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sabato 15 marzo 2025

VITA DI SAN CARLO BORROMEO

 


È creato Sommo Penitenziere, viene innalzato ad altre dignità, e si fa prete dopo la morte del fratello.  

Ai carichi impostigli dal Sommo Pontefice non sottrasse egli mai gli omeri suoi, né si guardò da fatica veruna, sebbene fosse in quell'età così verde; anzi servì con somma fede e pazienza e con incredibile diligenza e sollecitudine, mostrando molta integrità ed un animo incorrotto; in guisa tale che non si mosse, né si lasciò mai piegare da favore veruno umano a far cosa non dovuta, ma eseguì sempre e nelle consulte e ne' giudizi ciò che era  giusto e di dovere; e particolarmente andò molto avvertito nel proporre al Papa soggetti da promuovere a chiese, o ad altre dignità e benefizi ecclesiastici, non volendo favorire se non quelli che ei giudicava degni e meritevoli di tali dignità e cariche. E molto più anelava circospetto circa quelli che si promovevano al cardinalato, non movendosi per affezione, né per avere aderenti e né meno per altri interessi, a portar alcuno se non lo giudicava per altra via meritevole di un così eminente grado. E maggior sospetto aveva nel proporre e favorire i propri parenti che gli altri, dubitando sempre che l'affezione alla propria carne non lo accecasse.  

Per tanto, voleva piuttosto parer loro ingrato e lasciarli disgustati di lui, che esporsi a pericolo di fare cosa non lodevole, o veramente in detrimento della sua coscienza. Però discorrendo egli un giorno con un cavaliere suo parente, che lo serviva in Roma con molto affetto e con gran soddisfazione, gli disse: vedete, signore, io riconosco i vostri meriti e vi amo assai; ma sappiate che non vi posso riconoscere con darvi entrate ecclesiastiche, poiché di buona coscienza non posso farlo: se volete servire a Dio in istato e professione ecclesiastica, allora non mancherò di provvedervi d'onesto impiego. Mostrò ancora ne' suoi negozi gran pazienza, accompagnata da un'esemplarissima mansuetudine, in tanto che in un pelago quasi infinito di negozi che in ogni ora egli trattava con tanta varietà e diversità di persone, non fu notato mai d'un atto di sdegno, né d'una parola sconcia detta per collera, né manco con i propri suoi famigliari, così sedate aveva egli le sue passioni. Non si astenne dalla molta fatica nello scrivere di propria mano e nel dettare ad altri secondo i bisogni e le occorrenze; ed era piacevolissimo e molto assiduo nel dare udienza a chiunque la ricercava.  

 Veggendo in lui il Sommo Pontefice questa santa disposizione, ed una così mirabile attitudine nel trattare i negozi della Santa Sede Apostolica, gli aggiunse appresso agli altri carichi eziandio l'uffizio della Sacra  Penitenzieria (1), il qual peso ricevé egli prontamente, non perché bramasse che se gli accrescessero gli onori, che questo pensiero era da lui molto lontano (come si vide apertamente quando Sua Santità gli volle conferire il Camerlengato vacato per la morte del cardinal Santa Fiore, che assolutamente lo ricusò sebbene ve n'era fatta grande istanza); ma l'accettò con animo di servir bene in questo uffizio al Signor Iddio ed alla Santa Chiesa, sapendo che aveva bisogno di buona riforma. Laonde creato sommo penitenziere, oltre il fare la sua parte con molta integrità in ciò che apparteneva a quel carico, ne trattò anche col Sommo Pontefice con grande consiglio e prudenza, e procurò che si facesse la bolla di riforma di essa Penitenzieria, che fu poi pubblicata sotto il dì 4 di maggio 1562. Nella quale il Papa stesso afferma d'aver fatto tal riforma col consiglio del sommo penitenziere (2). Ond'egli diede una grandissima soddisfazione a tutti quelli che bramavano ed aspettavano un ottimo governo in questa parte, e fu di molto frutto alla Chiesa universale.  

Né qui terminarono gli onori e carichi suoi: poiché fu fatto anche Legato di Bologna, della Romagna e della Marca Anconitana, provincie dello stato ecclesiastico, e Protettore del regno di Portogallo, della Germania inferiore, e de' Cantoni cattolici de' signori Svizzeri. Furono similmente sotto la protezione di lui tutti gli Ordini di san Francesco, i Carmelitani, gli Umiliati, i Canonici Regolari di santa Croce di Coimbra, i Sacri Cavalieri Gerosolimitani, che si chiamano di Malta, e quelli della Croce di Cristo in Portogallo, il gran maestro de' quali è il re stesso. Ne' quali carichi soddisfece egli molto bene all'obbligo suo con mirabile vigilanza e sollecitudine.  

Ma mentre era intento con ogni applicazione di animo a tali maneggi e governi con una soddisfazione incredibile di tutti quelli che seco trattavano, crescendogli sempre più l'animo di porgere i maggiori aiuti ch'ei poteva alle stanche membra del vecchio Zio, per sostenere con frutto grande della repubblica cristiana tutto il peso del governo pontificio, ecco che la Maestà di Dio si compiacque di mandargli una visita salutare, la quale quantunque al senso di lui molto acerba, allo spirito però gli apportò giovamento infinito. Questa fu l'infermità e la morte del conte Federico suo unico fratello, che seguì il mese di novembre 1562. Camminava a gran passi questo onoratissimo cavaliere a sommi gradi ed onori, portato dal Sommo Pontefice suo zio, dal quale per le rare sue qualità era sommamente amato; e nel più felice corso della sua fiorita età fu assalito repentinamente da una gravissima infermità, che pur troppo presto lo levò di vita: Nella quale il caro fratello non mai l'abbandonò: poiché siccome l'amava cordialissimamente, così gli fu assistente in tutto il suo male fino alla morte; non tralasciando di usare seco lui tutti quegli uffizi di pietà cristiana, a cui l'ardente affetto dell'amor fraterno lo spingeva.  

Recò gran mestizia e dolore alla Corte Romana un sì tristo accidente, e grandissimo affanno ne prese particolarmente lo Zio e gli altri parenti, e tutti lo piansero assai, eccetto Carlo, il quale rappresentandosegli avanti gli occhi nell'acerba morte del prosperoso fratello vivamente la instabilità e volubilità delle vane ombre di queste fallaci cose umane, comprimendo il gran dolore che di quella morte sentiva il suo debole senso, con una virtù meravigliosa d'animo, mentre i parenti davano agio agli occhi di sfo gare l'intimo dolore del cuore con abbondanti lagrime, ritiratosi in se stesso, si mise a pensare seriamente che si moriva e che alla morte riparo nessuno ritrovare si poteva. E passando più oltre considerò, che è gran pazzia quella dell'uomo ragionevole, che pone affetto alla vanità de' beni apparenti di questa vita mortale, i quali a viva forza, chi troppo gli aderisce, ritraggono l'uomo dall'amore del sommo ed eterno Bene, e lo ritardano nelle opere  necessarie per conseguire la propria salute. E veggendo egli esser errore pur troppo intollerabile il curarsi d'altro che di servire a Dio perfettamente ed incamminarsi per la via sicura di poter conseguire le immense ricchezze della celeste patria, fece un stabile proponimento di mandare egli tosto ad effetto così santi pensieri (1). E poiché il demonio disturbatore di ogni bene non avesse tempo di mettervi fra mezzo qualche grave intoppo, mandò l'istessa notte, dopo il transito del fratello, per il suo confessore, col cui consiglio stabilì allora, come per fondamento d'una vita santa, alcuni punti principali per fare una segnalata riforma di tutta la sua vita: la quale determinazione gli fu poscia molto giovevole per resistere più virilmente alla battaglia che subitamente, come adesso diremo, gli fu apparecchiata.  

