinaggio terreno dell'uomo, è la fine della grazia e della misericordia che Dio gli offre per realizzare la sua vita terrena secondo il disegno divino e per decidere il suo destino ultimo. Quando è "finito l'unico corso della nostra vita (Conc. Ecum. Vat. II - Lumen Gentium, 48), noi non ritorneremo più a vivere altre vite terrente, perché 'È stabilito per gli uomni che muoiano una sola volta (Eb. 9,27)' Quindi non c'è reincarnazione dopo la morte" ».

Questa è la dottrina rivelata da Dio e insegnata dalla Chiesa, di conseguenza è cosa di somma importanza trovarsi al momento della morte in grazia di Dio.

Nonostante si stia in grazia di Dio, anche per il cristiano la morte mantiene il suo aspetto duro e ripugnante, perché la morte è punizione del peccato. Infatti l'Apostolo Paolo (Rom. 5,12; 6,23) afferma: «Per colpa di un uomo solo, il peccato entrò nel mondo e, a causa del peccato, la morte: e così la morte si è estesa a tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato... La morte è lo stipendio del peccato». Questa pena di un bene già posseduto è una punizione. Il cristiano, però, dietro gli insegnamenti di Gesù, si sforza di superare quanto gliela rende dura e ripugnante con consolanti considerazioni che quasi trasfigurano la morte.

Prima di tutto l'esempio di Gesù Cristo. Se Egli ha voluto sottoporsi alla morte, Lui innocente, quasi per condividere con ciascuno dei peccatori la pena del peccato, da parte nostra l'accettazione della morte è un atto d'amore verso il Cristo. Poiché non ci può essere sacrificio più grande che quello della vita, accettare la morte significa compiere il supremo sacrificio, e così la morte diventa l'atto sommamente espiatorio e sommamente meritorio. Perciò la morte accettata è la testimonianza suprema dell'amore della creatura per il suo Creatore.

Quando poi si pensa che la morte ci pone nella sicurezza assoluta di non poter più peccare e perdersi; ci toglie dall'esilio terreno per collocarci eternamente nella patria celeste, nella patria della pace, della gioia, dell'amore, della felicità eterna, allora si comprende come i Santi guardavano alla morte non solo con accettazione, ma con desiderio e trasporto. Per esempio, S. Teresa del Bambino Gesù, quando ebbe il primo sbocco di sangue, segno della sua tesi avanzata, scrive: «Pensai che forse morivo, e l'anima mia era colma di gioia... la speranza di andare in Cielo mi faceva esultare di letizia».

Certamente non tutti possiamo pretendere di arrivare a questo livello di vita spirituale, cui pochi privilegiati sono portati dalla grazia divina. Tutti però possiamo e dobbiamo arrivare a guardare la morte (senza poter escludere purtroppo la tristezza e la trepidazione per la vita vissuta su questa terra) con serena speranza per la felicità che ci attende nella patria celeste.

Questi due concetti sono bene espressi nel Prefazio dei Defunti, quando dice: «I fedeli che sono rattristati dalla certezza di dover morire, sono però consolati dalla promessa della futura immortalità. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un'abitazione eterna nel Cielo».

Non ci è vietato di piangere né sulla nostra morte, né sulla morte dei nostri cari. Ci è vietato invece di disperarci e di ribellarci. Piangere è della natura, ma essa è sublimata dalla grazia, la quale ci fa rassegnati e speranti. Disperarsi invece è l'agire di chi respinge la fede, la redenzione e Cristo stesso.

Poiché ognuno di noi dovrà morire, sforziamoci di tener presenti queste riflessioni e di esprimere spesso a Dio la nostra volontà di accettare la morte. Specialmente dobbiamo sforzarci di vivere in modo da non temere di morire, poiché quello che rende ansiosa e spaventosa la morte è proprio ciò che ci attende dopo di essa.

