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giovedì 28 marzo 2024

IL DISCERNIMENTO DEGLI SPIRITI

 


Caratteri dello spirito diabolico circa i moti o atti della volontà, affatto opposti ai caratteri dello spirito di Dio. 


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§. VII. 

 138. Sesto carattere si è l'insofferenza ne' travagli. Questo punto non ha bisogno di molta espressione: perché ognuno sa che il demonio non è capace d'ingenerare ne' nostri animi sentimenti di pazienza, anzi è tutto intento a risvegliare affetti d'ira e di risentimento. Se accade che alcuno sia toccato sull'onore con qualche affronto, o perseguitato con mormorazioni e calunnie, entra egli nella sua fantasia, risveglia la memoria de' torti ricevuti, ne aggrava i motivi, gli avviva con una luce d'inferno; sicché una paglia sembri una trave, ed un granello di arena comparisca un monte. Poi s'insinua nel senso interiore, e con la commozione degli umori e del sangue, accende la bile e l'infiamma, e solleva nell'animo una nera caligine che va ad offuscare la ragione. Turbata poi la ragione, gli fa parere giusto ogni risentimento, lecito ogni trasporto: ed urtandolo internamente, e concitandolo con i moti dell'ira già accesa, lo trasporta ciecamente alla vendetta; e talvolta lo fa correre impetuosamente alle ferite ed al sangue. Ecco i caratteri dello spirito demoniaco in tempo di certi travagli che vanno a pungere il cuore.

139. Vediamolo in Saulle. Prostrato il gigante Golia, se ne torna David glorioso e trionfante, portando in mano il capo reciso del suo nemico, quasi trofeo di sì illustre vittoria. Dovunque passa, le donne applaudono con lieti canti alla nobile azione del generoso combattente ripetendo a cori pieni: «Saul ha ucciso i suoi mille, Davide i suoi diecimila» (1Sam. 18,7). Sente questo canto Saulle, e se ne offende. Prende il demonio questa occasione di investirlo col suo spirito torbido; entra in lui: “Il giorno dopo, un cattivo spirito sovrumano s'impossessò di Saul, il quale si mise a delirare in casa. Davide suonava la cetra come i giorni precedenti e Saul teneva in mano la lancia” (1Sam. 18,10): gli altera la fantasia, gli fa parere che tutto il popolo cospiri alle glorie di David, e che già voglia esaltarlo al trono d'Israele: “Saul ne fu molto irritato e gli parvero cattive quelle parole. Diceva: «Hanno dato a Davide diecimila, a me ne hanno dato mille. Non gli manca altro che il regno» (1Sam. 18,8). Gli desta poi nel cuore un odio mortale verso la sua persona, ed una somma invidia alle sue glorie. Agitato da questo spirito diabolico l'infelice re, non teme di vibrare una lancia verso l'innocente giovane, mentre questi si trattiene placidamente cantando nella sua reggia: e tenta di trucidare colle proprie mani il più valoroso guerriero del suo regno, l'eroe più benemerito della sua corona. Intanto Gionata suo figliuolo, inorridito a tanta barbarie che scorge nel padre, procura di sgominar la sua mente da tante ombre diaboliche, ed il suo cuore da tanti torbidi affetti, con porgli avanti gli occhi le prodezze di David, la salute da lui recata ad Israele, la sua innocenza, il suo valore; e con le sue dolci persuasive lo fa tornare a sé stesso: sicché scacciato da sé il demonio, comparisce affatto cangiato da quel di prima, e giura di non mai più tramare insidie alla vita del buon David: “Saul ascoltò la voce di Giònata e giurò: «Per la vita del Signore, non morirà!» (1Sam. 19,6). Ma che! poco dopo invaso nuovamente dallo spirito del demonio, ripiglia le sue ombre, le sue smanie, le sue furie, e vibra un'altra volta l'asta inverso lui per dargli morte: “Ma un sovrumano spirito cattivo si impadronì di Saul. Egli stava in casa e teneva in mano la lancia, mentre Davide suonava la cetra. Saul tentò di colpire Davide con la lancia contro il muro. Ma Davide si scansò da Saul, che infisse la lancia nel muro. Davide fuggì e quella notte fu salvo (1Sam. 19, 9-10). E qui senza passare più avanti, si osservi nello spirito di Saulle (che veramente. era diabolico) verso un nemico innocente, quali sono i caratteri dello spirito del demonio verso un nemico colpevole. 

 140. Se poi i travagli da cui la persona è assalita, siano di dolori, o d'infermità corporali; o siano per la perdita della roba, per la morte de' parenti più stretti e degli amici più cari, o per altri mali che nascono da cagioni necessarie; molto più allora il demonio, nemico della sofferenza, la stimolerà alle impazienze, ai lamenti, alle querele, alle smanie, alle disperazioni: e da questi affetti inquieti si conoscerà, che dal suo spirito malvagio ella è agitata. Anche di questo abbiamo un esempio illustre nelle sacre carte. Tanto Giobbe, quanto la sua consorte furono tocchi dal flagello di Dio; perché fu ad ambedue comune la morte dolorosa dei figliuoli, comune il diroccamento delle case, la perdita degli armenti, la uccisione de' servi: in somma comuni furono i disastri e le estreme miserie in cui in un subito precipitarono. Contuttociò il santo Giobbe, che possedeva lo spirito retto del Signore, all'improvviso annunzio di tante e sì infauste novelle, si armò di una invitta pazienza, chinò la testa e si conformò alla volontà di Dio con quelle belle parole: «Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!». (Gb.1,21). All'opposto la moglie, che diede adito allo spirito diabolico, non solo non soffrì con pazienza tali infortuni, ma incominciò con rabbia infernale ad insultare alla stessa eroica pazienza del suo marito, ripetendogli in faccia quelle empie parole: «Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori!» (Gb.2,9). Vegga il direttore in questo paragone i diversi movimenti che fanno nel cuor dell'uomo lo spirito di Dio, e del demonio in tempo dei travagli e delle calamità. 

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G. BATTISTA SCARAMELLI SERVUS IESUS 

domenica 11 febbraio 2024

IL DISCERNIMENTO DEGLI SPIRITI

 


Caratteri dello spirito diabolico circa i moti o atti della volontà, affatto opposti ai caratteri dello spirito di Dio. 

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§. VI. 

 135. Quinto carattere si è, la mala intenzione nell'operare. Se il demonio tenta ad opere malvage, già non si può dubitare che ingerisce nella mente di chi opera mala intenzione: se procura di corrompere le opere per sé stesse buone, ciò fa suggerendo qualche perverso fine, acciocché abbiano una bella apparenza di virtù; ma siano viziose nella sostanza. Così esercitandosi alcuno nelle elemosine, nelle orazioni, negli atti di carità e di misericordia. e cose simili, gli sveglia nel cuore una certa voglia di comparire con quelle operazioni su gli occhi altrui, e di acquistarsi estimazione e credito di bontà, o almeno gli mette stima appresso di sé stesso, studiandosi che da tali opere gliene risulti un gran compiacimento; ed un gran concetto di sé. Ed in questo modo miseramente l'inganna, facendogli parere virtù ciò che per la rea intenzione è un vero vizio. A questo volle alludere S. Gregorio, laddove spiegando quelle parole del santo Giobbe (Gb.40,13): dice che la cartilagine pare osso, e non è osso; così vi sono alcuni atti viziosi che sembrano retti e virtuosi, ma per la pravità della intenzione non sono tali. Sotto tali atti si nasconde il nemico per illuderci, facendoci comparire per virtù ciò ch'è vera colpa, e degno di premio ciò che talvolta è meritevole di eterno castigo (S. Greg. moral. lib. 32. cap. 17). 

136. Insegna altrove lo stesso santo dottore, che quando il demonio non può con le sue perverse intenzioni guastare qualche nostra opera buona, perché Iddio ci assiste con la sua grazia, procura almeno che la ritrattiamo o la viziamo dopo di averla fatta, rimettendola alla mente con ammirazione, con vanagloria e con vanto. Così ottiene, che oltre il mancamento presente, rimaniamo un'altra volta privi della divina assistenza, in pena della nostra vanità (S. Greg. Registr. epistolar. Lib. 7. indice 2, epist. 127, ad Recharedum Regem.). 

 137. Avverta però il direttore, che tentando il nemico di guastare ai suoi penitenti le opere sante che van facendo. con suggerire loro fini storti,  o di vanità, o di diletto, o di qualche vile guadagno, non dia mai loro per rimedio contra tali tentazioni il tralasciare, o intermettere dette operazioni; perché questo non sarebbe uno schivare, ma un aderire alle suggestioni del demonio, il quale, suscitando queste viziose intenzioni, ha due mire: o che si lascino le opere virtuose, o che si facciano male. Gli ordini piuttosto di rettificare le sue intenzioni, ed a sostituire ai fini bassi e difettosi altri fini nobili e perfetti come della gloria e del gusto di Dio, o pure della propria salute e perfezione. Così opererà con spirito retto, e con merito; e farà, che restino deluse le trame del nemico infernale. 

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G. BATTISTA SCARAMELLI SERVUS IESUS 

venerdì 8 dicembre 2023

IL DISCERNIMENTO DEGLI SPIRITI

 


Caratteri dello spirito diabolico circa i moti o atti della volontà, affatto opposti ai caratteri dello spirito di Dio. 


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§. V. 

 130. Il quarto carattere si è, la durezza della volontà in arrendersi alla obbedienza de' superiori. Abbiamo di una tal durezza un grande esempio nel cuore di Faraone. Gli fa Iddio intendere per mezzo di Mosè, che lasci in libertà il popolo Ebreo; ed egli punto non si arrende ai comandi del ministro di Dio: “Però il cuore del faraone si ostinò e non diede loro ascolto, secondo quanto aveva predetto il Signore” (Es.7,13). Fa prova Mosè di ammollire quel cuore duro con i prodigi; ma quello non si piega. Tenta di spezzarlo con i castighi, flagellando in mille guise il suo regno e la sua reggia; ma quello a colpi sì neri non si riscuote. Parve bensì una volta vinto dal terrore de' castighi, mentre s'indusse a concedere al popolo la bramata licenza; ma tosto diede a conoscere ch’era più duro che mai, perché dopo la partenza del popolo, l'inseguì col suo esercito, lo perseguitò fino alle acque del mar Rosso; né mai si quietò, finché non rimase miseramente annegato dentro quelle onde. Pare che un cuore umano non potesse naturalmente essere capace di tanta durezza, se il demonio non vi avesse molto trasfuso del suo spirito protervo. 

Una simile cosa accade a quei che sono dominati dallo spirito diabolico. Hanno una certa durezza di volontà, per cui o si oppongono apertamente, o almeno con molta difficoltà si arrendono alle persuasioni, ai consigli, ai comandi ed alle riprensioni de' ministri di Dio, che o nello spirituale o nel temporale in luogo di Dio li governano. 

 131. Né di ciò punto si meraviglierà il lettore, se rifletterà a ciò che dice Cornelio A-Lapide interpretando quelle parole di S. Paolo: “Quale intesa tra Cristo e Belial, o quale collaborazione tra un fedele e un infedele?” (2Cor 6,15). Insegna egli, che la parola Belial, secondo l'espressione della lingua santa, significa il diavolo, in quanto è il principe ed il padre de' disobbedienti; mentre fu il primo ad apostatare ea scuotere il giogo della obbedienza e soggezione dovuta all'Altissimo. 

E però i disobbedienti. gli apostati, i ribelli, i contumaci sono chiamati figliuoli di Belial, cioè figliuoli del diavolo, per lo spirito recalcitrante e ribelle che hanno ricevuto dal loro perfido padre (Cornel. A-Lap. In 2Cor 6, 15). E qui s'intenderà perché Samuele sgridando Saulle disobbediente, gli dicesse, che il ripugnare alla obbedienza è peccato quasi eguale alla scelleraggine della idolatria: “Poiché peccato di divinazione è la ribellione, e iniquità e perfino l'insubordinazione. Perché hai rigettato la parola del Signore, Egli ti ha rigettato come re» (1Sam 15,23): perché è un voltare le spalle a Dio che alla obbedienza ci stimola con i suoi comandi, per seguire l'interno istinto del demonio che alla disobbedienza ci spinge col suo spirito superbo e contumace. 