 Essendo restale Carlo per la morte del fratello unico erede de' suoi beni paterni e signore di molti castelli e domini nobilissimi, il Sommo Pontefice col consiglio di altri personaggi amici e parenti, conchiuse di volergli dar moglie ed accrescer gli stati e titoli principali per farlo grande nel secolo: il che non fu poca tentazione ad un giovane dell'età e qualità sua. Ma egli, che si era stabilito benissimo nel proposito già narrato, per venirne tosto all'esecuzione e levare affatto ogni speranza a chi aveva altri disegni su di lui, prese gli Ordini Sacri e fecesi consacrar Sacerdote dal cardinal Federico Cesis nella chiesa di santa Maria Maggiore (2), non senza cordoglio grande dello  Zio, e d'altri signori suoi stretti parenti. E perché Sua Santità, veggendo andare errati gli stabilimenti fatti, ne fece seco lui grave lamento, gli rispose egli costantemente in questa guisa: Padre Santo, ella non si quereli di me, poiché ho presa la sposa lungo tempo fa molto da me desiderata (1).  

Fatto prete (per il che mutò il titolo cardinalizio di diacono di san Martino ne' Monti, nel presbiterale di santa Prassede) (2) non solamente levò la speranza dello Zio e de' parenti e liberò se stesso dallo stimolo che gli mettevano, ma fece anche risoluzione ferma di camminare a grandi passi alla cristiana perfezione. Onde cominciò a mostrare maggiore austerità di vita, e con gran fervore e frequenza si diede all'esercizio dell'orazione e delle sante virtù. E per sfuggire il pericolo d'errare in cosa tanto grave ed importante, pigliò per guida della sua vita spirituale un padre in ciò molto esperto, della Compagnia di Gesù, uomo di gran virtù e dottrina, domandato il padre Giovanni Battista Ribera; il quale, veggendo la buona disposizione del cardinale, e conoscendo che egli era chiamato da Dio a gran santità di vita, cominciò attendervi davvero, e dopo avergli dati gli esercizi spirituali istituiti dal beato Ignazio fondatore di essa Compagnia, l'andò incamminando per le vere e solide virtù cristiane, esercitandolo negli atti più perfetti di esse. Però soleva visitarlo ogni giorno, e trattenersi con esso lui lungo tempo per questa causa. Il che veggendo il serpente infernale e prevedendo il bene che seguire doveva da questo gran profitto spirituale di Carlo, cominciò ad adoperare le sue arti e diaboliche insidie per impedirlo; mettendo nel cuore d'alcuni principali parenti del cardinale che assistevano alla persona di lui, cattivi pensieri contro questo buon padre, dispiacendo loro che il cardinale si desse a far vita tanto ritirata e spirituale; desiderando eglino piuttosto che aderisse} loro pensieri e disegni mondani di grandezze, onori e fasti temporali. Perciò cominciarono mostrare turbata faccia a questo padre, e burlarlo e schernirlo in varie guise ed impedirgli l'ingresso al cardinale; il quale tosto che lo riseppe, vi provvide con far entrare il padre nelle sue camere per vie segrete.  


giovedì 20 febbraio 2025

VITA DI SAN CARLO BORROMEO

 


Delle dignità che conseguì, e di molte cose che fece in Roma Carlo, vivendo lo zio Pontefice. An. 1560.  

Ritrovandosi adunque la Santa Sede Romana vacante per la morte di Paolo IV, il Sacro Collegio dei Cardinali dallo Spirito Santo guidati, elessero concordemente per Vicario di Dio il cardinale Giovanni Angelo de Medici, patrizio di Milano e zio materno di Carlo, la notte seguente al Natale del Signore, l'anno di nostra salute 1559, nominandosi Pio IV. E benché la città di Milano facesse per tale elezione quella festa che conveniva - per essere promosso alla suprema dignità del mondo un suo amorevole cittadino - il nostro Carlo però, che più d'ogni altro ragionevolmente sentir doveva nel suo cuore gioia infinita massime per i sommi onori a lui preparati, come in somiglianti casi a chi è nipote caro del Pontefice avvenir suole; come ben fondato che egli era in virtù soda, non diede segno veruno di vana allegrezza, e né meno mostrò nelle universali congratulazioni che dalli primari della città venivano a lui fatte di un così felice successo, di sentire compiacimento di alcuna gloria umana.  

Tutta la dimostrazione che egli fece in quella occasione, fu di ricorrere a' santi sacramenti della confessione e comunione insieme col conte Federico, suo fratello, per unirsi bene con Dio e rassegnarsi tutto al suo divino volere; e fece fermo proposito di non partire da Milano se l'obbedienza dello Zio non lo muoveva; e l'osservò ancora pienamente, poiché, sebbene il fratello suo ed altri cavalieri insieme presero tosto il viaggio di Roma, egli solo se ne restò finché il Papa stesso lo mandò poi a chiamare. E nell'arrivo suo alla corte papale il Sommo Pontefice, che sommamente lo amava, lo accolse con molto giubilo; e siccome Sua Santità aveva piena cognizione del valore grande e delle virtù singolari di lui; così pensò di onorarlo con le prime dignità ecclesiastiche e di servirsi dell'opera sua in tutto il gravissimo governo pontificio.  

Onde senza porre dimora alcuna lo fece da prima Protonotario partecipante e di poi Referendario; e l'ultimo giorno di gennaio 1560 lo creò Cardinale del titolo de' santi Vito e Modesto, che mutò poi fra poco tempo in quello di san Martino ne' Monti; ed agli otto del seguente mese di febbraio gli conferì il titolo dell'Arcivescovato di Milano, correndo egli allora l'anno ventesimosecondo, mesi quattro e giorni sei dell'età sua (1). E tutto questo si conobbe poi essere avvenuto per particolare dono e provvidenza di Dio, affinché la Chiesa di Milano, che nelle cose dello spirito se ne stava languida e quasi morta, fosse aiutata e soccorsa da così potente mano, come poscia l'esperienza ha dimostrato. E fu insieme un singolare esempio di non giudicar mai gli animi, né le azioni di chi governa, massimamente de' Sommi Pontefici a' quali assiste con modo molto particolare lo Spirito Santo. Poiché considerandosi ciò che operò Pio IV verso Carlo, massime in averlo creato arcivescovo di una Chiesa tanto ampia, in età così giovanile ed in tempi di gran libertà e rilassamento, pareva secondo la prudenza umana che non fosse stata risoluzione degna di lode; nulla meno si videro poi i mirabili effetti e le opere stupende che Iddio fece per mezzo di questo giovane non solamente nel governo della sua particolar Chiesa di Milano, ma nell'universale insieme di tutto il  mondo, i quali nella presente istoria andremo con l'aiuto divino descrivendo. In maniera che molti uomini savi sono stati di parere che il pontificato di Pio IV fosse dato da Dio per far grande il nipote Carlo nella Chiesa, perché ne risultasse poscia quella riforma della Chiesa stessa che egli promosse e nella provincia sua almeno ridusse ad ottimo fine. E diversi hanno interpretato che quel segno prodigioso apparso molti anni innanzi sopra di esso Pontefice, come si legge nella vita di Pio IV presso il Panonto e nella vita di Giovanni Giacomo de Medici scritta da Marc' Antonio Messaglia, volle denotare l'istesso. Perché mentre egli era nelle fasce, si levò sopra di lui una fiamma viva che andò di lungo alla lucerna spenta, alla quale porse lume; e lasciandola accesa, con molto stupore della nutrice del fanciullo che tutto il fatto stette mirando, se ne disparve subito. Vogliono che quella fiamma significasse lo splendore della dignità pontificia che il bambino conseguir doveva, il quale poi aveva ad accendere la grande lucerna del nipote per dar luce a tutto l'universo, con decorarlo delle dignità di già accennate. E difatti egli fu poi chiamato lucerna d'Israele da Gregorio XIII, e lume grande della Chiesa santa da Clemente VIII, e da molti altri gravi uomini che di lui hanno parlato e scritto. Per il che con verità dire possiamo, che san Carlo fosse da Dio chiamato, come un altro Aronne, senza sua opera o pensiero, alle narrate dignità ed uffizi nella Chiesa di Dio.  