Purtroppo ci sono tanti che, dimenticando il fine per cui Dio ci ha creati, vivono come se non dovessero morire mai. Dalla mattina alla sera (e ora nelle discoteche anche la notte) si agitano, si affannano per accumulare denaro e beni terreni, per gustare i piaceri dell'erotismo, per avere tutte le comodità della vita, ecc. Ma ecco che arriva la morte che in un istante strapperà via tutte queste cose, facendo sanguinare il loro cuore nella delusione e forse nella disperazione. Cosa rimane a costoro dei beni terreni? Quello che rimase al fattore del ricco mugik, narrato dallo scrittore russo, Dostoievski, in uno dei suoi romanzi.

« Un ricco mugik (contadino russo benestante), che possedeva grandissime estensioni di terre, chiamò un giorno il più povero dei suoi fattori e gli disse: "Voglio premiare la tua lunga fedeltà. Avrai terra per te, quanto ti basta. Tutto il terreno che domani riuscirai ad attraversare dall'alba al tramonto, sarà tuo! ».

Il povero uomo credette di sognare. Quella notte non dormì per l'ansia. Al primo chiarore dell'alba era già in cammino, per non perdere un solo minuto di un giorno così prezioso. Quante versete (misura russa uguale a m. 1066) avrebbe percorso prima del tramonto? Correva, correva... Non aveva corso così neppure negli anni giovanili. La rugiada irrorava i suoi piedi e una brezza freschissima batteva la sua fronte ardente. A poco a poco il sole saliva. Anche egli ora saliva l'erta scoscesa, gettando avide occhiate su quella terra ubertosa, che sarebbe stata sua e dei suoi figli.

A mezzogiorno, col fianto ansante, con gli occhi stravolti, non volle arrestare la corsa folle, neppure per mangiare un tozzo di pane, o per dissetarsi a una sorgente. Avrebbe perduto mezza verseta di terreno; e si trattava dell'avvenire suo, della sua famiglia, e perfino dei lontani parenti, che avrebbeo avuto la loro parte di tanta fortuna.

Trascorsero altre ore spossanti, finché il cielo imbrunì; l'ombra delle alte piante ormai si allungava. Avanti, avanti!... Ma ora non correva più, camminava trascinando i piedi, premendo forte il cuore... Oh, tra poco, avrebbe dormito, e sulla terra di sua proprietà! Quando l'ultimo raggio del sole morente arrivò ai suoi occhi stravolti dall'immane fatica, egli disse: Basta! Ma i piedi non lo sostennero più, gli occhi non videro più... il cuore, scoppiatogli in petto, aveva cessato di battere. Il povero uomo non si rialzò per godere la terra sua. L'indomani fu scavata la fossa: lunga tre metri, larga uno, profonda due.

Ecco la terra che basta a un uomo!" ».

La morte dovrebbe servire a far riflettere tanta gente che vive e si comporta come se non dovesse mai morire, e che spesso si accapiglia per accumulare beni labilissimi, perché li considera qualche cosa di assoluto, mentre il Signore ci dice (Mat. 8,36 e 16,26): «Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde l'anima?». Con queste parole, che hanno suscitato tante conversioni, Gesù ci spinge a un orientamento corretto della vita terrena, per non correre il rischio di perdere la vita eternamente beata.

Il vero cristiano deve considerare la morte come il momento che lo libera dai tanti guai di questa vita terrena; che lo libera da ogni dolore; che lo ricongiunge ai suoi cari che l'hanno preceduto alla Casa del Padre; che l'introduce nel Paradiso: Regno di pace, di gioia, d'amore, di felicità eterna.

Il 3 giugno il Papa Giovanni XXIII lasciava questa terra per sempre. Quando gli fu annunciato che il suo tumore era maligno e che ormai si avvicinava alla fine, egli disse: «Non vi preoccupate per me perché le valigie sono preparate. Io sono pronto, anzi prontissimo a partire». Ai suoi fratelli che piangevano disse: «Non piangete, perché io sto per incontrarmi con papà, con mamma, coi fratelli e le sorelle che mi hanno preceduto nella patria beata». Le sue ultime parole pronunziate nell'agonia furono: «Soffro con dolore, ma con amore... con la morte incomincia una nuova vita, e chi muore vive eternamente».

