LA MORTE
Prima di iniziare l'argomento del Paradiso, accenniamo alle verità che lo precedono: morte, giudizio, inferno, purgatorio, chiamati «novissimi».
Vogliamo vivere da buoni cristiani e morire della morte dei giusti? Ascoltiamo quello che ci dice la parola di Dio (Eccl. 7,20): «Memorare novissima tua et in aeternum non peccabis», cioè richiamatevi spesso alla memoria i vostri novissimi e non peccherete mai. Incominciamo con la morte, alla quale molti non vorrebbero pensarci mai. Purtroppo, però, sia che vi pensiamo o no, essa è inevitabile per tutti.
Spesso si sente dire con una certa tristezza: «Perché Dio ci fa morire? Perché tronca la vita delle creature uscite dalle sue mani»?
Si risponde: «Dio non crea per distruggere. Egli è la Vita e non poteva volere la morte. Egli è l'Amore e non poteva fare una cosa così dolorosa. Egli ha creato l'uomo per la felicità e per la vita immortale. Perché allora, si obietta, la sofferenza e la morte attanagliano l'umanità? La risposta ci viene data dalla parola di Dio, incisa nella Sacra Scrittura Sap. 2,23): «Dio ha creato l'uomo per l'immortalità; lo fece a immagine della propria natura. La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo».
Satana, ribellatosi a Dio per orgoglio, lo odia. Però, non potendo sfogare il suo odio contro il suo Creatore, lo sfoga contro l'uomo, creatura prediletta da Dio, e verso di lui nutre una grande invidia perché andrà a occupare in Paradiso il posto perduto da lui e dai suoi angeli ribelli. Per questo tenta gli uomini a ribellarsi a Dio, per neutralizzare il suo disegno d'amore verso le creature umane, far perdere loro il Paradiso e renderli suoi schiavi all'Inferno. La prima creatura a essere tentata fu Eva, che, sedotta dalle lusinghe di Satana, disubbidisce a Dio e persuade suo marito Adamo a fare altrettanto. Commettono un peccato gravissimo di orgoglio, di superbia, di ribellione a Dio, chiamato «peccato originale» perché commesso da loro che sono l'origine dell'umanità.
Commesso il peccato originale, ecco echeggiare la voce della Giustizia Divina (Gen. 3,16-19): «II Signore Dio disse alla donna: Moltiplicherò i tuoi dolori e i tuoi parti, con dolore partorirai i figli; sarai sotto la potestà del marito ed egli ti dominerà. Poi disse ad Adamo: Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dal frutto dell'albero, di cui ti avevo comandato di non mangiarne, maledetta sia la terra per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita... con il sudore della tua fronte mangerai il pane finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!».
Come nei figli si trasmettono i difetti dei loro genitori, così anche in noi, discendenti da Adamo ed Eva, si trasmette la pena del loro peccato: sofferenza e morte.
Dal giorno della condanna della Giustizia Divina contro l'uomo ribelle, noi siamo diventati vittime della fatica, del dolore e della morte. Però verrà giorno, l'ultimo dei giorni, e su quella polvere, in cui si è ridotto il nostro corpo, echeggerà onnipotente il comando della Misericordia Divina: «Sorgete o morti!». Noi risorgeremo. Infatti nel Vangelo (Giov. 5,28-29) Gesù afferma solennemente: «Verrà l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri (cioè tutti i morti), udranno la sua voce (la voce imperativa di Gesù) e ne usciranno fuori: quanti fecero il bene, per una resurrezione di vita, e quanti fecero il male, per una resurrezione di condanna».
La nostra morte perciò non è eterna, ma temporanea, fino alla fine del mondo. Per questo l'Apostolo S. Paolo ci esorta a non piangere come i pagani che non hanno speranza.
Con la morte ha inizio la vera vita, quella eterna. Tanto la Sacra Scrittura, quanto il Magistero della Chiesa insegnano che la salvezza o la dannazione eterna dipendono dalla condizione in cui si trova l'anima al momento della morte. La vita terrena è il periodo dell'unica prova che finisce con la morte, la quale fissa la condizione definitiva della persona: o beata in Paradiso, o sofferente nell'Inferno.
Con la morte l'unica prova è finita e non si ripeterà più, contrariamente a quanti credono erroneamente alla « reincarnazione», teoria che sostiene che le anime, le quali al momento della morte non sono abbastanza purificate, passerebbero in altri corpi, per riprendere quel cammino di purificazione che le conduca alla purificazione finale e alla salvezza.