Non cessò il Sommo Pontefice di onorarlo sempre più e di affidargli grandi imprese, riuscendo egli in tutte con molto stupore del mondo. Onde lo fece capo della Consulta, e gli diede autorità di sottoscrivere in nome suo i memoriali e le facoltà che alla giornata si concedevano; e gli impose i carichi maggiori del governo pontificio con l'amministrazione e reggimento dello stato ecclesiastico, con molti privilegi aggiunti e facoltà amplissime, senza procurarne egli veruna; anzi ricusandone alcune che dalla santità dello Zio gli venivano offerte, essendone da lui e da' parenti ed amici suoi che nel favore di lui speravano, assai ripreso, tassandolo eglino che lo facesse per bassezza e per viltà d'animo. E sebbene fosse posto in tanta grandezza, non restarono però punto abbattuti i fondamenti dell'edifizio de' suoi religiosi costumi e rare virtù; né i molti e vari negozi ne' quali riusciva mirabile, lo poterono ritrarre da' suoi santi pensieri concepiti; né la copia delle ricchezze e comodità, le quali sogliono perturbare assai la vita degli uomini ed ammollire gli animi rendendoli delicati, ebbero forza di deviarlo dall'incominciato suo corso di vita virtuosa; sapendosene egli così ben servire, che gli furono d'aiuto non poco per camminare alla proposta perfezione. E ben si vede come il Signor Iddio teneva particolar cura di lui, e che con la sua divina e dolcissima disposizione lo guidava dirittamente per i sentieri sicuri di una santissima vita, benché da' mondani fossero poco intesi, ma da Lui però benissimo conosciuti. Per ciò considerando egli alcuni anni dopo questi benefizi divini, soleva dire, che sua Divina Maestà l'aveva guidato per la via del suo santo servizio non per mezzo di tribolazioni ed avversità, ma sì bene per prosperità e floride grandezze umane; affinché scorgendo e considerando egli in esse la vanità e cecità del mondo, non ne facesse conto veruno, ma applicasse l'animo suo a cose più sode e di maggior importanza, che sono i beni infiniti della celeste patria.  

 Andò poi pensando di non mostrarsi ingrato, né sconoscente della buona grazia dello Zio; perciò corrispondendogli di reciproco amore, non volle defraudarlo né anche in cosa minima, della buona opinione che aveva concepita di lui, in modo tale che fu sempre diligentissimo in servirlo ed aiutarlo con molta fedeltà, con tener sempre il suo cuore e l'intenzione lontani dagli interessi propri e mondani. Poiché innalzò principalmente, secondo la sua buona disposizione, i suoi pensieri alla divina gloria ed al bene di Santa Chiesa, proponendosi questo per suo fine principale; affinché quivi mirando tutte le azioni di lui, non errasse nella mole di un tanto governo, né punto deviasse dalla rettitudine che si richiede in chi regge altri.  

Ed a questo effetto elesse alcune persone di gran bontà e valore per suoi consiglieri; e mostrandosi pieno di umiltà e colmo di prudenza, niente operava in servizio di Santa Chiesa senza il loro maturo consiglio. Oltre di ciò egli si diede allo studio di buoni libri spettanti al governo ed alla politica; con abborrire quelli che fondati in cose contrarie alla religione cristiana, insegnano piuttosto a distruggere, che a formare un vero governo ed un principe buono. E perché entrarono nell'animo suo pensieri grandi e ardenti desideri di fondare collegi, seminari e studi di letterati per servizio di Santa Chiesa e della repubblica cristiana, per cominciare a darle principio in qualche modo, istituì una nobilissima Accademia di uomini principali e di molta scienza, ecclesiastici e secolari ancora; nella quale gli accademici si esercitavano intorno allo studio delle buone lettere pertinenti alla riforma de' costumi ed alla vita virtuosa, ragionando ora l'uno, ora l'altro a vicenda e conferendo insieme de' loro studi.  

Cose inventate da Carlo per levare l'ozio della corte, e introdurvi emulazione di virtù e di lettere; ed anche perché egli desiderava di restituire l'antico uso che avevano i prelati ed i vescovi di predicare il Vangelo per se stessi a' loro popoli. Il che non fu senza segnalato frutto; poiché, siccome questi esercizi furono a lui particolarmente di grandissimo giovamento per assuefarsi a predicare, essendo egli alquanto impedito nella loquela; così molti l'hanno poi imitato e vescovi e cardinali ancora, in fare ne' pergami quell'uffizio apostolico. Fu a lui similmente di notabile aiuto, com'egli spesso affermava, il trattare le sentenze di quei buoni filosofi particolarmente stoici, sì per pigliare consiglio nelle sue azioni, sì ancora per reprimere i moti e le passioni del senso. E fra gli altri libri gli giovò molto il Manuale d'Epitetto stoico, il quale aveva egli sovente nelle mani e lodavalo assai, come io stesso ho sentito di sua bocca, mentre parlava di questa Accademia. Chiamò questi esercizi accademici col titolo di Notti Vaticane. Notti, poiché vi si attendeva di notte, non concedendogli comodità di farlo di giorno le sue gravi e continue occupazioni. Vaticane, perché si facevano nel palazzo  pontificio, che si chiama il Vaticano. Era questa accademia molto celebre ed illustre per essere formata di persone grandi, come ho detto, e di uomini letteratissimi; molti de' quali riuscirono poi vescovi e cardinali ed anche uno di essi Sommo Pontefice, che fu Gregorio XIII.  

 Furono a san Carlo quegli esercizi non solamente di molto utile. ma insieme ancora di non poco ornamento, poiché gli recarono maestà ed autorità grande appresso ad ognuno, per mostrarsi egli così ben inclinato ed animato alla virtù e verso gli uomini virtuosi. E veramente parerà cosa mirabile a chi bene ci pensa, il vedere che questo giovane nell'età più fiorita, collocato in istato di tanta grandezza e così favorito da tutto il mondo, avesse nondimeno il suo cuore ed affetto tutto intento a' virtuosi e santi trattenimenti; levando al proprio corpo il riposo necessario della notte per potervi attendere, senza portar pregiudizio al governo pubblico. Onde si vede come egli non perdeva una minima parte di tempo, cosa tanto preziosa, e che non attendeva allo studio delle lettere per velare, o coprire con ozio vile, ovvero dappocaggine con questo magnifico nome di studioso, cosa molto biasimevole in chi ha governo d'altri; ma sì bene per ricevere aiuto ne' suoi negozi ed imprese, e per l'ardente brama che egli aveva di destar gli uomini e massime i prelati, dalla sonnolenza in cui allora si viveva, ed infiammarli nelle sante virtù per benefizio universale della repubblica cristiana.  