San Carlo Borromeo, Arcivescovo di Milano, passava spesso davanti a un quadro in cui la morte era raffigurata con una mano armata di falce. Un giorno fece cancellare la falce e ordinò al pittore di mettere, al posto della falce, una chiave d'oro, perché la morte ci apre la porta della vita eterna, della beatitudine celeste.

P. GNAROCAS N.I.


martedì 19 ottobre 2021

L'ALDILA’ STUPENDA REALTA’ - Il Paradiso

 



«Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove Cristo si trova assiso alla destra di Dio; gustate le cose di lassù, non quelle della terra» (Col. 3, 1-2).


L'incredulo dice che l'aldilà è una mera illusione perché con la morte finisce tutto.

Il cristiano, invece, basandosi sulla parola infallibile di Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, afferma senza esitazione: «Credo nella resurrezione della carne (cioè del corpo) e la vita eterna (cioè l'aldilà)».

L'uomo su questa terra si affanna tanto in cerca della felicità e della vita duratura, per le quali Dio l'ha creato. Anche se si professa ateo, incredulo circa l'aldilà, tuttavia egli lavora, si affatica, vive nell'attesa della felicità. Questa, con la sua potente attrattiva, sostiene i suoi sforzi e stimola la sua attività. Come la rondine che vola nell'aria per prendere al suo passaggio l'insetto che le serva di nutrimento, così il suo spirito, la sua anima, bramosa, cerca incessantemente qualche cosa che possa soddisfare le sue aspirazioni. Siamo tutti degli insoddisfatti, dei mendicanti, degli affamati della felicità.

Per una inclinazione naturale, invincibile, noi andiamo sempre in cerca di un bene che ci manca per essere pienamente contenti, soddisfatti, felici. Però nessuna cosa terrestre può saziare la fame di felicità piena e duratura, di cui è bramoso il cuore umano.

Tanti s'illudono di supplire a questa fame di felicità coi beni del potere, della gloria, della ricchezza, dei piaceri. Ma essi non possono saziare l'uomo. L'autorità e il potere possono accarezzare l'amor proprio, ma non possono darci la felicità. Possono dare qualche soddisfazione effimera, ma quanti affanni e pericoli, quante prove e difficoltà!

Tanti fanno della gloria l'unico scopo della loro vita. Si mettono in mostra per essere visti, ammirati, esaltati dagli uomini. Ma la gloria è vana perché, per quanto brillante e intensa possa essere, essa non soddisfa pienamente i suoi favoriti, i quali invano sono sempre in cerca di qualche altra cosa che li soddisfi pienamente, che li renda felici.

Non può saziare la ricchezza. La preoccupazione degli affari, l'amore del commercio, il miraggio del guadagno, l'avidità del denaro fanno dimenticare agli uomini che su questa terra sono di passaggio e dovranno lasciare tutto, perché Dio non li ha creati per questo. La ricchezza quindi non ci può dare la felicità perché essa è fonte di innumerevoli preoccupazioni, di grandi inquietudini, di molti affanni.

Non ci può dare la felicità il piacere. Tanti fanno dei piaceri sensuali uno dei principali scopi della loro esistenza, illudendosi di trovare in essi la felicità di cui sono assetati. Mangiare bene, immergersi il più possibile nei piaceri della carne è la mira costante del loro agire. Ma questi lussuriosi arriveranno mai a soddisfare le loro grossolane brame? No, perché il corpo carnale si disgusta presto e, volubile com'è, brama sempre qualche nuovo piacere più saporoso. Insaziabile, va sempre in cerca di nuove sensazioni e più ne sperimenta, più le brame di acutizzano.

Anche l'amore matrimonale non può soddisfare le esigenze del cuore umano, perché l'amore umano è sempre limitato e quindi incapace di quell'amore illimitato e durevole di cui l'uomo sente il bisogno. Per tanti poi la «luna di miele» si muta in «luna di fiele» con le tristi conseguenze delle infedeltà coniugali, delle separazioni, dei divorzi, ecc. Altro che gioia e felicità!

