Dalla Gerarchia Cardinalizia di Carlo Bartolomeo Piazza e dalle Rivelazioni Private della mistica
Maria Valtorta
Martirio di Sant’Agnese.
13 gennaio 1944
Dice Gesù:
«È detto: “Dio, avendo amato infinitamente l’uomo, lo amò sino alla morte”.97 I miei seguaci più veri non sono e non sono stati dissimili dal loro Dio ed a Lui ed agli uomini, a suo esempio e per sua gloria, hanno dato un amore senza misura che va sino alla morte. Ti ho già detto98 che un unico nome ha la morte di Agnese come quella di Teresa: amore. Sia che sia la spada o il morbo la causa apparente della morte di queste creature, che seppero amare con quella “infinità” relativa della creatura (dico così per i cavillatori della parola) che è la copia minore di quella perfetta di Dio, l’agente vero ed unico è l’amore. Una sola parola andrebbe apposta per epigrafe su questi miei “santi”. Quella che si dice di Me: “Dilexit”. Amò. Amò la fanciulla Agnese e la giovane Cecilia, amò la schiera dei figli di Sinforosa, amò il tribuno Sebastiano, amò il diacono Lorenzo, amò Giulia la schiava, amò Cassiano maestro, amò Rufo carpentiere, amò Lino pontefice, amò la candida aiuola delle vergini, la tenera prateria dei fanciullini, la soave schiera delle madri, quella virile dei padri, e la ferrea coorte dei soldati, e la sacerdotale teoria dei vescovi, dei pontefici, dei preti, dei diaconi, amò l’umile e due volte redenta massa degli schiavi.
Amò questa mia porpurea corte che mi ha confessato fra i tormenti. E amò, in epoche più dolci, la moltitudine dei consacrati dei chiostri e dei cenobi, le vergini di tutti i conventi e gli eroi del mondo, che vivendo nel mondo hanno saputo fare dell’amore clausura allo spirito perché viva amando unicamente il Signore, per il Signore, e gli uomini attraverso il Signore. Amò. Questa piccola parola che è più grande dell’universo - perché nella sua brevità racchiude la forza più forza di Dio, la caratteristica più caratteristica di Dio, la potenza più potenza di Dio - questa parola il cui suono, detto soprannaturalmente a definizione di una vita vissuta, empie di sé il creato e fa trasalire di ammirazione l’umanità e di giubilo i Cieli, è la chiave, è il segreto che apre e che spiega la resistenza, la generosità, la fortezza, l’eroismo di tante e tante creature che per età o per condizioni di famiglia e di posizione parevano le meno atte a tanta perfezione eroica. Ché, se ancora non fa stupore che Sebastiano, Alessandro, Mario, Espedito, possano aver saputo sfidare la morte per il Cristo, così come avevano sfidato la morte per il Cesare, fa stupire che delle poco più che fanciulle, come Agnese, e delle madri amorose abbiano saputo gettare fra i tormenti la vita, accettando per primo tormento di strapparsi all’abbraccio dei parenti e dei figli per amore di Me. Ma a generosità umana e sopra-umana del martire dell’amore corrisponde generosità divina del Dio d’amore. Io sono che a questi miei eroi e a tutte le vittime dell’incruento ma lungo e non meno eroico martirio do la f orza. Mi faccio Io forza in loro. All’agnella Agnese come al vegliardo cadente, alla giovane madre come al soldato, al maestro come allo schiavo, e poi nei secoli alla claustrata come allo statista che muore per la fede, alla vittima ignorata come al condottiero di spirito, Io sono che infondo fortezza. Non cercate in fondo ai loro cuori e sulle loro labbra altra perla ed altro sapore che questo: “Gesù“. Io, Gesù, sono là dove la santità raggia e la carità s’effonde.» È la mezzanotte. Gesù ha appena finito di dettare questo brano, che io connetto alla mia visione di questa