 132. Da questo segue, che lo spirito diabolico non c'inclina mai ad aprir schiettamente ai superiori, o ai padri spirituali gl'interni moti della nostra anima, perché, come dice lo stesso Cornelio A-Lapide, per scoprire le sue frodi, non v'è più sano consiglio (se vogliamo credere ai padri, ai santi ed alla stessa esperienza) che palesare ogni nostro pensiero ed ogni movimento del nostro cuore ad un uomo prudente, dotto e pio, specialmente al confessore, e soggettarsi al suo consiglio. Ma perché il demonio non vuole essere scoperto. abborrisce queste aperture di coscienza, instilla nel cuore de' suoi seguaci un certo orrore ad aprirsi, e loro lo vieta con le sue suggestioni (Cornel. A-Lap. In 2Cor 11,14). 

 133. Cassiano dice di più, che il demonio teme tanto di questa apertura sincera, che il solo conferire con i superiori le proprie tentazioni basta, acciocché cessi dal molestarci; e che altro non vi vuole, acciocché egli rompa la tela de' suoi inganni, e si ritiri da noi svergognato e confuso (Cassian. Coll. 2. cap. 10). Riferisce di sé l'abate Doroteo in un suo sermone, che in tempo della sua giovinezza era talvolta tentato di non aprirsi all'abate Giovanni suo direttore, sul supposto, che già sapeva la risposta che ne avrebbe riportata. Egli però non si dava per vinto: ma conoscendo la suggestione del nemico, la rigettava con sdegno, e correndo ai piedi del santo vecchio, gli svelava sinceramente gli arcani del suo cuore (Abb. Doroth. doctr. 5). 

 134. E in realtà troverete, che il demonio trasformato in angelo di luce talvolta esorti alcuno, fraudolentemente, a far orazione ed affliggere il corpo con aspre penitenze, a zelare sopra gli altrui difetti, e fino ad obbedire ai propri superiori, come accadde a santa Caterina di Bologna, a cui il demonio, apparendo in figura di Gesù Cristo, diede più volte questo santo consiglio, benché con fine perverso, conforme la relazione, ch'ella stessa ne fa in una sua opera (S. Cater. di Bol. Lib., Delle 7 armi necessarie alla battaglia spirituale.). Ma non troverete ch'esortasse mai alcuno ad aprirsi. In tutto con sincerità e con candore ai propri direttori: perché egli ha le proprietà de' traditori e de' ladri, che di niuna cosa temono più, quanto di essere scoperti. Resti dunque concluso: che durezza di volontà in obbedire, e cupezza in aprirsi ai padri spirituali è manifestamente spirito diabolico. 

G. BATTISTA SCARAMELLI SERVUS IESUS 


martedì 17 ottobre 2023

IL DISCERNIMENTO DEGLI SPIRITI

 


Caratteri dello spirito diabolico circa i moti o atti della volontà, affatto opposti ai caratteri dello spirito di Dio. 


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§. IV. 

127. Il terzo carattere si è la disperazione, o la diffidenza, o la vana sicurezza, ma non mai la vera confidenza in Dio. Sa il demonio, dice S. Giovanni Crisostomo, che la fiducia è quella bella catena che ci trae al paradiso: perché con questo santo affetto prendiamo animo grande e ci solleviamo a Dio; perciò dopo fatti i peccati, ci mette affetti e pensieri più gravi del piombo, per cui si sforza di tirarci alla disperazione, che è l'estremo di tutti i mali (S. Jo. Chrys. Adhort. ad Theodorum laps. § 2.). 

128. Ma perché vede che rare volte gli riesce di precipitare le anime fedeli nell'abisso, quasi irreparabile, della disperazione; che fa il maligno? procura almeno di farle cadere in una certa diffidenza, per cui se non disperano, certamente non sperano; e s'industria con grande studio di tenervele stabilmente abbattute, acciocché divenute a poco a poco languide e neghittose, non abbiano più vigore di operare alcun bene. Ma ciò che è peggio, opera tutto questo il demonio con un'arte sì maliziosa e coperta, che arriva a persuadere loro, essere cosa giusta e ragionevole lo starsene così giacendo in quell'abbattimento di spirito; perché dopo aver loro con quella falsa umiltà, di cui ora io ragionavo, rappresentate le passate debolezze, o pure le quotidiane mancanze, suggerisce altri pensieri che hanno apparenza di vero, cioè: ch'è grande la bontà di Dio; ma che esse si oppongono con la loro malizia alle opere della divina grazia: che Iddio è pronto a porger loro ogni aiuto; ma che esse non lo meritano: e finalmente, che tutto il male non vien da Dio, ma da loro: onde esse convinte da queste ed altre simili apparenti ragioni, se ne rimangono costernate in braccio alle loro diffidenze. Questa è una delle più maliziose astuzie con cui il nemico infernale ritarda ad una gran parte delle persone devote il loro profitto spirituale; e specialmente alle donne, ch'essendo timide di lor natura, sono facili a dare in questi sgomenti. Cadute poi in questa fossa, ivi restano avvilite senza poter più dare un passo nella via della perfezione. 

Prego pertanto i direttori ad invigilare con molta cura sopra i loro penitenti, acciocché non diano mai in questa rete; ed entrandovi dentro alcuna volta, di farli presto avvertiti dell'inganno. Dicano loro francamente, che spirito di diffidenza non è, né può essere, spirito di Dio, ma sempre è spirito diabolico. Insegnino loro a confondersi ed umiliarsi con pace per le loro colpe, ma ad innalzarsi poi subito a Dio con una forte e viva speranza, riflettendo, che la divina misericordia supera con eccesso infinito la malizia ed il numero dei loro peccati. Suggeriscano loro alcuni atti da farsi quando il demonio le assale con diffidenza e pusillanimità, dicendo a Dio con San Paolo: “Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica” (Rom. 8, 33,34). Iddio è pronto a perdonarmi: chi dunque potrà condannarmi? Oppure con Isaia: “È vicino chi mi rende giustizia; chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. - Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole? Ecco, come una veste si logorano tutti, la tignola li divora” (Is.50, 8,9). Iddio che vuol donarmi la sua grazia, sta presso di me: chi  dunque potrà essermi contrario con un tal difensore al fianco? Iddio è in mio aiuto: chi potrà dunque fulminare contro di me sentenze di dannazione? Animato da queste coraggiose parole, entri poi in grande speranza, e vada ripetendo con Giobbe: “Mi uccida pure, non me ne dolgo; voglio solo difendere davanti a lui la mia condotta! (Gb.13,15): ancorché mi voleste morto, Signore, intanto vorrei sperare salute da voi. Vi ho fatto gran torti, è vero: ma questo di diffidare della vostra somma bontà, non ve lo farò mai. Se mi vedessi sull'orlo dell'inferno, già vicino a cadervi, non lascerei di sperare in voi. Finalmente ordini loro, che continuino a replicare questi o simili atti di speranza, finché non si sentano slargato il cuore. In oltre, per chiudere ogni adito alle suggestioni dell'avversario gioverà molto imporre loro che dopo aver commesso qualche mancamento o peccato, si pentano subito e si umilino avanti a Dio: e poi si gettino nel seno della divina bontà, e quivi dilatino il cuore con una santa fiducia, prima che venga a ristringerlo il demonio con i suoi vili sgomenti. Fatto questo, seguano a servire Iddio con allegrezza, con pace e con santa libertà. 

129. Si noti però, che tutto questo che ho detto circa lo spirito della disperazione e della diffidenza, accade dopo fatto il peccato, come accenna anche il sopraccitato santo dottore. Ma prima di peccare mette il nemico un altro spirito affatto diverso, ed è lo spirito di una vana e temeraria sicurezza, con cui rende l'uomo animoso alla colpa. Gli rappresenta in Dio una misericordia quasi stupida ed insensata, che si lasci offendere impunemente; ond'egli, deluso da questa stolta persuasione, deponga ogni timore e prenda animo a lordarsi ne' peccati (S. Jo. Chrys. Hom. 8. De poenitent. § 2.). A questi tali deve il direttore rappresentare il gran pericolo a cui si espongono di essere abbandonati dalla divina misericordia, se dalla dolcezza di lei prendono ansa ad offenderla. Deve dir loro, che la misericordia di Dio è come il mare che conduce a porto sicuro i naviganti. Ma se questi invece di aiutarsi con le vele e con i remi volessero stare oziosi, dando, con la loro infingardaggine, occasione al naufragio, sulla speranza che il mare avesse a far tutto da sé, chi non vede che rimarrebbero sommersi? Così appunto Iddio è un mare di misericordia, ed un oceano di bontà. Se noi c'industrieremo facendo forza a noi stessi per non trascorrere e dolendoci de' passati trascorsi, questo mare dolcissimo ci porterà a salvamento nel porto della beata eternità. 

Ma se noi non ci vorremo aiutare anzi vorremo esporci a manifesti pericoli di perdizione, lusingandoci che abbia a fare tutto la divina misericordia; questo mare soavissimo di bontà ci lascerà incorrere in un eterno naufragio. E per restringere in poche parole tutta la presente dottrina dico: che i direttori hanno a procurare che i penitenti sperino sempre nella bontà, di Dio dopo fatto il peccato; e sempre ne temano prima di commetterlo. Così rigetteranno da sé lo Spirto diabolico di disperazione e di diffidenza, che  segue alla colpa; e lo spirito di una stolta sicurezza che la precede. 

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G. BATTISTA SCARAMELLI SERVUS IESUS 


sabato 5 agosto 2023

IL DISCERNIMENTO DEGLI SPIRITI

 


Caratteri dello spirito diabolico circa i moti o atti della volontà, affatto opposti ai caratteri dello spirito di Dio. 


§. I. 

120. Dice S. Lorenzo Giustiniani che molto conferisce al conseguimento dell'eterna salute, non ignorare le astuzie del nemico infernale. Ma bisogna aver lume nella mente per scoprirle. E lo spiega con la parità di un cieco che venga a singolar tenzone con un nemico che abbia la luce chiara e viva negli occhi. E come dice egli, può sperare costui di riportare vittoria? Così, come potrà un soldato di Cristo vincere il demonio suo capital nemico che ha cent'occhi per ingannarlo, se il suo divin capitano non gli rischiara la vista interiore della mente, per scoprire i suoi inganni? Anche chi ha buona vista, stenta a schermirsi dalle sue frodi: come dunque potrà difendersene chi non ha luce per rimirarle? (S. Laurent. Justin. de inter. conflict. cap. 11). A fine dunque che il lettore non sbagli nella condotta dei suoi penitenti, se egli è direttore delle anime; e se tale non e, non erri nel proprio regolamento: voglio qui dargli alcuni lumi. per conoscere le arti fraudolenti con cui opera nelle nostre volontà il demonio. Nel passato capitolo diedi alcuni contrassegni delle mozioni divine nelle nostre volontà: nel presente esporrò altri contrassegni affatto contrari per conoscere le mozioni diaboliche nelle stesse volontà. Così gli uni posti al confronto degli altri saranno più discernibili, come il nero posto a fronte del bianco. 


§. II. 

121. Primo carattere dello spirito diabolico circa gli atti della volontà, è, come chiaramente dice il Crisostomo, l'inquietudine, la turbazione, e la torbidezza, affetti diametralmente opposti alla pace, che dona Iddio (S. Io. Crys. Horn. 29.in ep. 1 ad Cor.). Ed in realtà, se egli ci tenta apertamente, sveglia dentro di noi o affetti di odi, di sdegni, di rabbie, d'invidie: passioni tutte torbide ed inquiete; o pure desta nelle anime desideri di piaceri, di diletti, di ricchezze, di onori: cose tutte che allettano con una bella apparenza, ma non possedute ci affliggono, e possedute c'inquietano in mille guise; come appunto le Tose che ci rapiscono con la vista della loro bellezza. ma prese in mano ci pungono con le loro spine. Perciò S. Gregorio spiegando quel detto del santo Giobbe: “Dalle sue narici esce fumo come da caldaia, che bolle sul fuoco” (Gb.41,12): dice, che il demonio con l’alito delle sue suggestioni accende in noi il fuoco degli appetiti che non lasciano mai l'animo quieto (S. Greg. Moral. lib. 33, cap. 28). 