L'uomo, quando riflette o spontaneamente o perché costretto da qualche evento doloroso che l'ha colpito, si chiede sempre se con la morte tutto finisca, oppure ci sia una vita futura, un aldilà che l'attenda. A questa intima domanda risponde il Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes, n. 18): «In faccia alla morte l'enigma della vita umana diventa sommo. Non solo l'uomo si affligge al pensiero dell'avvicinarsi del dolore e della dissoluzione del corpo, ma anche, ed anzi più ancora, per il timore che tutto finisca per sempre. Ma l'istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l'idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell'eternità che portà in sé, irriducibile com'è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a colmare le ansietà dell'uomo: il prolungamento della longività biologica non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore che invincibilmente sta dentro il suo cuore.

La Chiesa, istruita dalla Rivelazione divina, afferma che l'uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini della miseria terrena. C'insegna inoltre che la morte corporale, dalla quale l'uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato, sarà vinta dall'onnipotenza e dalla misericordia del Salvatore quando l'uomo sarà restituito allo stato perduto per il peccato originale. La fede cristiana quindi dà la risposta alle ansietà dell'uomo circa la sua sorte futura».

La rivista «Il Messaggero di S. Antonio» dell'aprile 1988 riporta quanto scrive l'articolista Myriam: «Oggi, nell'onda della Risurrezione trionfante, dei fiori che germogliano e che sbocciano, degli insetti che ronzano, delle farfalle che veleggiano con i colori dell'arcobaleno dipinti sulle ali; e delle scadenze liturgiche che celebrano la risurrezione del Signore, in quest'ondata trionfante di vita che sconfigge la morte, vorrei domandarti, Signore, come sarà quella vita futura che attendiamo e che già cominciamo misteriosamente a vivere, ma che vivremo disvelata dopo il sipario della morte. Vorrei domandartelo, Signore, vorrei saperlo perché talvolta mi spaventa, come spaventa l'ignoto.

Questa vita terrestre, Signore, la conosco: con i suoi limiti, le siíe povertà, i suoi dolori, ma anche gli amori, ma anche le dolcezze. Ormai mi ci sono adattata e lei mi aderisce come un vestito, come una pelle: è la mia pelle, quella che tu mi hai dato e che io mi sono abituata a vivere. E la amo così: con i suoi limiti e i suoi ritmi: il sole che si leva al mattino, fa il suo giro nel cielo e, la sera, tramonta. E l'uomo che si perde nel sonno: una parentesi d'incoscienza che però ci dà, ogni giorno, la gioia del risveglio; e di poter ricominciare col ricominciare del pellegrinaggio del sole.

E della luna. Già: la luna. Non ce la ruberai, per caso, la luna in Paradiso? Mi sembrerebbe un paradiso triste senza questa dolce pellegrina della notte che scandisce il tempo con i suoi quarti, la sua pienezza luminosa, la sua oscura rinnovazione quando, come nella notte di Pasqua, morte e vita s'incontrano e la luna vecchia che termina coincide con la luna nuova che ricomincia il ciclo col suo peregrinare in cielo.

Io la luna, Signore, ce la vorrei di là, e anche le nuvole del cielo, e gli animali della terra: i passi felpati dei gatti, lo zoccolare dei cavalli e i conigli fulvi che saltano nei boschi.

Forse, Signore, il mio è un paradiso troppo umano; ma non ci hai fatto tu uomini? Non ce le hai dato tu queste cose? Noi siamo impastati con la terra, perciò, con noi, deve risorgere anche la terra: quei cieli nuovi e quelle terre nuove che ci hai promesso e di cui parlano i profeti.

Quelli sono la vera Gerusalemme eterna, la vera terra promessa di cui la Palestina "dove scorre latte e miele" era soltanto un simbolo e una anticipazione molto povera perché il latte e miele erano solo un'immagine che rinviava al di là. Così come l'antico paradiso era anch'esso un'immagine di quello definitivo ed ultimo, e la felicità dell'Eden un'embrionale profezia del paradiso che diremo "celeste "per distinguerlo da quello "terrestre"; ma è una distinzione puramente lessicale perché, da quanto abbiamo detto, risulta chiaro che anche il paradiso celeste è un paradiso terrestre; così come quello iniziale che, convenzionalmente chiamiamo terrestre, era, per la sua parte, celeste perché la terra e il cielo non sono separati; e tu scendevi, nelle sere di brezza, a passeggiare per i suoi sentieri.