 Mentre adunque governava in questa maniera, con un cuore saldo in Dio e con tanta ritiratezza dalle cose ed interessi mondani, ebbe non solamente per bene, ma stimò anche maggior servizio di Dio e del suo buon reggimento di non usare tanta singolarità, che in qualche modo non si accomodasse al vivere della corte almeno nell'esterno, per fuggire tutti quei termini che lo potessero rendere odioso, e per conciliarsi la benevolenza di tutti, la quale suole avere gran forza per far che il governo riesca bene e lodevolmente. Onde anche in questo mostrò gran virtù ed una meravigliosa prudenza; onde con gli apparati esterni della casa, con la suppellettile, con la famiglia e con altre cose somiglianti viveva secondo i costumi della corte di quei tempi, dandosi molte volte anche alla conversazione, massime de' cardinali, ai quali portava rispetto grandissimo e sommamente riveriva facendo talora conviti solenni, e similmente ritrovandosi in casa d'altri; non ricusando alle volte alcuni piacevoli trattenimenti, come avvenne nell'occasione delle feste che si fecero per le nozze del conte Federico suo fratello con donna Virginia della Rovere, figliuola di Guidobaldo, duca d'Urbino. Nondimeno non fece però mai cosa indegna del grado e professione sua, anzi diede sempre segno di compiacere piuttosto ad altri in simili cose, che di averne per se stesso gusto alcuno, come quegli che fin d'allora portava nell'animo suo quell'esatta disciplina ecclesiastica ed il dispregio delle cose umane, che poi si scoprirono indi a poco tempo con edificazione di tutta la Chiesa Santa.  

Ma fra le cose che sogliono rendere gli uomini ammirabili al mondo, due se ne videro in Carlo meravigliosamente risplendere. E fu l'una, che in tante sue grandezze seppe condiscendere e accomodarsi in guisa ad ogni sorta di persone, benché vili e basse, che poteva con ogni verità dire di se stesso con l'apostolo: (1Cor. IX.) omnia omnibus facius sum. L'altra è, che in un'autorità, così piena, in tante delizie e comodità, ed in mille occasioni di mali che il demonio da varie parti gli suggeriva, visse sempre con somma integrità; e volle conservare particolarmente intatta la sua pudicizia con mirabile esempio, sebbene gli fossero maliziosamente tesi più volte occulti lacci per farlo cadere nel vizio contrario. Vivono oggidì ancora testimoni gravissimi, che furono famigliari di lui in questo tempo, i quali raccontano per meraviglia, come essendo invitato da principal signore, suo parente, ad una di lui villa fuori di Roma alcune miglia; luogo amenissimo, e desiderando questo principe di deviarlo da quel suo modo di vivere, oltre gli apparati sontuosi e le varie provvisioni di cose dilettevoli, condusse anche da Roma segretamente una vaga e famosissima cortigiana. E tenendola nascosta in una stanza del palazzo, quando fu l'ora di ritirarsi, la  ece entrare per via segreta nella camera del cardinale, vestita de' suoi più preziosi ornamenti; intendendosi con alcuni de' suoi gentiluomini, i quali a bello studio solo in camera lo lasciarono, parendo allora cosa onorata (tanto erano corrotti i costumi cristiani) il dare simili comodità a persone grandi. Ed ella, così ammaestrata, veggendolo solo, gli si presentò avanti per volerlo con le sue arti e lusinghevoli vezzi indurre al peccato. Ma il religioso giovane, che vide esser fatte l'insidie con sì grande suo pericolo, tutto commosso per l'abborrimento che aveva al peccato, non fece parola veruna con la sfacciata femmina, ma corse alla porta della camera e chiamando con alta voce i camerieri, con essi loro si dolse di ciò grandemente; e facendo eglino scusa di non saperne cosa alcuna, entrarono in camera, facendo subitamente uscire quella pestilente esca di satanasso. Poco riposo prese il cardinale quella notte, travagliato dalla dispiacevole rimembranza di questo fatto; ed intendendo che tutta la causa veniva da quel signore, si partì di là tre ore avanti il giorno, senza fargli motto alcuno affinché egli conoscesse quanto gli fosse spiaciuta l'occasione che ardì di dargli di offendere Iddio e di macchiare la candidissima purità dell'anima sua.  

Essendosi egli adunque applicato in questo tempo di tutto cuore al buon reggimento dello Stato di S. Chiesa, intese molto bene con la prudenza sua, come avendogli Sua Santità dato il maneggio de' negozi e del governo, non gli aveva concessi i sudditi in servitù, ma sì bene in tutela; però procurò sempre il loro utile e non il proprio interesse, in modo tale che, o consigliando lo Zio, o esercitando l'autorità sua, non ebbe mai altro fine che questo; e volle particolarmente, che si mantenesse l'abbondanza in tutto lo Stato della Chiesa, facendo copiosamente provvedere di vettovaglia a comodo prezzo, con universale soddisfazione e contento di tutti. Al cui proposito non voglio passare sotto silenzio un fatto occorso a me stesso. Ritrovandomi io, mentre viveva ancora san Carlo, in una città della Romasna, vidi sopra il palazzo pretorio dipinta l’insegna sua e rallegrandomene io, mi disse un vecchio  ivi presente, come vi fu dipinta quando egli era nipote del Papa, e legato di quella provincia. Di poi soggiunse queste parole: piacesse a Dio, che l'avessimo adesso ancora, poiché non permetterebbe che si mandasse il grano altrove come altri fanno, dandoci occasione di carestia con tanto danno de' poverelli. E mi disse molte altre cose del buon governo di quel tempo, e della contentezza con cui vivevano allora i sudditi. della Chiesa.  

 Sopra ogni altra cosa attendeva Carlo a mantenere buona giustizia, onde non solamente procurò di mandare nelle provincie per il loro governo prelati dì molto valore e di buona, vita, ma provvedeva ancora le città di ottimi giudici. E se aveva mala relazione d'alcuno, lo rimoveva senz'altro; ancorché dipendesse da' cardinali o da chi si voglia altra persona: grande; a' quali però procurava di dare la debita soddisfazione, come avvenne particolarmente con un parente d'un cardinale suo stretto amico, dal quale gli fu raccomandato assai acciò l'impiegasse in qualche uffizio per farlo servire: a cui egli diede il governo di una città, e perché non si portò con la soddisfazione di quel popolo che conveniva, lo rimosse da tal carico, né mai più volle dargli altro trattenimento, con la buona soddisfazione ancora del cardinale suo parente.  


lunedì 7 ottobre 2024

VITA DI SAN CARLO BORROMEO

 