122. Se poi viene il demonio copertamente a tradirci con buoni affetti e con pensieri all'apparenza devoti, benché rechi allora nel principio qualche dilettazione, alla fine lascia sempre l'anima turbata ed inquieta. Anzi dice il P. Alvarez de Paz, con la comune dei santi e dei maestri di spirito, che uno dei segni per conoscere se le apparizioni di Cristo e dei santi siano illusioni diaboliche, è appunto questo: vedere se nel principio recano qualche diletto sensibile, e poi sul fine lasciano l'anima con agitazione, con amarezza, con inquietudine e turbazione (Alvarez de Pas tom. 3, lib. 5, part. 4, cap. 5, industr. 9.). Possono bene applicarsi ai nostri nemici quelle parole del profeta reale: “Più untuosa del burro è la sua bocca, ma nel cuore ha la guerra; più fluide dell'olio le sue parole, ma sono spade sguainate” (Ps. 54, 22): le parole, ed ogni altra illusione dei demoni entrano nelle anime nostre più mollemente dell'olio, ma in realtà sono dardi che finalmente la pungono con mille inquietudini, e la lasciano addolorata e mesta. Si stabilisca dunque sicuramente il direttore questa massima di discrezione, che: spirito il quale inquieta, agita, turba, intorbida e mette l'anima sossopra, è spirito del demonio. 


§. III. 

123. Secondo carattere di spirito diabolico si è o una manifesta superbia, o una falsa umiltà; ma non mai l’umiltà vera che dona Iddio. Se il demonio, dice S. Gregorio, se ne viene senza maschera, essendo padre della superbia, non può suscitare nei nostri cuori altri affetti, che di vanagloria, d'enfiagioni e di compiacenze superbe; né altri desideri può risvegliare in noi, che di onori, di glorie, di posti, di preeminenze e di dignità (S. Gregor. Moral. lib. 34, cap. 18). 

 124. Anzi se mai accade, che il nemico introduca nelle cose spirituali per ingannare qualche persona incauta, subito si fa conoscere per quello che egli è, infondendo spirito di vanità e di gonfiezza, onde quello si empia di vane compiacenze, abbia gli altri in dispregio e sé stesso in molta stima. Se poi gli venga fatto d'instillare nel cuore questo suo spirito perverso, ne entra in pieno possesso, e fa di lui ciò che più gli aggrada. Così insegna Giovanni Gersone, e la esperienza tutto dì lo dimostra (Gerson. in centiloq. de impuls. dec. 9.). Sebbene facendosi il demonio vedere sotto queste sembianze altere e vane, è meno pericoloso; perché è facile raffigurarlo per quel ch'egli è. 

 125. È più da temersi, quando viene mascherato sotto le divise di una falsa umiltà; perché il traditore non essendo allora conosciuto, trova ricetto. Questo accade, quando egli ci suggerisce alla memoria i peccati passati o le imperfezioni presenti, e ci fa vedere la perdizione in cui siamo stati, o il misero stato in cui ancor ci troviamo: ma opera tutto questo con una luce maligna, la quale altro effetto non produce, che sollevare l'anima, metterla tutta in rivolta, riempirla di afflizioni, d'inquietudini, di amarezze, di turbazioni, di sgomento, di pusillanimità, ed alle volte di profonda malinconia. Intanto l'anima incauta non si difende punto da questi pensieri; perché trovandosi con i suoi peccati e mancamenti avanti gli occhi, in un basso concetto di sé, crede di esser piena di umiltà, quando per verità è piena di un veleno d'inferno. Sentiamo su questo proposito Santa Teresa. «La vera umiltà, benché l'anima si conosca per cattiva, e dia pena il vedere quello che siamo considerando le grandezze dei nostri peccati e miserie (tanto grandi come le accennavate, e che con verità si sentono) non però viene con sollevazione; né inquieta l'anima, né l'offusca, né cagiona aridità; anzi la consola ... Duolsi di quanto ha offeso Dio, e dall'altro canto le allarga il cuore la sua misericordia: ha luce per confondere sé stessa, e per lodare la divina maestà, che tanto l'ha sopportata. Ma in quest'altra umiltà che mette il demonio, non v'è luce per alcun bene; pare che Dio ponga tutto a fuoco e sangue... È una invenzione del demonio delle più penose, sottili, e dissimulate, che abbia conosciuto di lui” (Vita di santa Teresa scritta da lei stessa, cap. 30.). 

 126. Si persuada dunque il direttore, che vi sono due umiltà: una santa, che la dona Iddio; l'altra perversa, che la muove il demonio. La prima è piena di luce soprannaturale, per cui conosce l'anima chiaramente le sue colpe e le sue miserie, si confonde internamente e si annichila, ma con quiete; e ne sente pena, ma dolce; e mai non perde la speranza in Dio. E questa, è un balsamo di paradiso. La seconda umiltà è piena d'una luce infernale che fa vedere i peccati, ma con un certo cruccio penoso, con turbamento, con inquietezza, con scoramento e con diffidenza nella bontà di Dio. E questa è un tossico d'inferno, che se non dà morte all’anima, la rende almeno debole, inferma ed inabile ad ogni bene. E qui per maggior chiarezza di questa importante dottrina avverta diligentemente il lettore, che tra l'umiltà divina, e la diabolica passa questa differenza: che quella va unita con la generosità, questa va congiunta con la pusillanimità. La prima, è vero, che umilia, e talvolta annichila l'anima a vista del suo niente e dei suoi peccati; ma nel tempo stesso la solleva con la fiducia in Dio, la conforta, la corrobora; e inoltre è pacifica, è serena, è quieta, è soave: onde non solo spera il perdono delle sue colpe, ma si fa animo a riparare con la penitenza e con le opere buone le sue passate, o presenti cadute; e dallo stesso suo niente prende maggior fiducia per far gran cose in servizio di Dio. La seconda poi con una confusione torbida ed inquieta, con un timore pieno di angustia e di affanno, toglie all'anima ogni speranza, la rende vile e neghittosa, la riempie di diffidenza, di sgomento, di pusillanimità e di scoramento; le toglie insomma tutte le forze spirituali, onde non possa muoversi, o al più si muova con languidezza alle opere virtuose e sante. Se accadrà al direttore trovare in qualche suo penitente questa umiltà perversa (come purtroppo gli accadrà, e non di rado, specialmente nelle donne che sono timide e pusillanimi di lor natura) gli apra gli occhi, gli faccia intendere lo spirito diabolico da cui è dominato, e lo riduca sulla buona strada con i mezzi che ora proporrò.  

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G. BATTISTA SCARAMELLI SERVUS IESUS 

sabato 1 luglio 2023

IL DISCERNIMENTO DEGLI SPIRITI

 


Caratteri dello spirito divino circa i movimenti o atti della volontà . 


§. I. 

93. Se tanto importa conoscere da qual principio prendano il loro nascimento le cognizioni della mente, se da Dio o dal demonio; molto più è necessario discernere da quale spirito procedano gli atti della volontà, in cui consiste ogni bene morale che adorna l'anima, ed ogni male morale che la deforma. Gli atti stessi dell'intelletto benché abbiano da sé stessi l'esser veri o l'esser falsi, l'essere però moralmente buoni o cattivi, lo desumono dalla volontà, in quanto in essi trasfonde o il balsamo della virtù o il veleno del vizio. 

Per questa ragione dice egregiamente il cardinal Bona, che dobbiamo noi penetrare con sagace accorgimento nell'intimo dei cuori per indagarne ogni affetto, ogni moto più recondito; pesarlo sulle bilance del santuario, e con la dottrina di Cristo e dei suoi santi, quasi con pietra di paragone esaminarne le qualità buone o ree (Card. Bona De discret. spirit. cap. I, num. 4.). Proseguendo dunque l'ordine intrapreso, esporrò prima i caratteri che porta seco lo spirito di Dio circa i movimenti della volontà, e poi i caratteri diametralmente opposti con i quali procede io spirito diabolico: onde gli uni posti al paragone degli altri riescano più discernibili. E questi saranno la bilancia e la pietra di paragone che metterò in mano al lettore, per fare dell'uno e dell'altro un ottimo discernimento. 


§. II 

 94. Primo carattere' dello spirito divino circa gli atti della volontà si è la pace che Iddio movendo la volontà vi lascia impressa. Questo è uno dei caratteri più propri dello spirito di Dio. Basti dire ch'egli è chiamato nelle sacre scritture per antonomasia il Dio della pace: Deus autem pacis sit cum omnibus vobis (Rom.15,33). E poco dopo: “Il Dio della pace stritolerà ben presto satana sotto i vostri piedi. La grazia del Signor nostro Gesù Cristo sia con voi” (Rom.16,20). Ed altrove: “Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!” (Fil.4,9). Anzi Gesù Cristo chiama di propria bocca la pace carattere suo proprio: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore” (Gv.14,27): vi do la mia pace, cioè quella pace intima e sincera ch'è propria solo di me, e non già quella pace fallace che il mondo dona (Gv.14,27). Aggiunge il profeta reale che parlando Iddio alle anime sante che si raccolgono interiormente nel loro cuore, dice loro parole di pace: “Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: egli annunzia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con tutto il cuore (Psalm. 84, 9): e che non discende il Signore ad abitare se non che in quei cuori, che sono pieni di pace: Factus est in pace locus ejus (Psalm. 75,3). 

95. Si osservi, che volendo l'apostolo annunziare ai popoli a cui indirizzava le sue epistole, l'abbondanza della divina grazia, unisce sempre con la grazia la pace. Così scrivendo ai Romani, dice: “grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo” (Rom.1, 7). Lo stesso annunzio fa ai Corinti, lo stesso ai Galati, agli Efesini, ai filippesi, ai Colossesi, ai Tessalonicesi, a Tito, a Filemone. Tanto è inseparabile la pace da quella grazia, per cui opera in noi lo spirito del Signore. E più chiaramente, parlando di quei preziosi frutti di cui lo spirito divino arricchisce le anime pure, dice, che uno di quelli è la pace: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal.5,22). Lo stesso afferma l'apostolo S. Giacomo, dicendo nella sua epistola cattolica che i frutti di ogni bontà hanno nella pace la loro semenza - Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace -. (Gc.3,18). Insomma tanti sono i testi della sacra scrittura in cui si dice che Iddio operando nell'anima vi porta pace, che non può negarsi questo carattere allo spirito divino senza incorrere la nota di grande temerità. Se dunque esaminando il direttore qualche anima favorita da Dio, troverà, che dopo le comunicazioni che riceve nelle sue orazioni, le rimane impressa una pace intima, serena, sincera e stabile, avrà un gran contrassegno di esser ella visitata da quel Signore che visitando gli apostoli dopo la sua risurrezione portava loro la pace: pax vobis (Lc. 24,36. - Gv.20, 19-21). 


§. III. 

96. Il secondo carattere è l'umiltà non affettata, ma sincera. San Bernardo la definisce così: “l'umiltà è quella virtù per cui l'uomo conoscendo profondamente sé stesso, si stima da nulla» (S. Bern. De XII grad. humilit). Onde segue, ch'essa ha due parti. Una che appartiene all'intelletto, con cui conosce l'uomo con cognizione verissima, cioè bassissima, qual egli è: e di questa già parlammo nel capo sesto. L'altra, che appartiene alla volontà, con cui la persona si tratta da quella che si conosce di essere, voglio dire, si dispregia nel suo cuore; si sottopone agli altri, si confonde e si annichila nei suoi affetti, come spiega S. Bonaventura (S. Bonav. De profectu religiosor. lib. 2, cap. 29.). 