La teoria della reincarnazione è falsa, infatti il 2° Concilio di Lione (XIV ecumenico-1274) definì che le anime di coloro che muoiono in peccato mortale «subito» discendono all'Inferno. - Il recente Catechismo della Chiesa Cattolica, al numero 1013, dice: «La morte è la fine del pellegrinaggio terreno dell'uomo, è la fine della grazia e della misericordia che Dio gli offre per realizzare la sua vita terrena secondo il disegno divino e per decidere il suo destino ultimo. Quando è "finito l'unico corso della nostra vita (Conc. Ecum. Vat. II - Lumen Gentium, 48), noi non ritorneremo più a vivere altre vite terrente, perché 'È stabilito per gli uomni che muoiano una sola volta (Eb. 9,27)' Quindi non c'è reincarnazione dopo la morte" ».
Questa è la dottrina rivelata da Dio e insegnata dalla Chiesa, di conseguenza è cosa di somma importanza trovarsi al momento della morte in grazia di Dio.
Nonostante si stia in grazia di Dio, anche per il cristiano la morte mantiene il suo aspetto duro e ripugnante, perché la morte è punizione del peccato. Infatti l'Apostolo Paolo (Rom. 5,12; 6,23) afferma: «Per colpa di un uomo solo, il peccato entrò nel mondo e, a causa del peccato, la morte: e così la morte si è estesa a tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato... La morte è lo stipendio del peccato». Questa pena di un bene già posseduto è una punizione. Il cristiano, però, dietro gli insegnamenti di Gesù, si sforza di superare quanto gliela rende dura e ripugnante con consolanti considerazioni che quasi trasfigurano la morte.
Prima di tutto l'esempio di Gesù Cristo. Se Egli ha voluto sottoporsi alla morte, Lui innocente, quasi per condividere con ciascuno dei peccatori la pena del peccato, da parte nostra l'accettazione della morte è un atto d'amore verso il Cristo. Poiché non ci può essere sacrificio più grande che quello della vita, accettare la morte significa compiere il supremo sacrificio, e così la morte diventa l'atto sommamente espiatorio e sommamente meritorio. Perciò la morte accettata è la testimonianza suprema dell'amore della creatura per il suo Creatore.
Quando poi si pensa che la morte ci pone nella sicurezza assoluta di non poter più peccare e perdersi; ci toglie dall'esilio terreno per collocarci eternamente nella patria celeste, nella patria della pace, della gioia, dell'amore, della felicità eterna, allora si comprende come i Santi guardavano alla morte non solo con accettazione, ma con desiderio e trasporto. Per esempio, S. Teresa del Bambino Gesù, quando ebbe il primo sbocco di sangue, segno della sua tesi avanzata, scrive: «Pensai che forse morivo, e l'anima mia era colma di gioia... la speranza di andare in Cielo mi faceva esultare di letizia».
Certamente non tutti possiamo pretendere di arrivare a questo livello di vita spirituale, cui pochi privilegiati sono portati dalla grazia divina. Tutti però possiamo e dobbiamo arrivare a guardare la morte (senza poter escludere purtroppo la tristezza e la trepidazione per la vita vissuta su questa terra) con serena speranza per la felicità che ci attende nella patria celeste.
Questi due concetti sono bene espressi nel Prefazio dei Defunti, quando dice: «I fedeli che sono rattristati dalla certezza di dover morire, sono però consolati dalla promessa della futura immortalità. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un'abitazione eterna nel Cielo».
Non ci è vietato di piangere né sulla nostra morte, né sulla morte dei nostri cari. Ci è vietato invece di disperarci e di ribellarci. Piangere è della natura, ma essa è sublimata dalla grazia, la quale ci fa rassegnati e speranti. Disperarsi invece è l'agire di chi respinge la fede, la redenzione e Cristo stesso.
Poiché ognuno di noi dovrà morire, sforziamoci di tener presenti queste riflessioni e di esprimere spesso a Dio la nostra volontà di accettare la morte. Specialmente dobbiamo sforzarci di vivere in modo da non temere di morire, poiché quello che rende ansiosa e spaventosa la morte è proprio ciò che ci attende dopo di essa.