Studia leggi nella città di Pavia, e vi è dottorato. An. 1554  

Finito ch'ebbe Carlo il corso degli studi d'umanità, il conte suo padre lo mandò a studiar leggi civili e canoniche nella città di Pavia, ove è lo studio pubblico, l’anno di nostra salute 1554 ed il sedicesimo della sua età. Quivi sebbene la solita licenza de' giovani studenti e le frequenti occasioni di peccare che il demonio suole tendere, come tanti lacci, all'incauta gioventù, lo potevano facilmente levare dalla buona strada incominciata, massimamente essendo allora i costumi de' giovani di quello studio pur troppo corrotti, non si lasciò però egli mai muovere né pure un puntino e né meno rallentare; anzi si applicò davvero agli studi e vi attese con ogni assiduità e diligenza. Onde oltre le pubbliche lezioni, soleva anche per il desiderio che aveva di far profitto, andare ogni giorno a conferire i suoi studi con Francesco Alziato, suo lettore, - che egli poi fece promuovere al cardinalato - col quale si tratteneva per molto tempo ricevendone particolari aiuti; sicché egli fece gran progresso. Ma per essere alquanto impedito nella pronuncia, molto dedito alle cose dello spirito e solito serbare gran silenzio, molti, i quali non lo conoscevano intrinsecamente, stimavano che avesse i sensi sopiti e non fosse di molta capacità di lettere; benché la cosa fosse in tutto contraria, come dagli effetti si vide poi nel progresso della vita sua. Come si legge anche dell'angelico dottore san Tomaso d'Aquino, il quale era poco stimato dai suoi condiscepoli per l'istessa cagione di serbare lungo silenzio, onde solevano chiamarlo bue mutolo.  

E non solamente fu diligente Carlo ed assiduo negli studi, ma si mostrò ancora pubblicamente uno specchio d'onesti e cristiani costumi; poiché vestì sempre l'abito clericale con molta modestia, guardandosi da ogni peccato e mal esempio non solamente nelle opere, ma eziandio nel parlare, fuggendo sino le parole leggi ere e vane; custodì immacolata la sua pudicizia, schivando ogni minima occasione che la potesse macchiare. E sebbene egli era da' scolari e da' cittadini ancora molto onorato e corteggiato, non volle però mai pigliare intrinseca famigliarità con alcuno, tanto per non restare impedito nella perseveranza delle sue solite divozioni; orazioni e frequenza de' santi sacramenti, quanto per isfuggire le occasioni che apportar suole molte volte la compagnia di commettere qualche eccesso nella conversazione. Ma per quanto egli stesse in questa guisa assai ritirato, si seppe nondimeno accomodare anche in tal maniera alla conversazione degli altri, che praticò molto bene quella virtù che vien chiamata da Aristotile con voce greca eutrapelia, che noi chiamiamo urbanità, avverò civiltà e piacevolezza. Sicché non si mostrava cogli amici né difficile, né rustico, come dice il detto filosofo; ma serbando una prudente mediocrità procedeva con tanta sapienza, che non era sprezzato come aspro, né spregiato come persona vile. Onde, accompagnando la sua modestia e gravità con molta piacevolezza ed affabilità, si rendeva amabile a tutti e veniva perciò ad essere amato e riverito da tutte le nazioni che allora erano in quello studio. E tanto più che di già sin d'allora cominciava a spirare soavi odori di santità, la quale obbliga molto le persone all'amore e riverenza. E gli uomini prudenti veggendo questo suo santo procedere, facevano giudizio che egli fosse di grandissima aspettazione e riuscita, come si vide poi seguirne meravigliosi effetti.  

Mentre perseverava Carlo negli studi con felicissimo corso, si compiacque Dio di chiamare a se il conte Giberto suo padre, che era in età d'anni quarantasette. Per la qual cagione gli convenne lasciare lo studio e pigliarsi il carico del governo di casa sua; poiché sebbene il conte Federico suo fratello fosse maggiore di lui, fu nondimeno giudicato che ad esso convenisse questo peso per la rara sua bontà e prudenza. Il che fu come un preambolo e preparazione al governo che poscia egli aver doveva di questa Chiesa di Milano. Onde pensar possiamo che ciò avvenisse per Divina Provvidenza, affinché egli cominciasse sin d'allora ad esercitarsi nella pratica e modo di ben governare; poiché tra le condizioni del buon vescovo annoverate dall'apostolo san Paolo, una è di saper governar bene la casa sua, dicendo egli, che se di questa non sa aver cura, non sarà né anche diligente nel governo della Chiesa a lui commessa. E davvero ci diede grandissimo saggio di se stesso e del suo talento grande nel governare, avendo in quel poco spazio di tempo che si fermò a casa, disposte talmente bene le cose di casa sua, che ognuno ne restò con meraviglia soddisfatto.  

 Né solamente si vide in lui allora questa prudenza e attitudine, ma mostrò anche un ardente desiderio di riforma circa la disciplina ecclesiastica ed i costumi cristiani, che egli nel suo cuore acceso aveva, come apparve chiaramente dal seguente fatto. Servivano nella chiesa della sua abazia in Arona alcuni monaci di quegli antichi della religione di san Benedetto, i quali non ritenevano  quasi più altro che l'abito della loro monastica professione; nel resto erano molto indisciplinati, licenziosi e discoli. Occorrendo a Carlo di fermarsi nel detto suo castello di Arona, mentre attendeva alla cura di sua casa, ebbe piena informazione della mala vita di questi monaci, e dispiacendogli infinitamente che la chiesa sua fosse servita da religiosi di mal esempio e che le cose del culto divino fossero maltrattate, fece ferma risoluzione di provvedervi; e sebbene egli fosse così giovane e molto occupato ed anche inesperto in somiglianti cose, si pose nondimeno all'impresa della riforma di essi monaci, e con efficacissimi rimedi eziandio di prigione e di altre penitenze corporali, li ridusse all'osservanza del loro istituto con gran mutazione di vita e non senza ammirazione del popolo di quel castello.  

Mentre questo religioso giovane stava occupato pieno di santi pensieri intorno al governo delle cose sue famigliari in Arona, il nemico dell'umana generazione che molto odiava la sua bontà e particolarmente la castità tanto da esso pregiata e custodita, pensò che fosse allora tempo molto opportuno di poterlo deviare dalla retta sua strada, e farlo cadere in quegli errori ne' quali l'incauta gioventù facilmente trabocca: poiché essendo egli allora di sì verde età, sciolto da' legami dell'ubbidienza paterna e signore molto ricco, poteva agevolmente, volendo, darsi ad ogni piacere e diletto avendone tanta comodità, quanto un altro suo pari bramar potesse; e ciò sarebbe stato anche senza scandalo per la corruttela di quei miseri tempi, non parendo disdicevole allora a un giovane il prendersi que' piaceri e passatempi ch'egli voleva. Onde per l'opportunità del tempo e della comodissima occasione tese il demonio a Carlo molto astutamente le sue insidiose reti. E perché egli poco praticava cogli altri e guardavasi benissimo da tutte le occasioni di offender Dio, trovò strada il maligno ingannatore di dargli comodità buonissima di peccare in segreto. Perciò suggerì ad uno di casa sua di molta autorità - a cui dispiaceva quella sorta di vita tanto ritirata che egli faceva, desiderando che vivesse con maniera e conversazione cavalleresca - di condurgli segretamente in camera una vaga giovane in ora comodissima per far male; ma il casto giovane che portava fisso nel cuore il timor di Dio, restò dalla vista di lei tutto impaurito, veggendosi tanto vicino al precipizio; e come fosse stata un velenoso serpe, subitamente fuggì da lei, come che il rimedio migliore per schivare il vizio carnale sia la fuga di ogni sua occasione. E benché poi quel tale lo schernisse, dicendogli che egli era uomo inetto e di niun valore ed altre cose simili vilipendiose, attribuendo la virtù a dappocaggine, egli punto non si curò di quelle menzogne, stimando più il timor di Dio, che i vani e fallaci detti degli uomini mondani.  