Or di questa diciamo, ch'è uno de' più chiari caratteri con cui si palesa lo spirito divino, perché Iddio si è già dichiarato in Isaia, che riguarda con occhio di amore tutti quelli che sono poveri ed umili di cuore, e pieni di timor santo è riverenziale – “Su chi volgerò lo sguardo? Sull'umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi teme la mia parola” (Is.66,2) che abita negli spiriti umili e nei cuori dimessi e contriti, e che loro dà vita:  

“ In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi”. (Is.57,15). Finalmente il Redentore stesso ci assicura che l'eterno Padre comunica i suoi segreti solo a quelli che si fanno piccoli, che si abbassano e si sottomettono a tutti ne' loro cuori: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt. 11,25). 

 97. S. Bernardo parlando di sé stesso, dice così: se vedrò aprirsi il cielo, e dilatare sopra di me il suo seno, e discendere una pioggia di soavissime meditazioni: se mi sentirò aprire la mente ad una intelligenza saporosa delle sacre scritture, e per infuso celeste lume sentirò rivelarmi gli arcani più reconditi dei divini misteri, crederò che sia meco lo sposo divino, venuto a visitarmi, e ad arricchirmi con sì preziosi doni (S. Bern. Serm. 69. super cant.). Indi soggiunge al nostro proposito: se poi di vantaggio sentirò infondermi nell'intimo dello spirito una divozione umile che generi in me odio e dispregio di ogni vanità, di modo che né le alte intelligenze mi gonfino, né l'abbondanza delle visite celesti m'innalzi: allora sì sono sicuro, che è meco il divin Padre, e che mi tratta con amore paterno, instillandomi spirito di umiltà (Ibid.). E qui si noti, che il santo in mezzo alle sue rivelazioni, intelligenze, ed altissime contemplazioni non si teneva sicuro, se non le vedeva accompagnate, e quasi suggellate col carattere di una profonda umiltà. 

 98. All'autorità di un santo padre aggiungo l'esperienza di una serafina. Santa Teresa confessa di sé, che Iddio non le fece mai favore segnalato, se non quando stava annichilandosi alla vista delle proprie miserie; e ch'egli stesso le suggeriva materia di maggiore umiliazione, acciocché più profondamente si annientasse nella cognizione di sé. Su questa sua esperienza fonda la santa questa massima di spirito: che Iddio tanto più opera nelle anime, specialmente in tempo di orazione, quanto le scorge, con l'umiltà più disposte a ricevere le sue grazie: «Quello che ho io conosciuto ed inteso è, che tutta questa fabbrica dell'orazione va fondata in umiltà; e che quanto più s'abbassa un'anima nell'orazione, tanto più Dio l'innalza. Non mi ricordo, che m'abbia il Signore fatto grazia molto segnalata di quelle che dirò appresso, che non sia stata, mentre stavo annichilandomi, e confondendomi in vedermi tanto miserabile, e cattiva: e procurava anco sua Maestà darmi ad intendere cose per aiutarmi a conoscermi, che io non l'avrei saputo immaginare (Vita di S. Teresa - scritta da lei stessa - cap. 22.). Tanto è vero, che non v'è carattere più chiaro e più sicuro dello spirito divino, quanto una vera umiltà per cui la persona si stimi indegna dei divini favori; essendone priva, non li desideri; ricevendoli si confonda e si meravigli come Iddio a lei li comparta; ne tema; li nasconda; e solo li palesi al direttore, costretta dal timore di essere illusa. 

 99. Ebbe dunque ragione il dotto e mistico Gersone di assicurare i direttori con grande asseveranza, che non dubitino di qualunque operazione, la quale sia preceduta, accompagnata e seguita dall'umiltà, senza mescolamento di alcun contrario; perché è certo, che proviene da Spirito buono ed ha Iddio per autore (Gers. Tract.de distinct. Ver. vision. sign. 4). Sentimento non diverso da quello dell'abate Antioco che dà la santa umiltà per segno, non già congetturale o probabile, ma evidente, che Iddio abita in quel cuore in cui essa risiede (Abb. Antioch. Hom. 102). 

 100. Per non sbagliare però in cosa di tanto rilievo, si avverta bene a ciò che dissi fin dal principio che l'umiltà acciocché sia carattere di vero spirito, non dev’essere affettata, ma sincera. Umiltà affettata si è, il dire di sé cose vili ed abiette, ma non sentirle nel cuore. Umiltà sincera si è, sentir di sé bassamente, e secondo quel sentimento sottoporsi schiettamente nel suo animo a tutti; dispregiarsi nel suo cuore, e soffrire con pace di essere dagli altri dispregiato: se poi giungesse la persona ad amare i disprezzi ed a riceverli con piacere, sarebbe giunta a possedere in grado eroico questa virtù. Umiltà affettata si è il non voler conoscere i doni di Dio e chiudersi appostatamente gli occhi per non vederli. Umiltà sincera si è il conoscere i benefici e favori che Iddio ci comparte, ma attribuirli a lui solo, e dargliene tutta la gloria senza che ci si attacchi punto di compiacenza o di vanità; anzi a vista del nostro demerito cavare dai doni stessi di Dio conosciuti, affetti di confusione. Dice l’apostolo, che è proprietà dello spirito umile di Dio farci conoscere i doni che riceviamo dalla sua mano benefica. “Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato” (1Cor 2, 12). Altrimenti rimanendo noi in un'affettata ignoranza o dimenticanza dei divini favori, come potremmo essergliene grati? come dargliene le dovute lodi? come accenderci in corrispondenza di amore? Come muoverci a confidenza nella sua bontà? Dunque, conclude S. Agostino con queste belle parole, conosci che i doni li hai da Dio, che nulla hai da te; acciocché non sii o superbo per vanità, o ingrato per dimenticanza (S. Aug. In psal. 85).  

 101. Concludo con un insegnamento di S. Teresa in cui si contiene tutto il sugo di questa dottrina. La santa, parlando dell'anima favorita da Dio col dono della perfetta contemplazione, dice così: «Non si curi di certe sorti di umiltà, che si ritrovano, delle quali penso trattare appresso; parendo ad alcuno umiltà, non attendere, che il Signore va facendo grazie e dando doni. Intendiamo bene, come la cosa passa, cioè che queste grazie Dio ce le fa senz'alcun merito nostro e però dimostriamoci grati a sua Maestà, perché se non conosciamo di ricevere, non ci desteremo mai ad amare; ed è cosa certissima, che quanto più ci vediamo esser ricchi, non mancando però di conoscere che siamo pure poveri, tanto più giovamento ci viene, ed anche più vera umiltà: altrimenti è un invilirsi ed un perdimento di animo, se parendoci che non siamo capaci di beni grandi, principiando il Signore a darceli, cominciamo noi ad atterrirci col timore di vanagloria (Vita di S. Teresa scritta da lei stessa, cap. 10.). 

Se dunque il direttore troverà umiltà sincera e profonda nell'orazione del suo penitente, non ne tema, ancorché sia elevatissima; e molto meno ne tema, se la scorgerà in ogni sua azione; essendo questa virtù la divisa più propria dello spirito di Dio. 

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(1) Vita di S. Teresa (scritta da lei stessa) cap. 10. 


§. IV. 

 102. Il terzo carattere si è una ferma fiducia in Dio, ma appoggiata ad un santo timore di sé stesso. Quanto sia propria dello spirito buono la fiducia in Dio, evidentemente si deduce dall'avere Iddio posta in lei principalmente la forza e l'efficacia delle nostre orazioni: sicché quell’orazione sola sia potente ad espugnare il suo cuore, a strappargli di mano ogni favore, che è fatta con speranza e con fede. Egli stesso si è di ciò più volte dichiarato nelle sacre carte. Difatti in S. Matteo ci dice Gesù Cristo che tutto ciò che chiederemo con fiducia nell'orazione, lo riceveremo infallibilmente: E tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete» (Mt 21,22). In San Marco ci assicura che non vi è cosa che non sia possibile ad ottenersi da chi può sperare con viva fede: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede» (Mc 9, 22). E poi giunge fino a questa espressione: se avrete tanto di fiducia, quanto un grano di senapa, potrete operare strepitosi prodigi, fino a trasferire i monti da un luogo all'altro: “se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile (Mt 17,19). Simili dichiarazioni fece Iddio a favore di questa santa fiducia nel vecchio testamento: come in Daniele. dicendo: che non sono mai rimasti delusi nelle loro speranze, né mai confusi quelli che hanno confidato in lui: “non c'è confusione per coloro che confidano in te” ( Dn.3,40); e nei salmi, assicurandoci che basta sperare in lui, per esser libero da ogni male: Lo salverò, perché a me si è affidato; lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome” (Ps. 90,142): ed in mille almi luoghi che troppo lungo sarebbe il volerli tutti riferire. Solo voglio osservare, che il Redentore per autenticare questa fede, e per imprimerla altamente nel cuore dei fedeli, facendo grazie miracolose in tempo della sua predicazione, d'ordinario le attribuiva alla fiducia di chi ricevevale. Così, volendo risanare una donna dal flusso di sangue, le disse: «Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita» (Mt. 9, 22). Volendo rendere la vista a due ciechi, disse, loro: «Credete voi che io possa fare questo?». Gli risposero: «Sì, o Signore!». Allora toccò loro gli occhi e disse: «Sia fatto a voi secondo la vostra fede» (Mt. 9, 28-29). Volendo dar la salute ad un paralitico, prima l’esortò a concepirne ferma fiducia. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: «Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati» (Mt. 9,2). Liberando la figliuola della molto afflitta Cananea dalla invasione dei demoni ne attribuì la liberazione alla fiducia della sua madre: «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri». E da quell'istante sua figlia fu guarita (Mt. 15,28). Sanando il servo del centurione, alla fiducia del suo padrone diede tutta la gloria di quella guarigione: «In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. - «Va', e sia fatto secondo la tua fede». (Mt. 8, 10-13). Aprendo gli occhi ad un altro cieco, dissegli, che dalla sua fiducia era stato sanato.   

(Mt 10, 52). Lascio altri simili avvenimenti, in cui manifestamente si scorge la grande stima che Iddio fa di questa fede: onde pare, che da essa sola egli si lasci vincere a compartire qualunque grazia, e fino a dispensare dalle leggi più strette ed inalterabili della natura. 

Ma se piace tanto a Dio vedere una tal fiducia ferma, e fissa nel cuore dei fedeli, converrà dire, ch'essa sia tutta conforme allo spirito di lui, anzi che non si possa da altri che da lui istillare nei nostri cuori un affetto cotanto a lui gradito. E però se il direttore la rinvenga nelle opere, e specialmente nelle orazioni dei suoi discepoli, potrà giustamente decidere. ch'essi siano internamente mossi dallo spirito del Signore. 

 103. Si avverta però, che questa confidenza in Dio dev'essere accompagnata da un santo timore di sé stesso; altrimenti non sarà retta, ma vana, e forse ardimentosa. Anche i peccatori confidano in Dio, e vanno seco stessi vanamente dicendo: eh, che Dio è buono e misericordioso: non v'è che temere di lui: proseguiamo a peccare. Il che è appunto quella confidenza stolta di cui parla il savio nei proverbi (Prov.14, 16): l'uomo stolto confida, passa avanti, e segue a peccare. La confidenza santa è solo in quelli che sperando in Dio, temono di sé stessi e diffidano delle loro forze. Se mirano la propria debolezza, entrano in un giusto timore: se guardano la bontà di Dio e le sue promesse, prendono gran coraggio; così accoppiando con bell'innesto una viva fiducia con un santo timore, corrono sicuri l'attingo della cristiana perfezione; come appunto corre sicura al bramato lido la nave se dalla zavorra sia tenuta bassa dentro le acque, e da vento propizio sia sospinta. Abbia dunque il direttore particolare avvertenza che nei suoi penitenti non vadano mai disgiunti questi due santi affetti: diffidenza o timore di sé, e confidenza in Dio. Perché il timore senza la speranza traligna in pusillanimità; la speranza senza il timore degenera in presunzione ed in arditezza. Dovechè uniti insieme questi due affetti conducono l'anima con sicurezza al porto della beata eternità; e però sono uno dei più belli caratteri dello spirito divino. 


§. V. 