sera. La frase: “Dio, avendo amato infinitamente l’uomo, lo amò sino alla morte” mi suonava in cuore sino da questa mattina. Tanto che avevo sfogliato tutto il nuovo testamento per vedere di trovarla. Ma non l’ho trovata. O mi è sfuggita o non è lì. Quasi accecata, mi sono rassegnata a smettere le ricerche, convinta che Gesù avrebbe parlato certamente su quel tema. E non ho sbagliato. Ma prima di parlare di esso, il mio Signore mi ha dato una dolce visione, con la quale nel cuore mi sono abbandonata al mio solito... riposo, ritrovandola poi, fresca come al primo momento, al mio ritorno fra i vivi. Mi pareva dunque di vedere come un portico (peristilio o foro che fosse), un portico dell’antica Roma. Dico “portico’’ perché c’era un bel pavimento di mosaico di marmo e delle colonne di marmo bianco sorreggenti un soffitto a volta, decorato di mosaici. Poteva essere il portico di un tempio pagano o di un palazzo romano, o la Curia o il Foro. Non so. Contro una parete, era una specie di trono composto di una predella marmorea sorreggente un seggio. Su questo seggio era un romano antico in toga. Compresi poi essere il Prefetto imperiale. Contro le altre pareti, statue e statuette di dèi e tripodi per l’incenso. In mezzo alla sala o portico, uno spazio vuoto avente una gran lastra di marmo bianco. Nella parete di fronte al seggio di quel magistrato si apriva il portico vero e proprio, per cui si vedeva la piazza e la via. Mentre osservavo questi particolari e la fisionomia arcigna del Prefetto, tre giovinette entrarono nel vestibolo, portico, sala (quello che vuole lei). Una era giovanissima: una bambina quasi. Vestita di bianco completamente: una tunica che la copriva tutta lasciando visibile soltanto il collo sottile e le manine piccoline dai polsi di bimba. Aveva il capo scoperto ed era bionda. Pettinata semplicemente con una divisa in mezzo al capo e due pesanti e lunghe trecce sulle spalle. Il peso dei capelli era tanto che le faceva piegare lievemente indietro il capo dandole, senza volere, un portamento da regina. Ai suoi piedi scherzava belando un agnellino di pochi giorni, tutto bianco e col musetto roseo come la bocca di un bambino. A pochi passi dietro alla fanciullina erano le altre due giovinette. Una di quasi pari età della prima, ma più robusta e di aspetto più popolano. L’altra era più adulta: sui 16 o 18 anni al massimo. Erano anche loro vestite di bianco e a capo velato. Ma vestite più umilmente. Parevano ancelle perché rimanevano in aspetto rispettoso verso la prima. Compresi che questa era Agnese, quella della sua stessa età Emerenziana, e l’altra non so. Agnese, sorridente e sicura, andò fin contro alla predella del Magistrato. E qui sentii il seguente dialogo: “Mi desideravi? Eccomi”. “Non credo che, quando saprai perché ti volli, chiamerai ancora desiderio il mio. Sei tu cristiana?”. “Sì, per grazia di Dio”. “Ti rendi conto cosa ti può portare questa affermazione?”. “Il Cielo”. “Bada! La morte è brutta e tu sei una bambina. Non sorridere perché io non scherzo”. “Ed io neppure. Sorrido a te perché tu sei il pronubo delle mie eterne nozze e te ne sono grata”. “Pensa piuttosto alle nozze della terra. Sei bella a ricca. Molti già pensano a te. Non hai che da scegliere per essere una patrizia felice”. “La mia scelta è già fatta. Amo il Solo degno d’esser amato e questa è l’ora delle mie nozze, questo è il tempio di esse. Odo la voce dello Sposo che viene e già ne vedo l’amoroso sguardo. A Lui sacrifico la mia verginità perché Egli ne faccia un fiore eterno”. “Se di essa hai premura e della tua vita insieme, sacrifica