Purtroppo ci sono tanti che, dimenticando il fine per cui Dio ci ha creati, vivono come se non dovessero morire mai. Dalla mattina alla sera (e ora nelle discoteche anche la notte) si agitano, si affannano per accumulare denaro e beni terreni, per gustare i piaceri dell'erotismo, per avere tutte le comodità della vita, ecc. Ma ecco che arriva la morte che in un istante strapperà via tutte queste cose, facendo sanguinare il loro cuore nella delusione e forse nella disperazione. Cosa rimane a costoro dei beni terreni? Quello che rimase al fattore del ricco mugik, narrato dallo scrittore russo, Dostoievski, in uno dei suoi romanzi.
« Un ricco mugik (contadino russo benestante), che possedeva grandissime estensioni di terre, chiamò un giorno il più povero dei suoi fattori e gli disse: "Voglio premiare la tua lunga fedeltà. Avrai terra per te, quanto ti basta. Tutto il terreno che domani riuscirai ad attraversare dall'alba al tramonto, sarà tuo! ».
Il povero uomo credette di sognare. Quella notte non dormì per l'ansia. Al primo chiarore dell'alba era già in cammino, per non perdere un solo minuto di un giorno così prezioso. Quante versete (misura russa uguale a m. 1066) avrebbe percorso prima del tramonto? Correva, correva... Non aveva corso così neppure negli anni giovanili. La rugiada irrorava i suoi piedi e una brezza freschissima batteva la sua fronte ardente. A poco a poco il sole saliva. Anche egli ora saliva l'erta scoscesa, gettando avide occhiate su quella terra ubertosa, che sarebbe stata sua e dei suoi figli.
A mezzogiorno, col fianto ansante, con gli occhi stravolti, non volle arrestare la corsa folle, neppure per mangiare un tozzo di pane, o per dissetarsi a una sorgente. Avrebbe perduto mezza verseta di terreno; e si trattava dell'avvenire suo, della sua famiglia, e perfino dei lontani parenti, che avrebbeo avuto la loro parte di tanta fortuna.
Trascorsero altre ore spossanti, finché il cielo imbrunì; l'ombra delle alte piante ormai si allungava. Avanti, avanti!... Ma ora non correva più, camminava trascinando i piedi, premendo forte il cuore... Oh, tra poco, avrebbe dormito, e sulla terra di sua proprietà! Quando l'ultimo raggio del sole morente arrivò ai suoi occhi stravolti dall'immane fatica, egli disse: Basta! Ma i piedi non lo sostennero più, gli occhi non videro più... il cuore, scoppiatogli in petto, aveva cessato di battere. Il povero uomo non si rialzò per godere la terra sua. L'indomani fu scavata la fossa: lunga tre metri, larga uno, profonda due.
Ecco la terra che basta a un uomo!" ».
La morte dovrebbe servire a far riflettere tanta gente che vive e si comporta come se non dovesse mai morire, e che spesso si accapiglia per accumulare beni labilissimi, perché li considera qualche cosa di assoluto, mentre il Signore ci dice (Mat. 8,36 e 16,26): «Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde l'anima?». Con queste parole, che hanno suscitato tante conversioni, Gesù ci spinge a un orientamento corretto della vita terrena, per non correre il rischio di perdere la vita eternamente beata.
Il vero cristiano deve considerare la morte come il momento che lo libera dai tanti guai di questa vita terrena; che lo libera da ogni dolore; che lo ricongiunge ai suoi cari che l'hanno preceduto alla Casa del Padre; che l'introduce nel Paradiso: Regno di pace, di gioia, d'amore, di felicità eterna.
Il 3 giugno il Papa Giovanni XXIII lasciava questa terra per sempre. Quando gli fu annunciato che il suo tumore era maligno e che ormai si avvicinava alla fine, egli disse: «Non vi preoccupate per me perché le valigie sono preparate. Io sono pronto, anzi prontissimo a partire». Ai suoi fratelli che piangevano disse: «Non piangete, perché io sto per incontrarmi con papà, con mamma, coi fratelli e le sorelle che mi hanno preceduto nella patria beata». Le sue ultime parole pronunziate nell'agonia furono: «Soffro con dolore, ma con amore... con la morte incomincia una nuova vita, e chi muore vive eternamente».
San Carlo Borromeo, Arcivescovo di Milano, passava spesso davanti a un quadro in cui la morte era raffigurata con una mano armata di falce. Un giorno fece cancellare la falce e ordinò al pittore di mettere, al posto della falce, una chiave d'oro, perché la morte ci apre la porta della vita eterna, della beatitudine celeste.
P. GNAROCAS N.I.
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