Rassettate ch'egli ebbe le cose di casa sua, ritornò a Pavia, ove si diede con tanta assiduità a finire il corso de' suoi studi, che si cagionò una grave infermità di catarro che lo travagliò assai e lo astrinse a tralasciarli di nuovo per attendere a curarsi. E ordinandogli i medici che egli si pigliasse qualche ricreazione per sollevamento del male, non volle ammettere altro che la musica sola a lui naturalmente grata; e questa ancora parcamente per non aprire la strada a qualche sensuale diletto, né a cosa disdicevole alla modestia clericale. Si riebbe poi da quel male ma non però perfettamente, perché il catarro gli fu famigliare fino appresso gli ultimi anni suoi, essendosegli poi essiccato per la somma sua astinenza, in modo tale che era venuto in proverbio: il rimedio del cardinale Carlo Borromeo. Mentre egli perseverava nello studio in Pavia, il cardinale de Medici, suo zio, gli conferì due dignità ecclesiastiche, l'abazia di Romagnano e il priorato di Calvenzano, i quali titoli accettò egli con animo di impiegarli bene ed onoratamente; ed ebbe sin d'allora il pensiero di aiutare la patria sua ed ancora altri paesi con fondare un collegio in quella città per aiutare molti poveri giovani studiosi di virtù, i quali non hanno le facoltà necessarie per mantenersi allo studio, desiderando principalmente che fossero ammaestrati ne' buoni costumi e nella disciplina cristiana: il che egli eseguì poi, come si dirà a suo luogo.  

A vendo finalmente posto termine al corso de' suoi studi, fu dottorato nelle leggi civili e canoniche, essendo entrato nell'anno ventesimosecondo dell'età sua; e ciò fu nel fine dell'anno 1550 allora appunto quando il Sacro Collegio de' Cardinali era in Conclave per l'elezione del nuovo Pontefice. Circa quest'azione del dottorato non si hanno da tacere alcuni segni che l'accompagnarono con dimostrazioni di quanto seguir doveva nella persona di lui. Poiché non solamente fu numeroso e straordinario il concorso de' togati, de' cavalieri, de' soldati e grande l'applauso e la festa della città di Pavia, mostrando ognuno particolare allegrezza di questa sua promozione; ma avvenne ancora che essendo nell'atto del dottorato l'aria tutta nuvolosa e oscura, quando Giovanni Francesco Alziato milanese, primario lettore di quello studio, diede principio all'orazione che fece nel dottorarlo, videsi subito l'aula luminosa e chiara per l'apparire di un improvviso raggio risplendente di sole. Dal che l'oratore, quasi divino presagio del futuro, prese bellissima occasione di predire come dovevano nel mondo lampeggiare le sante e gloriose imprese di esso laureando; ed alla scoperta egli manifestò le grandezze che poi si videro a meraviglia risplendere in lui. E a questo detto dell'Alziato accostandosi molti altri, andavano predicando poscia pubblicamente che egli doveva essere un grande uomo nella Chiesa di Dio.

 

giovedì 2 maggio 2024

VITA DI SAN CARLO BORROMEO

 


Nascita di Carlo, e suoi progressi ne' primi anni. 


Nacque Carlo nel castello di Arona lungi da Milano quaranta miglia - luogo principale tra le molte castella che possedé casa Borromea sul Lago Maggiore - l'anno di nostra salute 1538 in mercoledì, il secondo giorno di ottobre, nel pontificato di Paolo III, reggendo il sacro impero Carlo V, in una camera della Rocca, che si dimandava la Camera dei tre Laghi per vedersi da essa il Lago da tre parti, la quale fa poi dedicata ad uso pio, per ospitale degl'infermi di quella fortezza. La cui natività fu particolarmente favorita dalla Maestà Divina con un mirabile segno celeste; poiché apparve in quell'ora miracolosamente sopra la camera un lucidissimo splendore a guisa d'una fascia di sole larga circa sei braccia che si estendeva da una parte all'altra della Rocca, cioè dalla torretta fino al falcone, luoghi di sentinella, e che durò da due ore avanti giorno (a tal ora fu il nascimento di Carlo) fino all'apparir del sole, rendendo l'oscura notte quasi chiarissimo giorno, non senza gran meraviglia del castellano, de' soldati ch'erano in guardia e di molti altri che ciò videro, come si legge ne' processi prodotti per la canonizzazione di questo Santo dal detto di cinque testimoni giurati. Il che fu poi giudicato, che volesse denotare il lume meraviglioso che Carlo apportar doveva a tutta la Chiesa santa, quando a risplendere cominciarono nel mondo le sue grandi virtù ed eroiche operazioni, a somiglianza dello sciame d'api che discese in bocca a sant'Ambrogio essendo nella culla, e di altri santi illustri le cui natività accompagnate furono da simili segni prodigiosi, significanti gli effetti ed opere stupende ch'eglino poscia nel mondo produrre dovevano. Il Surio particolarmente nel tomo II racconta, che apparve un simile splendore parimente nel nascimento di san Suvitberto vescovo Verdense in Inghilterra. 

Nell'uscire dalle fasce cominciò a mostrarsi Carlo tutto pio e divoto e molto inclinato alla professione ecclesiastica, abborrendo le cose aliene dal culto divino; e fatto più adulto, fuggendo le leggerezze e i trattenimenti fanciulleschi, mostrava di non aver altro diletto e gusto, che di fabbricare altarini, cantar lodi al Signore e fare altre somiglianti cose, che davano manifesto indizio della singolar sua vocazione. Così scrive il Metafraste di quel gran vescovo Atanasio, il quale essendo ancor fanciullo, per certi trattenimenti che imitavano il vescovo, Iddio lo scoprì ad Alessandro patriarca d'Alessandria per vescovo suo successore. Né solamente Iddio manifestò questo figliuolo in quei primi anni per un gran sacerdote, ma anche per uomo di primo governo; poiché essendosi egli rinchiuso un giorno nascostamente in una camera del paterno castello di Lunghignana. vi si tratteneva in far diversi compartiti di certi pomi che ivi erano; ed essendo ripreso assai da un servitore che quivi lo ritrovò, perché si fosse nascosto in quel luogo con gran travaglio de' suoi parenti i quali dubitavano ch'egli si fosse affogato nella fossa del castello, gli rispose con mirabile sentimento in questa guisa: perché mi cercavate voi? Io ero qua a compartire il mondo in diverse parti e regioni: dando ad intendere come i suoi pensieri erano indirizzati a grandi imprese e governi; e se ne vide l'effetto particolarmente nel pontificato di Pio IV, quando egli appunto ebbe in mano il governo di tutta la Chiesa, come poi a suo luogo diremo.  

