lunedì 30 agosto 2021

TEMPO ED ETERNITÀ

 


Questa è una terribile imprudenza. 

Apriamo gli occhi e consideriamo il pericolo nel quale ci troviamo; guardiamo dove si pone il piede, perché non ci perdiamo, essendo lo stato di questa vita molto pericoloso. Con ragione Isidoro Clario lo paragonò a un ponte tanto stretto che appena vi stanno due piedi e sotto il quale si trova un lago di acque nere piene di serpenti, di fiere e di animali velenosi, i quali si nutrono di coloro che cadono dal ponte; da un lato e dall'altro vi sono giardini, prati, fontane ed edifici bellissimi. Come sarebbe grande pazzia di colui che passasse il ponte guardando prati ed edifici senza badare dove mette i piedi, così è grande pazzia quella che commette chi passa per questa vita guardando solo ai beni terreni e tenendo in non cale i suoi passi e le sue opere. Aggiunse Cesario Arelatense che questo ponte ha il più gran pericolo nel suo termine, dove è più stretto; ivi è il vero pericolo, perché è il passaggio strettissimo della morte. Guardiamo dunque in vita dove mettiamo il piede con sicurezza per il cielo, perché non abbiamo a metterlo nel vuoto e perdere con ciò l'eternità a cui tende la nostra vita. 

O eternità, o eternità, quanto pochi sono quelli che si preoccupano di te! O eternità, pericolo dei pericoli, rischio di tutti i rischi, se si sbaglia il passo! Come non si preparano ad essa i mortali e come non la temono? Non v'è pericolo maggiore che quello dell'eternità, né rischio più certo che quello della morte. Perché non ci prepariamo e ci armiamo per essa? Perché non ci preoccupiamo di ciò che sarà di noi? Questa vita dovrà durare ben poco, le forze ci verranno a mancare, i sensi si turberanno, le ricchezze ci verranno tolte, le comodità finiranno ed il mondo ci scaccerà. Perché allora non consideriamo ciò che dopo sarà di noi? In altra regione saremo mandati per sempre; perché non pensiamo che cosa dovremo fare colà? 

Acciocché dunque conosciamo questa nostra sorte e perché sappiamo essere prudenti, racconterò un'altra parabola del medesimo San Giovanni Damasceno. V'era una città molto grande e popolatissima, i cui abitanti avevano l'usanza di eleggere per loro re uno straniero, che non avesse conoscenza alcuna del loro regno o stato. Per un anno gli lasciavano fare liberamente tutto ciò che voleva. Ma dopo, quando egli se ne stava sicuro e senza sospetto, pensando di poter regnare per tutta la vita, essi arrivavano improvvisamente, lo spogliavano delle sue vesti regali e trascinandolo nudo per la città lo portavano ad un'isola molto lontana, dove aveva da soffrire estrema povertà, senza aver di che mangiare, né di che vestirsi. Così impensatamente si cambiava la sua fortuna in tutto l'opposto: le sue ricchezze in povertà, la sua gioia in tristezza, i suoi diletti in fame, la sua porpora in nudità. 

Avvenne però una volta che fu eletto re un uomo molto prudente ed astuto. Questi, avendo sentito da uno dei suoi consiglieri di quella usanza dei cittadini e della loro notoria incostanza, non s'inorgoglì della sua dignità del regno che gli avevano affidato, soltanto curava come doveva pensare per sé, affinché, nel temuto prossimo esilio, privo del regno e relegato in quella isola, non dovesse  perire di povertà e di fame. Il divisamento che attuò fu questo: mentre durava il regno fece passare con gran segreto, tutti i tesori di quella città, che erano molto grandi, a quella isola dove doveva poi andare a finire. Fatto questo, vennero alla fine dell'anno con grande tumulto i cittadini per deporlo dalla sua dignità e dal suo ufficio di re, come avevano fatto coi suoi predecessori, e mandarlo in esilio. Egli partì per quella destinazione senza pena alcuna, perché aveva mandato avanti grandi tesori, con i quali visse in abbondanza e splendore mentre gli altri re vi perivano di fame. 

Questo è ciò che avviene nel mondo e ciò che deve fare colui che vuole essere prudente. Quella città infatti significa questo mondo pazzo, vano ed incostante, nel quale, mentre uno pensa di poter regnare, in un momento viene spogliato di tutto e nudo va a finire nel sepolcro, proprio quando meno lo aspettava e più era intento a godere dei suoi beni passeggeri e caduchi, come se fossero immortali e perpetui; senza rammentarsi affatto dell'eternità, dove in breve sarà esiliato; regione tanto lontana ed estranea al suo pensiero, dove va senza pensarci, nudo e solo, per perdersi nella morte eterna; solo vive per andare a penare in quella terra di morti scura e tenebrosa, dove non entra luce, ma orrore e tenebre sempiterne. 

Il prudente invece è colui che, considerando ciò che ha da accadergli tra breve, di uscire cioè spogliato di tutto da questo mondo, si prepara per l'altro, utilizzando il tempo di questa vita per trovarlo nell'eternità. Con opere sante di penitenza, di carità e di elemosine fa passare i suoi tesori a quella regione dove ha da abitare per sempre, ordinando qui bene tutta la vita. Pensiamo dunque all'eterno, perché ordinando bene qui le cose temporali, acquistiamo là quelle temporali e quelle eterne. 

San Gregorio (S. GREG., in Cant.. 2.) riteneva che la considerazione dell'eternità era raffigurata in quella dispensa ben provvista di vino prezioso, nella quale la sposa dice di essere stata introdotta dallo sposo e di aver quivi dato ordine alla carità. Dice infatti che chiunque consideri nell'animo suo con attenzione alquanto profonda l'eternità, potrà gloriarsi dicendo: ordinò in me la carità: perché amerà meno se stesso e più Dio e per Dio, e solo per l'eternità farà uso delle cose temporali anche le più necessarie. 

P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J. 

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