 104. Il quarto carattere si è una volontà pieghevole. Dissi nel capo sesto ch'è segno di buono spirito un intelletto docile. Qui vi aggiungo una volontà flessibile; perché non basta per la prova di uno spirito retto, che si arrenda a credere, se la volontà non si piega ad operare secondo i dettami di una retta credenza. Questa flessibilità primieramente consiste in una certa prontezza di volontà in arrendersi alle inspirazioni ed alle chiamate di Dio: virtù propria de' veri seguaci di Cristo, come disse egli stesso, chiamandoli di propria bocca: Docibiles Dei (Gv.6,45). Dice S. Agostino, che quando il divino Padre internamente ci istruisce, e con la sua grazia ci stimola a seguir le orme del suo Figliuolo, muta il cuore di pietra in cuore di carne, cioè, lo rende pieghevole; ed in questo modo forma de' suoi predestinati vasi di misericordia (S. Aug. De praedest. sanctor. cap. 8). 

 105. Secondariamente consiste in una certa facilità in eseguire gli altrui consigli, massime se siano proposti da' superiori che stanno in luogo di Dio, e rappresentano la sua persona. La ragione di questo è manifesta: perché avendoci Iddio comandato nelle sacre carte, che obbediamo alla voce de' nostri superiori, come alla sua: Qui vos audit, me audit (Lc. 10,16); e che prestiamo loro una tale obbedienza, ancorché siano superiori temporali: Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo (Ef.6,5); ed ancorché siano di costumi perversi: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei…Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno (Mt. 23,23): ne segue, che entrando Iddio ad operare in un'anima con i suoi celesti lumi e sante mozioni, vi debba imprimere una certa pastosità, per cui la renda pieghevole all'obbedienza di chi presiede, e facile ad eseguire i comandi o consigli di lui. Tanto più che avendo egli stesso amato questa virtù fino a soggettarsi per amore di essa alla morte infame e dolorosa di croce:  

“umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil.2,8); non può non imprimere un simile istinto in quelle volontà che prende a governare colle sue divine inspirazioni. Né osta, che i superiori siano talvolta o ignoranti, o appassionati, o indiscreti; perché (come nota bene S. Giovanni Climaco) (S. Joan. Climac. Scala parad. Grad. 26, (post scalia) de discreta discretione.) si appartiene alla divina Provvidenza supplire in ciò che manca ai suoi ministri, qualunque volta non manchino i sudditi in prestar loro la debita soggezione. 

 106. Da questa santa flessibilità ne risulta nell'anima una certa santa propensione in aprire ai superiori spirituali tutt'i segreti del proprio cuore, ed una certa umile soggezione, per cui non solo ella eseguisce i loro ordini, ma teme d'intraprendere senza il loro consiglio alcuna notabile operazione: il che è appunto una massima di spirito, che tanto inculca Cassiano alle persone devote (Cassian. Coll. 2, cap. 10). 

Se dunque troverà il direttore ne' suoi discepoli questa volontà pieghevole alle chiamate di Dio ed alla voce di chi sta in luogo di Dio, con una certa apertura sincera, si rallegri molto nel suo cuore; perché si è imbattuto in un gran fondo di buono spirito, in cui potrà prestamente, e senza molta sua fatica piantarvi ogni virtù. 


§. VI. 

107. Il quinto carattere si è la rettitudine d'intenzione nell'operare. Iddio non muove mai, né può muovere alcuno ad operare, se non per fini che riguardano la sua gloria: perché Iddio, dice il Savio, in tutte le opere che fa fuori di sé, ha per fine sé stesso: “Il Signore ha fatto tutto per un fine, anche l'empio per il giorno della sventura” (Prov.16,4). Inoltre, è troppo chiaro l’insegnamento di Cristo, che tali sono le nostre operazioni, quali sono i fini che ci prefiggiamo in mandarle alla luce. Se l'occhio della tua intenzione dice il Redentore, sarà semplice, o puro, rimirando Iddio solo, i tuoi atti saranno splendidi, luminosi e divini: se poi l’occhio della tua intenzione sarà impuro, riguardando fini perversi, o pure difettosi; le tue azioni saranno tenebrose ed oscure: “La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!” (Mt 6, 22-23). Ed a questo volle alludere il profeta reale allorché disse: “La figlia del re è tutta splendore, gemme e tessuto d'oro è il suo vestito” (Psalm.44,14); che tutta la bellezza di un'anima deve assumersi dall'interno, cioè dai fini dai quali internamente si muove: giacché da questi prendono tutti gli altri suoi interiori ed esteriori o l'essere divini o l’essere diabolici. Avverta il direttore, che questo è un carattere principalissimo per il discernimento degli spiriti: perché una stessa opera a çagione dei diversi fini, muta natura: se sia fatta per vanità, è mondana; se sia fatta per diletto, è carnale; se sia latta per fini torbidi ed inquieti, è diabolica; se sia fatta per Iddio è divina. Quindi si inferisca che se una persona cerca abitualmente nelle sue azioni Iddio solo, brami solamente il suo gusto, il suo piacere e la sua gloria, porta sempre in fronte un gran carattere di Spirito buono.  


§. VII 

108, Sesto carattere si è la pazienza in quelle cose che ci tormentano nelle membra del corpo, come i dolori, le pene e le infermità; ed in quelle che ci toccano sull’onore, come le persecuzioni, le calunnie e i dispregi, ed anche in quelle che ci affliggono con la perdita della roba e dei parenti, degli amici e di ciò che ci è più caro. Certo è che il sopportare questi travagli con pace e molto più il bramarli con ardore è un gran contrassegno di buono Spirito, secondo il detto dell’apostolo san Giacomo, che la pazienza è una operazione perfetta: “E la pazienza completi l'opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla” (Gc.1,4); e secondo l’altro insegnamento dell'apostolo che la pazienza ci è necessaria per l’acquisto dell’eterna salute: “Avete solo bisogno di costanza, perché dopo aver fatto la volontà di Dio possiate raggiungere la promessa” (Eb.10,36) E se brama il direttore saperne la ragione, eccola in pronto. La pazienza (se non sia una simulazione dei risentimenti del cuore ed una mera apparenza di virtù, ma virtù vera, radicata nell’intimo dell’anima non può nascere dallo spirito mondano che ama l'onore e non può soffrire gli oltraggi; né dallo spirito carnale, che ama il corpo e non può sopportarne le pene; né dallo spirito diabolico, che ci instilla sempre l'attacco ai beni terreni, e per conseguenza l'insofferenza di ogni loro mancanza: né dallo spirito umano, che collegato con l’amor proprio (se pur non è lo stesso amor proprio) sempre si risente all'arrivo di quelle cose che son contrarie alla natura. Dunque, resta, che non possa da altri provenire che dallo spirito divino, Aggiungo a questo proposito. che è anche gran carattere di spirito retto e divino la pazienza, la rassegnazione e la conformità al divino volere nelle aridità, nelle desolazioni, nelle tenebre e nelle tentazioni, parlando anche di quelle straordinarie, che Iddio suole permettere a certe anime che vuol portare all'alto della perfezione: perché le inquietudini, le turbazioni e le impazienze che nascono da questi travagli interni, hanno origine dall'attacco che l'anima ha preso a certe comunicazioni soavi, e ad una certa pace sensibile da lei sperimentata per il passato: né questo attacco va separato dall'amor proprio confederato con lo spirito umano che cerca sempre ciò che piace a lui, e non quel che piace a Dio, né giova addurre per scusa di queste inquietudini ed intolleranze interne, il sembrare all'anima di essere abbandonata da Dio di cui non sente più la presenza; perché Iddio, quanto è da sé, tra le desolazioni non abbandona mai l'anima: solo le toglie certe sensibilità dilettevoli a fine di renderla, con la conformità e con la pazienza, più forte nello spirito, e più robusta. Onde non può dubitarsi, che una tolleranza quieta e pacifica in mezzo ai travagli delle aridità sia carattere di buono spirito, tanto più che Iddio stesso ci esorta ad averla, dicendo a queste anime desolate: “Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore” (Psalm.26,14). 

 109. San Cipriano con molte belle parità dimostra, che lo spirito sodo e robusto del cristiano non si prova, se non che nella tolleranza dei travagli. Un pilota, dice egli, non si conosce quando il cielo è sereno ed il mare giace in placida calma, ma quando il cielo ed il mare è tutto posto in tempesta. Un soldato non mostra il suo valore quando sotto le tende vanta vittorie, ma quando in campo aperto combatte tra mille spade nemiche. Il gloriarsi fuori delle contrarietà e dei contrasti, è vanto di persona delicata: le sole avversità sostenute coraggiosamente sono la prova della vera virtù (S. Cyprian.De mortalit.). Un albero, segue a dire il santo, che sia profondamente radicato nel suolo, non si muove alle scosse dei venti: una nave che sia fortemente compaginata e ben corredata, non si apre all'urto delle procelle. Così una virtù ben formata dalla divina grazia ed altamente radicata nell'anima, non si smuove ai venti delle tribolazioni; non si scioglie in impazienze, né dà in debolezze tra le tempeste delle persecuzioni. Ventilandosi il grano nell'aia, la paglia è trasportata da ogni ama leggiera, ma non già gli acini di grano che hanno sostanza, peso e consistenza. Così al soffiar de' venti de' travagli, siano interiori o esteriori, si conosce chi nell'aia del Signore è paglia leggiera, o grano eletto. Finalmente conclude con l’esempio di S. Paolo, il quale. dopo i naufragi, dopo le flagellazioni, dopo tanti e sì gravi tormenti ed afflizioni, non diceva di essere stato vessato, ma perfezionato dalle avversità; e confessava che quanto erano maggiori le sue afflizioni, tanto più veraci erano le prove del suo spirito (Ibid). 

 110. Ma Tertulliano passa più avanti: ed arriva a dire che agli stessi feriti la sola pazienza straordinarissima del Redentore. non veduta mai in altro uomo, con cui egli soffriva intrepidamente tanti oltraggi, tante contumelie, e tante pene, poteva bastare per intendere, che non era un puro uomo, ma un uomo Dio (Tertull. Lib. de Patient. cap. 3). Ma se la pazienza ch'era in Cristo, poteva bastare per intendere, che egli era Dio; la pazienza ch'è in quelli che l’imitano nel patire potrà anche bastare per conoscere che in essi è il vero spirito di Dio. 

 111. Avverta però il direttore, che questa pazienza non in tutti si trova allo stesso grado di perfezione. I principianti al primo incontro di dette tribolazioni sogliono sentirle al vivo. I proficienti, che hanno le p assioni più domate e l’amor proprio più mortificato, le sentono meno: ma pure e gli uni e gli altri si soggettano al divino volere, e si adattano alla loro croce. I perfetti però che hanno già trionfato delle loro inclinazioni scorrette, vanno loro incontro con allegrezza, e le abbracciano con amore e con gaudio; come gli apostoli che ritornavano con giubilo dal concilio, in cui avevano ricevuto contumelie ed onte: “Ma essi se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At. 5,41). In qualunque grado però si possegga questa virtù, sempre è dono di Dio che con la sua grazia la produce nelle nostre anime. 


§ - VIII. 

 112. Il settimo carattere si è la mortificazione volontaria del proprio interno. Non si può mettere in dubbio che questo sia un bel carattere dello spirito divino, perché ce l'ha detto il Redentore di propria bocca: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua (Mt. 16,24): ecco la divisa dei seguaci di Cristo che hanno lo spirito di Cristo: annegare sé stessi, contraddire alle proprie voglie. abbattere le proprie passioni, “il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt. 11, 12): quali sono i generosi soldati del Redentore che conquistano il suo celeste regno? I mortificati che fanno forza, che fan violenza a sé stessi. “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Gv.12, 24-25): 

acciocché un grano di frumento produca frutto, bisogna che muoia sepolto in terra; così, acciocché produca l'uomo frutti di vita eterna, conviene che muoia a sé stesso con l’esercizio di una indefessa mortificazione. 

 113. E qui vanno a ferire le par ole che seguono: “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv.12,25). Né vuol già significare con questo il divino Maestro, che per odio a noi stessi abbiamo a darci morte con le proprie mani; ma bensì che abbiamo a dar morte ai nostri malnati appetiti ed alle nostre prave inclinazioni, facendo loro guerra con una incessante abnegazione. Questo, come nota bene S. Giovanni Crisostomo, è propriamente odiar sé stesso: perché, siccome non possiamo mirare il volto, e né pure udir la voce di quelli che odiano a morte, ma rivolgiamo da essi dispettosamente lo sguardo; così odiando noi stessi, dobbiamo con violenza rivolgere l'animo mal inclinato da quelle cose che non piacciono a Dio: il che è lo stesso che mortificarlo potentemente (S. Io. Crysos. In Joan. homo 67 in edit. Maur., al. 66). 