 Ora crescendo egli negli anni profittava insieme ancora nella divozione verso Dio, mostrando ogni dì maggiore inclinazione alle cose sacre ed alla professione ecclesiastica. Il che scorgendo il conte Giherto suo padre lo fece ascrivere nella milizia clericale, vestendolo da prete prima che uscisse dallo stato della puerizia. Cosa che fu di sommo contento al divoto figliuolo, essendo ciò totalmente conforme alla sua naturale inclinazione; sforzandosi poscia egli con cristiani e religiosi costumi di non mostrarsi indegno di quell'abito santo. Però dopo lo studio, delle lettere, nel quale faceva i dovuti progressi conforme all'età sua, aiutato particolarmente da' buoni maestri (da uno de' quali, che fu poi anche mio maestro, intesi io molte cose de' buoni portamenti e del diligente studio di questo figliuolo) dopo lo studio, dico, si ritirava a' suoi altarini ed oratori, ricreandosi ivi spiritualmente, mentre i suoi compagni si trattenevano in giuochi puerili. E quando già fatto di maggior età, usciva alle volte di casa, finito lo studio, non andava con essi loro vagando per la città, ma visitava i sacri tempi; e perché egli era molto di voto della beatissima Vergine, frequentava assai le due chiese a lei dedicate in Milano, una appresso san Celso e l'altra nella piazza del castello.  

Era in oltre molto ritirato, modesto e sincero nel suo trattare, fuggendo i vani ragionamenti e tutte le cose che potevano distrarre i suoi santi pensieri dal servizio di Dio. Però quando si facevano in casa sua giuochi d'armi, o altri spassi, benché onesti, per trattenimento del conte Federico suo fratello, egli li fuggiva non volendo né menò starvi presente. E se talvolta era invitato a veder giuocare alla palla nella piazza avanti il suo palazzo, o non accettava l'invito, o se non ricusava, si accomodava almeno a una finestra in guisa che da altri non potesse esser veduto, per non far cosa che paresse indegna, o indecente all'abito e professione sua. 

Non gli parve di ricusare la musica per avere qualche lecita ricreazione, della quale piuttosto si dilettò; ma si guardò però sempre di non cantare cose lascive, e se a caso gli occorrevano, le taceva, cantando le note solamente; il cui modo serbò egli poscia anche negli anni più maturi. finché poi la lasciò affatto. Frequentava assai l'orazione, e, invitato dal buon esempio del conte Giberto suo padre, riceveva ogni settimana con molto apparecchio i santi sacramenti della confessione e comunione, come medicine salutari e cibi sostanziosi dell'anima sua.  

Non fu questo suo modo di vivere così innocente e senza le tentazioni ed insidie del nemico infernale,  eziandio in quella sua tenera età. Poiché i suoi compagni di scuola ed i propri domestici ancora si burlavano di lui e delle sue divozioni per distrarlo da esse; di che egli però poco si curava, mostrando di non far conto veruno de' vani giudizi e pareri del pazzo mondo. Vero è che altri, poi molto più saggi ed illuminati, l'ammiravano, e lo predicavano per figliuolo di bontà grande e per uno specchio di buon esempio massimamente in quei tempi che si viveva con molta libertà.  

E fra gli altri vi era un venerando sacerdote dimandato il sig. Bonaventura Castiglione, nobilissimo di sangue e di età grave e matura, proposto della collegiata chiesa di sant'Ambrogio maggiore di Milano, uomo di molta dottrina, zelantissimo della religione cattolica, della disciplina ecclesiastica e pieno d'immenso desiderio di vedere una vera riforma nella Santa Chiesa; come l'attesta in suo epitaffio intagliato in marmo, riposto vicino alla porta di detta chiesa che corrisponde alla canonica. Questo venerando vecchio ogni volta che vedeva Carlo, si fermava a rimirarlo come fosse cosa molto rara, e gli faceva riverenza e l'accarezzava, che rendeva ad altri non poca meraviglia. Ed essendo interrogato da alcuni gentiluomini una volta perché l'onorasse, quasi profetizzando, rispose loro in questa guisa: voi non conoscete questo giovanetto; egli sarà il riformatore della Chiesa e farà cose grandi.  

 Cresciuto Carlo negli anni, gli fu conferita dal conte Giulio Cesare Borromeo, suo zio, l'abazia de' santi Graziano e Felino posta nel già detto luogo d'Arona, la quale ha buonissime rendite. Ed egli considerando l'obbligo che hanno i commendatari e beneficiati di spendere bene le entrate ecclesiastiche, cominciò a pensare di voler aiutare i poverelli coi frutti di quest'abazia; come molto inclinato ch'egli era alla pietà e misericordia. E per eseguire questo suo pio disegno ne parlò a suo padre dicendogli, ch'ei conosceva molto bene come le rendite dell'abazia non si potevano unire con le entrate patrimoniali, né spendere per uso della casa; poiché sono patrimonio di Cristo, di cui  egli era semplice amministratore e non padrone assoluto, e che perciò ne aveva da rendere a Dio conto strettissimo. Pertanto lo supplicava a contentarsi che si effettuasse quanto conveniva. Il buon padre nelle cui mani era l'amministrazione di esse rendite, non si contristò punto di tal richiesta, anzi se né rallegrò grandemente scorgendo in questo figliuolo tanta pietà e religione. Onde lagrimando per tenerezza di cuore ne rese molte grazie a Dio, e con sommo suo contento lasciò a lui libera l'amministrazione di quelle entrate; e pigliando Carlo volentieri questo carico, soddisfece poscia al suo pio intento dando ai poveri tutto quello che gli avanzava del suo conveniente bisogno. E se talvolta gli accadeva di dar danari a suo padre per occorrente causa, ne faceva nota e voleva in ogni modo, che gli fossero restituiti per distribuirli a' poveri; così giusto dispensatore de' beni ecclesiastici si mostrò egli fin da quelli suoi teneri anni.  

GIOVANNI PIETRO GIUSSANO SACERDOTE MILANESE

domenica 12 novembre 2023

VITA DI SAN CARLO BORROMEO

 


Della patria e de' parenti di San Carlo  

La cura e protezione che Gesù Cristo nostro Signore promise avere della Chiesa sua, è stata sempre molto manifesta e particolarmente in questa sua Chiesa di Milano che fu fondata colla predicazione di san Barnaba apostolo, primo nostro vescovo (1), avendola provvista in tutti i tempi di ottimi pastori, in dottrina e bontà di vita, i quali come vivi empi della vita apostolica, l'hanno difesa da molte insidie del comune nostro nemico, illustrata colle loro famose gesta e governata con gran pietà e giustizia, ristorando sovente i danni che per la varietà de' tempi, rivoluzioni di Stati e per altri sinistri accidenti patiti aveva. Ond'ella ora si gloria fra il numero di centoventisei vescovi ed arcivescovi di vederne trentacinque numerati nel catalogo de' Santi e dalla Chiesa santa venerati, venti de' quali furono suoi cittadini discesi tutti da illustri famiglie, risplendendo fra così gloriosa schiera di beati pastori il gran dottore sant'Ambrogio, come Patrono e protettore suo principale.  