tosto agli dèi. Così vuole la legge”. “Ho un unico vero Dio, e ad Esso sacrifico volentieri”.99 E qui pareva che degli aiutanti del Prefetto dessero ad Agnese un vaso con dell’incenso perché lo spargesse su quel tripode da lei prescelto, davanti ad un dio. “Non sono questi gli dèi che amo. Il mio Dio è nostro Signore Gesù Cristo. A Lui che amo sacrifico me stessa”. Mi pareva a questo momento che il Prefetto irritato desse ordine ai suoi aiutanti di mettere i ferri ai polsi di Agnese per impedirle la fuga o qualche atto irriverente verso i simulacri, essendo da quel momento considerata rea e prigioniera. Ma la vergine sorridente si volse al carnefice dicendo: “Non mi toccare. Sono venuta qui spontaneamente perché qui mi chiama la voce dello Sposo che mi invita dal Cielo alle nozze eterne. Non ho bisogno dei tuoi braccialetti, né delle tue catene. Soltanto se mi volessi trascinare al male dovresti mettermeli. E (forse) non servirebbero perché il mio Signore Iddio li renderebbe più inutili di un filo di lino al polso di un gigante. Ma per andare incontro alla morte, alla gioia, alle nozze con il Cristo, no, le tue catene non servono, o fratello. Io ti benedico se mi dai il martirio. Non fuggo. Ti amo e prego per lo spirito tuo”. Bella, bianca, diritta come un giglio, Agnese era visione celeste nella visione... Il Prefetto dette la sentenza che non udii bene. Mi parve ci fosse come una lacuna durante la quale persi di vista Agnese, intenta come ero ai molti che si erano accatastati nell’ambiente. Poi ritrovai la martire, ancor più bella e gioconda. Di fronte a lei una statuetta d’oro di Giove e un tripode. Al suo fianco il carnefice con la spada già snudata. Parevano fare un ultimo tentativo per piegarla. Ma Agnese con gli occhi sfavillanti scuoteva il capo e con la piccola mano respingeva la statuetta. Non aveva più ai piedi l’agnellino che era invece nelle braccia di Emerenziana piangente. Vidi che facevano inginocchiare Agnese sul pavimento, in mezzo alla sala, là dove era la gran lastra di marmo bianco. La martire si raccolse con le mani sul petto e lo sguardo al cielo. Lacrime di sovrumana gioia le imperlavano l’occhio, rapito in una contemplazione soave. Il volto, senza essere più pallido di prima, sorrideva. Uno degli aiutanti le prese le trecce come fossero una fune per tenerle fermo il capo. Ma non ce ne era bisogno. “Amo Cristo!” gridò quando vide il carnefice alzare la spada, e vidi la stessa penetrare tra la scapola e la clavicola e aprire la carotide destra e la martire cadere, sempre conservando la sua posizione di inginocchiata, sul lato sinistro, come uno che si adagia nel sonno, in un beato sonno, perché il sorriso non si diparti dal suo volto e fu nascosto solo dal fiotto di sangue che sgorgava a nappo dalla gola squarciata. Eccole la mia visione di questa sera. Non vedevo l’ora di esser sola per scriverla e rigodermela in pace. Era così bella che, mentre l’avevo - e mi scendevano lacrime che la penombra della stanza credo abbia nascoste ai presenti, e me ne stavo ad occhi chiusi, parte perché ero talmente assorbita nella contemplazione che avevo bisogno di concentrarmi, e parte per far credere che dormissi, per quanto non ami far capire... dove sono - non ho potuto sopportare di udire brani di frasi comuni e molto umane galleggiare come rottami fra la bellezza della visione, e ho detto: “Zitti, zitti” come se mi dessero noia i rumori. Ma non era quello. Era che volevo rimanere sola per contemplare in pace. Come infatti m’è riuscito.
A cura di Mario Ignoffo
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