114. Quindi inferisce divinamente Cornelio A-Lapide, che l'abnegazione di sé stesso è la  base ed il fondamento su cui si appoggia tutta la fabbrica della vita cristiana: questa è la radice da cui pullula ogni virtù: questa è la fonte da cui scaturisce ogni perfezione: E però chi brama di venir perfetto nella scuola di Cristo, questa dottrina di mortificazione continua deve aver sempre avanti gli occhi, e con questa regolare le sue azioni; ed in tal modo diverrà vero discepolo, ed imitatore fedele del Redentore (Cornel Alap. In Gv.12,25). Tanto è vero che lo spirito d'interna mortificazione è inseparabile dallo Spirito di Gesù Cristo. 

 

§. IX. 

 115. Ottavo carattere si è la sincerità, la veridicità, e la semplicità, virtù che sogliono andare unite. Iddio è la prima verità; e però non può infondere in quei cuori in cui risiede, se non che spirito di verità e di schiettezza. In oltre si è dichiarato lo stesso Dio, ch'egli parla alle persone semplici: perché il Signore ha in abominio il malvagio, mentre la sua amicizia è per i giusti (Prov.3,32): cioè illumina quelle menti che procedono semplicemente senza doppiezza, senza finzioni e senza frodi, come spiega San Gregorio (S. Gregor. Lib. pastoralis curae par. 3, admon. 12): 

E più espressamente al nostro proposito dice lo stesso santo dottore, che la sapienza de' giusti, in cui formalmente consiste lo spirito vero del Signore, ha di proprio non finger mai, ma palesare con sincerità i sentimenti del cuore: amare sempre il vero, e fuggire ogni ombra di falsità (Idem. Moral. lib. 10, cap. 16). Se però la semplicità e la schiettezza nasca non da natura, ma da virtù, come suole accadere nelle persone di mente aperta e d'indole sagace, è un gran segno di buono spirito. Onde di questi ancora può dirsi, che siano quegli uomini piccioli sugli occhi del mondo ma grandi su gli occhi di Dio, ai quali svela il Signore i suoi segreti: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25). 

 

§. X. 

116. Il nono carattere si è la libertà di spirito. Per questo non v'è bisogno di prova: perché lo dice S. Paolo a chiare note; (2Cor 3,17) ov'è la libertà dello spirito, ivi si trova lo spirito del Signore. Solo vi è bisogno di spiegare in che consista questa libertà di spirito, che da Dio solo s'ingenera nelle nostre anime. Per libertà di spirito qui intendono alcuni una certa scioltezza di coscienza, ed un certo operare libero e franco, poco conforme alle leggi della ragione e della fede: ma s'ingannano, perché questa non deve chiamarsi libertà, ma dissolutezza di spirito. Per capire cosa sia libertà di spirito, è necessario intendere cosa sia servitù di spirito: giacché questa è una virtù, che in modo speciale riceve luce dal suo contrario. Servitù dunque di Spirito altro non è che una soggezione volontaria dell'anima a qualche vizio, da cui la meschina si lasci predominare. La spiega egregiamente Sant'Ambrogio, interpretando quelle parole del salmo: “Io sono tuo: salvami, perché ho cercato il tuo volere” (Psal.118,94). Non può, dice il santo dottore, un uomo di mondo dire a Dio: Io, Signore, sono tuo; perché ha molti padroni, che lo tiranneggiano. Si fa avanti la libidine, e gli dice: tu sei io; perché brami i piaceri del senso. Viene l'avarizia, e gli dice: tu sei mio; perché l’oro e l'argento a cui vivi attaccato sono il prezzo con cui ho comprata la tua servitù. Gli si presenta avanti il lusso delle vivande e gli dice: tu sei mio; perché la sontuosità dei conviti è il prezzo, per cui a me ti desti. Viene l'ambizione. e dice: sei affatto mio: e non sai che agli altri ti ho fatto sovrastare, acciocché servissi a me? che ti ho data potestà sopra gli altri, acciocché soggiacessi al mio potere? Vengono gli altri vizi e tutti dicono: tu sei mio. Finalmente conclude il Santo: che schiavo vile, e miserabile è mai quello, che tanti lo pretendono per sé, e lo vogliono soggetto al suo dominio! (S. Ambros. In psal. 118, serm. 12).   

117. Ecco dichiarata la servitù dello spirito: ed ecco anche spiegata la libertà dello spirito: la quale consiste in esser libero dal predominio dei vizi, di cui è schiavo chi si lascia da essi signoreggiare. 

Bisogna però notare, che questa libertà di spirito non è una virtù indivisibile, ma può crescere in gradi di ulteriore perfezione. Può alcuno esser libero dai vizi, in quanto non consente ai loro movimenti: e questo non eccede l'infimo grado. Può esser liberi anche da' movimenti de' vizi e delle loro prave inclinazioni, in modo almeno che le senta di rado, le senta insorgere leggiere, e le reprima con molta facilità: e questo è un grado superiore. Può esser libero da ogni attacco alle cose terrene ed oneste: e questo è grado più alto. Può essere anche libero da ogni attacco ai doni di Dio: e questo è il più sublime grado di libertà spirituale. Chi possiede questa virtù in grado perfetto, ha l'animo libero da tutte le afflizioni, sollecitudini, ansietà; ed è sempre disposto e pronto a conformarsi, in tutto ciò che gli accade, al divino volere; poco si rallegra de' beni terreni, e poco si rattrista della loro mancanza; e se sente alcuna volta qualche moto di dispiacere, presto si tranquilla in Dio, ed entrando dentro di sé, ove le cose son ben composte, presto si rasserena. In somma di questi si verifica il detto dello Spirito Santo, che qualunque cosa accade all'uomo giusto non ha forza di contristarlo. “Al giusto non può capitare alcun danno, gli empi saranno pieni di mali” (Prov.12,21). Questi tali ricevono volentieri le consolazioni e le visite del Signore; e ne soffrono con pace la privazione. Fanno le loro oraziani, le loro comunioni, le loro penitenze, e tutti gli altri esercizi di spirito: mai lasciano con l’istessa facilità quando o la carità o la necessità o l'obbedienza lo richieda. In somma hanno rotta la catena di ogni attacco, perciò vivono liberi da ogn'imperfetta sollecitudine, in una placida calma ed in una dolce serenità. Beati quelli che giungono a questo stato; perché hanno un carattere, non solo di spirito, ma di vera santità. 

 

§. XI. 

118. Il decimo carattere si è il desiderio della Imitazione di Cristo. Questo è il più chiaro segno dello spirito divino; perché afferma S. Paolo, che uno non può avere lo spirito di Dio ed essere privo dello spirito di Gesù visto. “Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene” (Rom. 8,9). E la ragione l'arreca S. Anselmo, spiegando queste parole dell'apostolo; perché lo spirito di Dio non è distinto dallo spirito di Cristo, essendo uno stesso lo spirito del divino Genitore e del divino figliuolo (S. Anselm. In text. Edit. Colon. Agrip. 1612.): onde non ci può internamente muovere a cose aliene da quelle che operò e c'insegnò il nostro amabilissimo Redentore. Dunque alla imitazione delle virtù di Gesù Cristo ed alla obbedienza dei suoi insegnamenti altri incitar non ci può, che lo spirito di Dio. 


§. XII. 

119. L'undecimo carattere si è, una carità mansueta, benigna, disinteressata, quale la descrive l'apostolo: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto” (1Cor 23, 4-5). S. Agostino fa tanto sicuro uno spirito pieno di sincera carità che arriva a dire queste parole; ama tu con amore di carità, e fa pur quel che vuoi, non errerai. Se parli, se taci, se correggi, opera il tutto con interna dilezione: non può essere che buono tutto ciò che pullula dalla radice di un’intima carità (S. A.ug. In epist. 1. Joan. tract. 7). Bella espressione è questa, ed insieme bella prova a favore di uno spirito caritatevole. Lascio altri caratteri, perché questi possono bastare al direttore per giudicare rettamente di qualunque moto interiore o esteriore dell'animo, e per decidere se abbia da Dio l'origine. 

G. BATTISTA SCARAMELLI SERVUS IESUS 

sabato 20 maggio 2023

IL DISCERNIMENTO DEGLI SPIRITI

 


Caratteri dello spirito diabolico, circa i moti o atti del nostro intelletto affatto contrari ai caratteri dello spirito divino.


§. I.  

73. Non io, dice l'Apostolo, la luce sì opposta alle tenebre, come lo spirito di Dio è contrarie allo spirito del demonio. “Non lasciatevi legare al giogo estraneo degli infedeli. Quale rapporto, infatti, ci può essere tra la giustizia e l'iniquità, o quale unione tra la luce e le tenebre? Quale intesa tra Cristo e Beliar, o quale collaborazione tra un fedele e un infedele?” (2Cor 6, 14,15). E però dopo avere esposti i caratteri, per cui si scopre lo spirito divino negli atti della nostra mente, accennerò in breve i caratteri con cui si fa conoscere lo spirito diabolico negl'istessi atti mentali. Così posti questi diversi caratteri gli uni a fronte degli altri, si renderanno più discernibili al direttore, secondo il detto de' filosofi, che le cose allora fanno maggiore spicco, quando sono poste a fronte dei loro contrari. 

 74. S. Gio. Crisostomo è di parere, che noi restiamo vinti dal demonio, non perché non siano facili a conoscersi le nodi che ordisce contro di noi, ma perché avendo noi un nemico sì formidabile al fianco, ce ne stiamo profondamente addormentati senza punto vegliare alla nostra difesa (s. Joan. Crys. In ep. ad Rom. Hom. 10). Ma se avessimo, segue a dire, un serpente velenoso nel letto, potremmo noi dormire? No certamente, ma staremmo tutt'intenti ad ucciderlo: e poi avendo dentro di noi un nemico sì formidabile, qual è il demonio, viviamo spensierati, ce ne restiamo neghittosi. e dormiamo con tanto nostro danno (Ibid.). Né giova il dire, soggiunse il santo, il serpente è un nemico che lo vedo; perciò, me ne difendo: il demonio io non lo vedo; perciò non lo temo: poiché per questo stesso ch'è nemico invisibile, ed insieme astuto, ed ingannatore è più da temersi, e richiede una più vigilante difesa. Finalmente conclude: sta dunque sulle parate ben munito di armi spirituali, prevedi le sue arti e le sue frodi; acciocché volendo egli ingannar te, tu anzi inganni lui: come fece l'apostolo Paolo, che con questa previsione e con la notizia delle cognizioni fallaci ch'egli è solito d'ingerire, rimase di lui vincitore (2Cor 2,11). E per conoscere appunto queste cognizioni maligne con cui il demonio s'insinua nelle nostre menti, ne darò i contrassegni nel presente capitolo. Apparterrà poi al lettore servirsene sopra di sé. ed ai direttori a valersene sopra gli altri, con quella vigilanza ed, accortezza che il santo dottore tanto raccomanda. 


§ II 

75. Primo carattere dello spirito diabolico. Lo spirito diabolico è spirito di falsità. Ma qui è necessario che io premetta una notizia che bisogna aver sempre avanti gli occhi per conoscere le trame con cui lo spirito maligno s'intrude tanto nell’intelletto, di cui presentemente parliamo, quanto nella volontà, di cui ragioneremo appresso. 

Il demonio, dice S. Agostino, alle volte ci assalta scopertamente, altre volte ci tende occultamente le insidie. Quando ci assale alla scoperta, la fa da fiero leone; quando c' 

insidia nascostamente la fa da dragone fraudolento (s. August. in Psalm. 90). Altrove dice lo stesso, e solo aggiunge, ch'è più da temersi il demonio quando viene ad ingannarci coperto sotto fallaci sembianze, che quando a faccia scoperta ci muove guerra (Idem in psal. 39). 