Ma in questo nostro secolo nel quale, per le lunghe guerre d'Italia e di altri regni e per molti contrari avvenimenti, erano ridotte le cose del culto divino e della disciplina cristiana a male stato non solamente in questa città e diocesi di Milano ma nella sua provincia ed in assai altre parti, molto singolare si può chiamare la grazia e raro il favore che l'infinita sua bontà si è degnala farle, con mandare a questo governo un arcivescovo dotato di virtù, di zelo pastorale e di santità così grande, che non solo ha ristorati i danni ch'ella patiti aveva, con restituire gli antichi santi istituti e riformare i costumi del clero e popolo suo, ma anche con la santissima vita, illustri esempi ed ottimi ordini da lui ritrovati è stato di norma e regola ad altri vescovi e pastori delle anime, con frutto universale di tutta la cristiana repubblica. Questi fu san Carlo Borromeo prete cardinale del titolo di santa Prassede, la cui vita e gesta gloriose mi sono io ora, col favore divino, proposto di scrivere.  

E per serbare lo stile degli altri scrittori dovrei cominciare dalla nobiltà del sangue della sua casa e narrare l'antichità della sua famiglia con le persone graduate ed illustrissime che da quella in tutti i tempi discesero. Ma perché ciò è notissimo al mondo, sapendosi come casa Borromeo da cui egli discese, è antichissima in Italia ed in Milano, congiunta in parentado co' primi principi e signori d'Italia, e da essa, come da proprio seminario di uomini famosi in armi, in lettere, in prelature, in governi di Stati ed in ogni altra nobile ed onorata professione, ne sono usciti sempre in tutti i secoli soggetti rari ed al  mondo molto utili, tralascerò questa narrativa e dirò solamente alcune buone qualità de' suoi genitori, affinché s'intenda, che come da albero buono (conforme all'oracolo divino) ne vengono buoni frutti; così da questi pii e religiosi parenti nacque al mondo un santo figliuolo.  

Il padre suo fu il conte Giberto figliuolo del conte Federico Borromeo nobilissimo milanese; e la madre Margherita de Medici, sorella di Giovan Giacomo de Medici - marchese di Melegnano famosissimo capitano dell'imperatore Carlo V e generale alcuna volta del suo esercito - e del cardinale Giovanni Angelo de Medici, che assunto al pontificato si chiamò Pio IV. Genitori veramente non meno chiari per lo splendore della singolar bontà di vita e costumi cristiani, che illustrissimi per la nobiltà del sangue (1). Il conte Giberto non tralignò punto dalla bontà de' suoi antecessori; perciò si mostrò egli sempre cavaliere onoratissimo di spirito e di religione cristiana singolare. Fu dotato di molta prudenza, in modo che in quelle rivoluzioni dello Stato di Milano, al tempo delle guerre d'Italia. si mantenne continuamente in possesso de' suoi feudi e dominii; conservandosi nella buona grazia delle due corone di Francia e di Spagna, fra se stesse allora nemiche; sicché essendo poi restato l'imperatore Carlo V signore di questo l'onorò col titolo di senatore, di colonnello e di altri gradi principali. Egli era molto timorato di Dio e tanto divoto che si confessava e si comunicava ogni settimana recitando genuflesso ogni giorno tutto l'uffizio del Signore, avendo per il lungo orare i calli duri sopra le ginocchia. Si rinchiudeva talvolta ancora a far orazione, vestito di sacco, in una cappelletta fabbricata a guisa di grotta nella Bocca di Arona, mostrando molta inclinazione  alla vita solitaria. Verso i suoi vassalli era tanto pio, che lo tenevano piuttosto in luogo di padre che di signore.  

Aveva particolarmente gran cura degli orfani e delle povere zitelle, maritandone molte; mostrandosi così liberale in far limosine a' poverelli, che ne veniva talora ripreso dagli amici per esser egli carico di figliuoli. Ai quali rispondeva in questa guisa: se io avrò cura de' poveri, Dio ancora terrà cura de' miei figliuoli. E con uno spirito quasi profetico disse così una volta: dopo la morte mia, i miei figliuoli saranno in istato grande e non avranno bisogno d'altri. Il che poi si vide appieno verificato. Osservava egli inviolabilmente questo santo costume di non mangiare, finché non aveva fatta la limosina ai poveri. Per le quali buone e rare qualità sue lasciò di se stesso una perpetua e felice memoria. Onde quando si videro risplendere nel mondo le opere meravigliose e la vita santissima di Carlo, dicevasi che Dio nostro Signore aveva voluto premiare i meriti del padre in dargli un santissimo figliuolo.    

Non punto fu a lui dissimile la contessa Margherita; poiché rilucevano in lei virtù tali che la rendevano come uno specchio di buon esempio e molto onorata fra le matrone milanesi; fuggendo ella in maniera il commercio del mondo pieno allora di mali esempi e di molte profanità, che quasi non usciva di casa se non per udire la Messa ogni mattina nella vicina sua chiesa parrocchiale e per visitare talora i monasteri delle sacre vergini ed altri luoghi divoti, mostrando nella sua modesta ed umile compostezza esterna, come di dentro ella era molto unita e congiunta con Dio. Tali furono i genitori di Carlo; e ben conveniva che un figliuolo di tanta santità di vita avesse origine da così pii e religiosi parenti.  

Ebbero sette figliuoli, due maschi e cinque femmine, che allevarono con gran diligenza e cura nel timore di Dio. Il primo fu il conte Federico, che dal Sommo Pontefice Pio IV, suo zio, venne poscia onorato con molte dignità e gradi, ed ebbe per moglie donna Virginia della Rovere  sorella germana del serenissimo Francesco Maria duca di Urbino, oggi vivente; l'altro maschio si chiamò Carlo, di cui tosto parleremo. La prima delle femmine, dimandata Isabella, si fece monaca nel monastero detto delle vergini in Milano, chiamandosi suor Corona. Le altre quattro si congiunsero in matrimonio tutte con principi grandi; cioè Camilla, con don Cesare Gonzaga principe di Molfetta; Geronima, con Fabrizio Gesualdo primogenito del principe di Venosa; Anna, con Fabrizio primogenito di Marc' Antonio Colonna principe romano; ed Ortensia col conte Annibale Sittich d'Altaemps, fratello del cardinale di questo nome, figliuolo di un'altra sorella di Pio IV, per nome Clara - non essendo Ortensia figlia della contessa Margherita, ma di un'altra signora della casa de' conti dal Verme che ebbe per moglie il conte Giberto dopo la morte della contessa Margherita.  

Queste signore furono tutte onoratissime e molto esemplari; ma donna Anna avanzò assai le altre in pietà e divozione; poiché invitata dall'esempio del fratello cardinale, si diede tutta al Signore, frequentando l'orazione ed i santi sacramenti con sentimenti e spirito tale, che dopo la sacra comunione particolarmente con sì gran forza d'affetto orando per lo spazio di due ore, con Dio si univa che pareva immobile. Amava sommamente i poveri, e per far loro maggiori limosine si levava fin del proprio vitto e vestito; e furono così segnalate tutte le altre sue virtù cristiane, ch'ella era tenuta e stimata come santa massimamente da' suoi domestici, i quali le virtù e bontà di lei più intimamente conoscevano. La quale dopo la morte di don Fabrizio suo marito - che passò a miglior vita oppresso da febbre acuta con segni nella guerra di Portogallo, generale delle galere di Sicilia - attese a Dio con più fervore ed al governo de' suoi figliuoli nella città di Palermo in Sicilia, ove Marc’Antonio suo suocero che l'amava unicamente, risiedeva per vice-re; e quivi poi morì santamente l'anno 1582 essendo da tutti pianta e particolarmente dai poveri, ai quali parve d'aver perduta la propria madre. 

GIOVANNI PIETRO GIUSSANO SACERDOTE