E quest'immagine - che dice come tu lo abitavi - ci fa capire come fosse "celeste" quel giardino terrestre. Così, Signore, amo pensare il paradiso, beato regno della risurrezione: una dimensione, una situazione, uno stato abitato e beatificato da te e quindi essenzialmente divino, eppure in un modo molto umano perché fatto per uomini».

Parlare del Paradiso è evidentemente una cosa molto difficile, perché gli stessi mistici, che furono favoriti di visioni al riguardo, non riuscivano a descrivere quanto avevano visto, come per esempio, l'Apostolo San Paolo, che, scrivendo di se stesso in terza persona, dice (2 Cor. 12,2-4): «Conosco un uomo in Cristo, che 14 anni fa... fu rapito in Paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare (perché evidentemente è impossibile)», perché (1 Cor. 2,9) «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano».

La trattazione, oltre al poco rivelatoci da Gesù, oltre all'insegnamento della Chiesa e della sana Teologia, oltre a quanto ci fa dedurre la nostra ragione umana, lascia pure un piccolissimo spazio alla fantasia e al sentimento, perché anche queste due facoltà contribuiscono a farci capire e sentire meglio una realtà così lontana da noi: una stupenda realtà che appagherà ogni nostro desiderio di felicità; sazierà tutte le esigenze del nostro cuore che anela ad amare ed essere amato senza misura; soddisferà ogni esigenza della nostra mente che vuol conoscere tutto senza alcun limite; realizzerà ogni esigenza del nostro spirito che vuole immergersi nell'infinito e nell'eterno.

Attenzione

È un cosa comune dire: nessuno è venuto dall'aldilà.

Agli atei se non si citano loro delle apparizioni di morti, vi trovano una conferma alla loro affermazione.

Se invece vengono loro citate, le negano per principio, però si guardano bene dal farne una ricerca.

E inspiegabile come uomini, anch'essi come tutti, desiderosi di non morire mai, non abbiano alcun desiderio di vedere se ha fondamento la dottrina che insegna e prova la sopravvivenza. Tanto può il pregiudizio!

Ebbene: per smentire coloro che, come i Testimoni di Geova, affermano che con la morte muore pure l'anima e non resta più nulla; per smentire gli increduli, i quali, per negare i miracoli, dicono la solita storia di un fatto che ieri era ritenuto miracoloso, oggi invece non lo è più, per es. una guarigione per mezzo della penicellina. Costoro ignorano cosa la Chiesa intende per miracolo.

Il miracolo è una guarigione improvvisa, totale, senza impiego di alcun medicinale e senza alcun intervento umano da una malattia grave, debitamente diagnosticata.

Nel miracolo generalmente avviene la creazione e l'annientamento di un corpo, ad esempio l'annientamento di una massa tumorale e la creazione al suo posto di cellule normali. Ora in natura niente si crea e niente si distrugge. L'annientamento come la crazione sono opere esclusive di Dio, e, dove avvengono, manifestano l'intervento di Dio. Così avviene l'intervento di Dio quando in una guarigione mancano i fattori tempo, medicine, intervento umano; per sfatare coloro che affermano che nessuno è venuto dall'aldilà per dirci che c'è l'altra vita; per confermare coloro che credono nell'altra vita, ma alle volte vengono assillati da dubbi, alla fine di ogni capitolo si riporta un fatto storico, preceduto dalla dicitura «Chi è venuto dall'aldilà?», che ci conferma l'esistenza dell'altra vita.

- Se non ci fosse l'aldilà, non varrebbe la pena di vivere nell'aldiquà. Considerando la nostra vita così rapida e fuggente, sarebbe spaventoso pensare che tutto finisca con quello che chiamiamo «morte». Quindi non solo con la fede, ma anche con la ragione credo nell'aldilà e spero che sia gioia di amare illimitatamente. (Pro f. Enrico Medi - scienziato) -

P. GNAROCAS N.I.