76. Il demonio, dunque, essendo padre della menzogna, tende sempre ad ingerire qualche falsità nella nostra mente. Ma che ora lo fa scopertamente ma guisa di leone furibondo, ed ora copertamente a guisa di dragone ingannatore. Ci assalta alla scoperta. quando ci pone in testa specie contrarie alla fede o al sentimento concorde de' santi dottori, quando ci suggerisce massime poco confacevoli alla grandezza della divina misericordia o della divina Provvidenza per abbattere il nostro spirito, quando ci dà pensieri poco conformi alla moralità delle virtù cristiane, o pure ombre insussistenti contro il nostro prossimo atte ad accendere in noi veementi passioni. In tali casi è facile a ravvisarlo per desso non solo dal confessore, ma anche dallo stesso penitente; perché comparisce con la sua stessa faccia, voglio dire, in sembianza di falsario e di menzognero. Alle volte poi se ne viene insidiosamente mascherato in apparenza di angelo, come dice S. Paolo: “Ciò non fa meraviglia, perché anche satana si maschera da angelo di luce” (2Cor 11,14). Ci dice cose vere e sante, conformi agl'insegnamenti della fede, e della cristiana moralità, ma con fine di mescolare tra molte verità qualche falsità o pure di conciliarsi fede con vero, per ingannarci alla fine col falso. E questo lo fa l'iniquo ora per via di suggestione, ed ora per via di apparizione e di chiara locuzione. So di una persona religiosa a cui il demonio diede lungo tempo pascolo di santi pensieri e di devoti affetti; l’illuse ancora più volte con finte apparizioni di Gesù Cristo; poi incominciò a proporle qualche massima falsa; e trovando credenza, l'indusse a poco a poco a rinnegare la fede. 

 77. Altri simili non meno infausti avvenimenti narrano Cassiano e Palladio. Come di quel vecchio monaco Erone che si precipitò miseramente in un pozzo per una vana speranza che il traditore avevagli posta nella mente di doverne uscire illeso per mano degli angeli: e di quello che a persuasione del nemico si accingeva ad uccidere il suo figliuolo, pretendendo imitare l'atto eroico di Abramo in sacrificare il suo diletto unigenito: e di quell’altro che illuso dal demonio s'indusse a circoncidersi e a farsi Ebreo (Cassiano Coll. 2. cap. 5, 7, 8): e finalmente di quel Valente (solitario) che credendo di conversare, domesticamente con gli angeli trattava con i demoni, e giunse ad adorare uno di essi sotto le mentite sembianze del Redentore (Pallad. In vit. patr. lib. 8, 31), Confesso che quando il demonio viene così coperto sotto devoto aspetto non è sì facile raffigurarlo, o egli muova internamente i pensieri senza farsi vedere, o pur gli insinui con false apparizioni. E però deve il direttore esaminare diligentemente le massime che in tali casi sente la persona suggerirsi, e se non le trova concordi con le regole certe e sicure del vero che diedi nel precedente capitolo, creda pure che vi è illusione: le corregga, e procuri di allontanare a tempo il nemico; altrimenti prenderà sempre più possesso e maggior ardire, con grave danno delle povere anime. Così ci ammonisce Sant'Anselmo. Questo santo dottore commentando le sopraccitate parole dell'apostolo: “Ciò non fa meraviglia, perché anche satana si maschera da angelo di luce” (2Cor 11, 14): dice che quando il demonio, illudendo i nostri sensi con false comparse, non rimuove la mente dalla giusta e retta credenza, o pure opera o dice cose che non sconverrebbero anche ad un angelo santo, non v'è errore di fede: ma quando poi comincia a proporre cose false ed erronee, è necessaria gran vigilanza ed un accorto discernimento per non andargli dietro, elevarselo prestamente d'intorno (S. Anselm. In text. Edit. Colon. Agrip, 1612). E questa vigilante discrezione dev'essere nel direttore a cui si appartiene esaminare le massime che scorrono per la mente de' suoi discepoli, o che sono loro suggerite al di fuori, per scoprire da quale spirito essi siano dominati, e per dar loro giusta e sicura direzione.

 

§, III. 

 78. Secondo carattere dello Spirito diabolico. Lo spirito diabolico, all'opposto del divino, suggerisce cose inutili, leggere ed impertinenti, Il demonio, quando non trova modo d'insinuarsi con le falsità e con le menzogne, per non avere una vergognosa ripulsa, usa un’altra arte maligna; ed è, che procura di dar pascolo alla mente con pensieri inutili, acciocché fissata in quelli non si occupi in altri pensieri santi e profittevoli. 

A questo tendono tante distrazioni, che il perfido pone in testa dei fedeli in tempo delle loro orazioni. A questo tendono certe visioni da cui non risulta alcun buon effetto. Vi è cosa in questo mondo più santa e più devota delle piaghe del nostro amabilissimo Redentore? Eppure, mi è nota una persona a cui il demonio per più anni rappresentò in tutte le sue orazioni le piaghe dei sacri piedi, ed in quella vista mentale la tenne sempre immersa. Gliele faceva comparire in diverse figure, ora dilatate, ora ristrette: talvolta le faceva vedere un vermicciolo, che usciva da quelle piaghe, e dicevale che quello era simbolo della sua anima, ed altre simili leggerezze. Tutte queste rappresentazioni erano affatto vuote di santi affetti: non vi era una riflessione seria, non un sentimento sodo e profittevole, né alcun sugo di vera divozione. Sembravano galle leggiere senza peso, senza frutto, senza sostanza. Onde non poté dubitarsi, che quella era stata una continua illusione del demonio, il quale avevale tenuta occupata la mente in quelle viste immaginarie, quasi in una dolce pastura, acciocché non si applicasse all'orazione con rettitudine di pensieri, e santità di affetti. Ecco, dunque, la proprietà dello spirito diabolico: ingerire nella mente dei fedeli o cose false per indurli al male, o cose infruttuose per frastornarli dal bene. 


§. IV. 

 79. Terzo carattere dello spirito diabolico è di recare alla mente tenebre, o falsa luce. Il demonio non solo è padre della bugia, ma delle tenebre ancora. Se però ci investe alla scoperta, la fa da quello ch'egli è, e produce nella nostra mente tenebre, caligini ed oscurità come ci assicura il Crisostomo: e allora offusca la mente, oscura l’intelletto, riempie l'anima di turbazioni, di ansietà, di angustie, di scrupoli, e di penose perplessità (S. Ioan. Chrys. In ep. 1. ad Cor. Hom. 29).). In questi casi è facile il conoscerlo; perché producendo effetti a sé propri, da sé stesso si palesa. Se poi il nemico ordisca occultamente le sue trame sparge luce nelle nostre menti, ma luce falsa: perché la sua luce altro non è che un certo lume naturale ch'egli sveglia nella immaginativa per cui rappresenta con qualche chiarezza gli oggetti, e desta qualche dilettazione nell'appetito sensitivo. Ma non passa quella luce all’intelletto, né può renderlo abile a penetrare le verità divine, e molto meno d'ingenerare nell’intimo dello spirito affetti di divozione sincera. Sicché tutto l'effetto di questa luce fallace si riduce ad un certo diletto nei sensi interni, tutto corporale, affatto superficiale, senza alcun carattere di vera spiritualità. E alla fine poi questa stessa dilettazione corporea va a finire in inquietudine ed in turbazione non essendo possibile che il traditore dopo molta simulazione, finalmente da sé stesso non si scopra. Onde possiamo dire con S. Cipriano, che il demonio la fa sempre con i servi di Dio, o da avversario fraudolento che inganna, o da nemico violento che oppugna con le sue nere e torbide persecuzioni (S. Cyprian. De zelo, et livore).  

80. San Pier Damiano asserisce, che il demonio non solo offusca ai fedeli la mente con le sue tenebre o con la sua falsa luce, ma che affatto li accieca; e spiega il modo con cui procede l'iniquo, con i luttuosi successi del misero Sedecia. A questo re infelice furono trucidati in presenza tutti i propri figliuoli per comando del barbaro Nabucco, re di Babilonia; e poi furono a lui stesso cavati ambedue gli occhi: non so se più infelice quando vide, o quando non poté più vedere (Ger. cap.39). Il santo scrivendo ad Ildebrando, che poi fu sommo pontefice (S. Gregorio VII), dice che il re di Babilonia è il demonio principe di confusione e di tenebre, che trucida alle anime incaute tutti i parti belli delle loro opere buone, e glieli uccide sugli occhi mirandone esse la perdita con dolore. 

Tolte poi le sante operazioni, le accieca alla intelligenza delle cose soprannaturali. Finalmente traendole a darsi in preda alle cose mondane le accieca anche nell'occhio della ragione, offuscandone il lume (s. Petri Damiani Lib. I epist. 5. ad Hildebr. archid. et Steph. presb.). Chi, dunque, non vuol rimaner cieco alle cose divine, si guardi dalle tenebre e dalla luce fallace con cui il perfido illude le nostre menti. 


§. v. 

 81. Quarto carattere dello spirito diabolico. Lo spirito diabolico è protervo. Tale lo mostrano in sé stessi gli eretici, i quali né alla santità delle scritture, né all'autorità de' sommi pontefici, né alla infallibilità dei concili, né alla dottrina dei padri mai si arrendono, ma persistono sempre ostinati nelle loro stolte opinioni. E donde mai tanta pertinacia nei loro intelletti, se non dal demonio che vi regna, e vi ha trasfuso il suo spirito protervo?  

 82. Rimproverando Gesù Cristo agli Ebre la loro incredulità disse loro: “Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole, (Gv.8,43): voi non conoscete la mia loquela, perché non sapete indurvi ad ascoltare le mie parole. Aggiunge S. Agostino: perciò non potevate udire il Redentore, perché ostinati nei loro errori non si volevano correggere prestando credenza ai suoi santi insegnamenti (S. August. In Joan. Tract. 42). Gran protervia fu questa: non voler prestare orecchie alle parole dolcissime di Cristo che rapivano i popoli interi con la loro soavità, li traevano fuori dalle città, dai castelli, e li conducevano alle foreste, alle solitudini, ai lidi deserti del mare, scordati affatto non solo dei propri affari, ma fino del cibo e della bevanda. Eransi pur altri protestati, che non potevano fare a meno di seguitarlo. Perché aveva in bocca parole di eterna vita: “noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». (Gv.6. 69): ed altri si erano pur dichiarati, che niuno aveva mai, come egli parlato così saggiamente e sì dolcemente: «Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo!» (Gv.7. 46). Qual dunque fu la cagione di tanta protervia in quei miscredenti? Lo disse Gesù Cristo stesso. Soggiungendo (Gv.8. 44): voi avete il diavolo per padre; ed imbevuti del suo spirito protervo volete perseverare contumaci nelle vostre false opinioni; e però fuggite di ascoltare i miei discorsi temendo che vi tolga d'inganno: “voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna”, come spiega la glossa. Tanto è vero, che spirito di pertinacia è spirito diabolico. 

 83. Se mai si imbatterà il direttore in alcuno che abbia lungamente aderito alle illusioni del demonio, onde questi abbia di già preso possesso della sua mente, toccherà con mano una simile protervia: tanto lo troverà fisso nel suo parere. E però dice saggiamente Cassiano. che il demonio con niun'altro vizio conduce più sicuramente un'anima alla perdizione, quanto con introdurvi una certa pertinacia, per cui, non curando il consiglio dei più autorevoli, si appoggi solo al suo giudizio (Cassiani, Collat. 2, cap. 11). Dunque dalla docilità o pertinacia che il direttore scorgerà nei suoi discepoli, potrà prendere argomento ad intendere da quale spirito siano mosse le loro menti. 


§. VI. 

84. Quinto carattere dello spirito diabolico si è l'indiscrezione con cui incita agli eccessi. Qui non parlo delle opere cattive a cui di ordinario il nemico ci spinge (perché di queste dovrò ragionare di poi); parlo solo delle opere apparentemente buone a cui egli talvolta fraudolentemente ci stimola con qualche sua indiscreta idea: e dico, che incitandoci ad esse il traditore per fine malvagio procura sempre che decliniamo dalla rettitudine con qualche esorbitanza. Onde la sola indiscrezione nelle opere buone, massime se sia grave e continua, dà gran fondamento a credere che queste non siano inspirate da Dio che di niuno eccesso è cagione, ma suggerite dal suo nemico. Lo spirito del demonio, dunque, si palesa per l’indiscretezza, perché nell'opere buone che maliziosamente ci suggerisce non conserva né la debita misura, né il debito tempo, né il dovuto luogo, né il debito riguardo alla qualità delle persone. 

Non mantiene la debita misura; perché, incitandoci e. g. alla penitenza ci suggerisce rigori eccessivi, flagellazioni troppo aspre, cilizi troppo rigidi, digiuni troppo lunghi, vigilie troppo continuate: e ciò fa per due perversi fini, il primo, per dar pascolo alla superbia, perché poi pone sotto gli occhi di un tal penitente la sua lunga macerazione  acciocché se ne compiaccia come di cosa segnalata, e ne faccia pompa, se non ad altri, almeno a sé stesso, come costumano di far pompa i soldati delle loro ferite: il secondo, per snervare le forze corporali e guastare le sanità; onde poi il desiderio dell'austerità si cangi in orrore e la penitenza indiscreta in una eccessiva delicatezza, anzi in una totale impotenza a proseguire ne' devoti esercizi: sicché alla povera anima delusa, come molto bene osserva Cassiano, riescono alla fine le asprezze più nocevoli delle stesse delizie (Cassian. Collat. 2, cap. 16). 

85. Riferisce lo stesso Cassiano che avendo l'abate Giovanni allungato per due giorni il digiuno, mentre trovavasi estenuato di corpo ed esausto di forze, se ne andò il terzo giorno alla mensa per ristorarsi: nell'avvicinarsi, si vide comparire avanti il demonio in forma di nero etiope, il quale prostratosigli ai piedi, perdonami, gli disse, o abate, io sono stato quegli che ti ho imposto questo indiscreto digiuno. Soggiunge Cassiano, che allora il S. abate (uomo per altro di gran perfezione e perfetto nella virtù della discrezione, si avvide che era stato ingannato dal demonio, mentre lo aveva ridotto ad intraprendere indiscretamente un'astinenza troppo superiore alle sue deboli forze, e che poteva recar nocumento al suo spirito (Cassian. Collat, 1. cap. 21).   

 86. Io non nego però, che Iddio talvolta inspiri ai suoi servi penitenze molto straordinarie di digiuni prolungati a più giorni, di vigilie non interrotte dal sonno, di asprissimi cilizi e di sanguinose flagellazioni. Ma in tali casi si avvertano due cose che non v'è ombra d'indiscrezione da parte di chi l'intraprende; perché stimolando Iddio ad insolite austerità, gli dà forze corporali e spirituali per reggere ad un tal peso, benché esorbitante: non v'è indiscrezione da parte del direttore che gliene permette l’esecuzione, perché in tali congiunture dà Iddio segni manifesti della sua volontà. 

 87. Non conserva il demonio il debito tempo: perché incitando a qualche bene apparente, ciò fa in tempi impropri e disconvenevoli. Con questo solo indizio riuscì ad un direttore discreto di scoprire uno spirito falso. In una comunità religiosa vi era una persona in credito di spirito singolare specialmente perché di lei vi era fama che spesso le comparisse Gesù Bambino, e spesso la consolasse con la sua dolce presenza. Or seppe il detto confessore, che trovandosi ella in giorno di venerdì santo presente ad una fruttuosissima predica sulla passione del Redentore, aveva avuto quasi sempre avanti gli occhi il divin Bambinello con molte tenerezze di affetti. Questo solo gli bastò per entrare in un veemente sospetto ch'ella fosse illusa dal comune nemico; perché non gli pareva quello né tempo, né occasione propria di una tal vista, Se niun uomo prudente. diceva  egli, prenderebbe in questa giornata ed in congiunture di un tal discorso, per materia delle sue considerazioni, l'infanzia di Gesù Cristo, quanto più disconviene che in tali circostanze di tempo, ce ne ponga avanti gli occhi l'immagine Iddio stesso, ch'è infinitamente più prudente di tutti gli uomini insieme? E di fatto non andarono falliti i suoi sospetti, perché dovendola poi esaminare, la trovò per altre ragioni manifestamente illusa. 

 88. Non conserva il debito luogo: perché il demonio sempre istiga a far le opere buone in luoghi pubblici, che il più delle volte sono i meno congrui per tali azioni, conforme all'uso de' farisei, uomini di spirito diabolico, dei quali dice Cristo: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange” (Mt 23,5). Il fine poi ch'egli ha in suggerire, che il bene si faccia all'aperto, è perverso: poiché vuole che resti corrotto dalla vana gloria che nasce dall'essere veduti e lodati dagli uomini. Anzi si osserva che i fervori, le tenerezze, le lagrime false, le finte estasi ed altri apparenti favori che dà il demonio, di ordinario accadono in pubblico, ov'è frequenza di popolo; perché vuole che le opere dei suoi seguaci videantur ab hominibus. Ma Cristo tutto l'opposto: se vuoi, dice, compartire limosine, guardati di fare come gl'ipocriti che le dispensano per le sinagoghe e per le pubbliche strade: se vuoi orare, guardati d'imitare questi perfidi che amano di fare in mezzo alle sinagoghe e ne' cantoni delle piazze le loro orazioni: onde rimangono tutte le loro opere rose dal verme della vanità: “Quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa…. Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa” (Mt. 6, 2,5). Ma tu, segue a dire il Redentore volendo fare limosine falle di nascosto: volendo fare orazione, chiuditi nella tua stanza e prega da solo a solo, occultamente il tuo celeste Padre: “Quando invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra… Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt. 6, 3,6). Si eccettuano però quei casi in cui Iddio vuole per motivi di sua gran gloria che le opere buone ed i favori che egli comparte compariscano in pubblico. 

 89 Finalmente non conserva il debito riguardo alla qualità delle persone. In un solitario, dice Riccardo di S Vittore che deve attendere alla quiete della contemplazione, sveglia il demonio pensieri di convertir peccatori e di far gran bene nei prossimi (Rich: In cant. cap. 17). Nei principianti non ancora assodati nella virtù, che devono attendere al proprio profitto, mette pure il nemico una simile suggestione di giovare alle anime altrui, come nota S. Teresa; ma non essendo ancora abili a partorire figli spirituali con i loro insegnamenti, ne segue che con tali desideri non siano di utile agli altri, e siano di danno a se stessi. Contra tali incipienti che aderiscono a questo istinto diabolico indiscreto, inveisce acremente S. Bernardo. Dicendo loro così: tu che non sei ancora stabilito nella tua conversione, che non hai carità, o l'hai sì tenera e sì fragile che ad ogni vento di contrarietà si piega; tu, dico. conoscendoti tale, ambisci procurare l'altrui salute? - Fratel mio, che stoltezza è la tua! (S. Bern. Serm,18, in cant.). 

90. Al contrario poi ad uno che per obbligo del suo istituto o del suo ufficio, è tenuto ad attendere alla salute de' prossimi, mette il demonio soverchio amore al ritiramento, alla quiete, alla solitudine, ed una gelosia indiscreta di macchiare la propria coscienza con l'esercizio delle opere esteriori di carità. Come appunto la sacra sposa destata in mezzo alla notte dal suo diletto, in vece di rompere subito la sua quiete per andargli incontro, incominciò a scusarsi con dire: mi sono spogliata dalle mie vesti, non voglio ora pormele di nuovo indosso, ho lavato i miei piedi non voglio ora tornar di nuovo a lordarli. «Mi sono tolta la veste; come indossarla ancora? Mi sono lavata i piedi; come ancora sporcarli?». (Cant. 5,3). E appunto in questo timore della sposa d'imbrattare i piedi e di ripigliare le sue vesti, riconosce S. Gregorio  il soverchio timore che hanno alcuni ai quali appartiene la cura delle anime, di rivestirsi degli antichi affetti, e di contrarre le antiche macchie (S. Greg. In cant. cap. 5). Così ancora il demonio sveglia nei superiori un troppo sollecito pensiero di consacrarsi all'orazione acciocché non invigilino come ne chiede il loro impiego, sugli andamenti de' sudditi; nei capi di casa, acciocché non attendano come sono tenuti, alla educazione dei figliuoli e della servitù e nelle donne, acciocché non compiscano con puntualità le loro faccende, e siano cagione di molte inquietudini e di mille colpe ai loro domestici. In somma sa il demonio che la discrezione è il sale che condisce tutte le opere buone e le rende gradite a Dio; e però non potendole impedire, si sforza almeno di guastarle con ogni sorta d'indiscrezioni e d'imprudenze; perciò dice Riccardo di S. Vittore, che negli impulsi interni dobbiamo sempre esaminare se vi si mescoli l'indiscrezione (Ric. In cant. cap. 17). E per questa via potrà il direttore acquistare gran lume e discernere, se le anime a sé soggette siano mosse da spirito diabolico ad operare. 


§. VII. 

 91. Sesto carattere dello spirito diabolico. Lo spirito del demonio ingerisce sempre pensieri vani e superbi, anche in mezzo alle opere virtuose e sante. Onde segue a dire Riccardo nel sopraccitato testo che per discoprire le frodi de' nostri nemici dobbiamo esaminare se nelle nostre opere siasi intromessa l'ostentazione o la brama di umana lode, e se vanità o leggerezza ci spinge a farle (Ibid.). Già si sa che il demonio mette sempre pensieri di propria stima, di preferenza e di dispregio altrui, sforzandosi in ogni occasione di trasformare in noi la superbia della sua mente con cui s'innalzò tanto fino a pareggiarsi all'Altissimo. E però chi è spinto da quest'aura vana, qualunque cosa faccia, è portato dallo spirito infernale. 

92. Ma qui è necessario che il direttore osservi diligentemente se la vanità nasce con i pensieri quasi inviscerata con essi, o pure se sopraggiunga ai pensieri quasi forestiera ed estranea: nel primo caso non si può dubitare che tali cognizioni traggano la loro origine da spirito cattivo, che si riduce al diabolico, perché ne hanno il vizio innato. 

Nel secondo caso non è così, perché già si sa che il demonio si studia di guastare e corrompere tutte le opere di Dio. Il Signore semina con mano benigna nelle nostre menti il grano eletto di santi pensieri, ed il maligno vi sparge sopra con mano invidiosa la zizzania di pensieri vani e superbi: “Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò” (Mt 13,25). Ma questa mescolanza di vanità che sopravviene, non toglie che i primi pensieri, ancorché fossero altissime  contemplazioni, non vengono da Dio che non siano mossi da fine retto, e che non portino di sua natura nell'anima la debita sommissione. Spiego questo col celebre fatto di S. Bernardo, che predicando un giorno, fu tocco nella mente da spirito di vanità. Egli però avvedutamente e con prontezza rigettò da sé il nemico con quelle parole “non ho cominciato a ragionare per te, né finirò per cagione tua”. In questo caso, come ognun vede. non si può dubitare che il santo fu mosso a fare quel devoto discorso dallo spirito del Signore, ancorché di poi vi s'introducesse lo spirito malvagio. 

Ciò che ho detto, parlando della vanità, bisogna osservarlo in tutti i caratteri dello spirito diabolico che ho già esposti, e che esporrò in avvenire: cioè, sempre conviene notare se lo spirito cattivo sia intrinsecato negl'impulsi da cui si sente la persona eccitata a cose per sé stesse buone, o pur venga di poi ad intorbidare le cose; e inoltre conviene esaminare se la persona riceve con orrore lo spirito diabolico, e se lo rigetti con nausea quando questo sopraggiunge importuno. Perché da ciò può prendersi nuovo argomento ad inferire che in lei opera lo spirito buono: se ha in odio il cattivo, e gli si oppone. Quest'avvertenza bisogna che il direttore la tenga sempre avanti gli occhi; altrimenti applicando ai casi particolari le regole che noi andiamo dichiarando, prenderà molti abbagli. 

G. BATTISTA SCARAMELLI SERVUS IESUS