La nuova vampata rivoluzionaria.
In quell'estate afosa del 1847, incoraggiato da mons. Corboli Bussi e spinto dalla pressione della piazza, Pio IX sembrava inarrestabile sulla via delle riforme. Il cardinal
De Angelis, arcivescovo di Fermo, il 25 agosto '47 osservava preoccupato: «Siamo né più né meno alla rivoluzione in nome di Pio IX», facendo eco alle osservazioni di Metternich, per il
quale lo Stato della Chiesa era ormai «in balìa di una rivoluzione flagrante» 63. Queste considerazioni spinsero il cancelliere austriaco a una mossa che per quanto in sé legittima si rivelò poi controproducente: l'occupazione cautelativa da parte delle truppe austriache
della città di Ferrara 64. Ciò avveniva mentre a Roma si era sparsa la voce di un complotto organizzato dai "gregoriani", i nostalgici di Gregorio XVI, per far strage dei liberali. Per varie settimane sui giornali e nelle cancellerie diplomatiche non si parlò che
dell'atto di forza austriaco a Ferrara e della "congiura gregoriana" di cui si attribuiva all'Austria l'istigazione. L'eccitazione non fece che crescere, il prestigio austriaco ne uscì scosso
e il mito di Pio IX rafforzato 65. La sera del 7 settembre nel Caffè delle Belle Arti, dopo un'arringa del principe di Canino, fu inaugurato un ritratto
di Pio IX e Gioberti. Vi si vedeva una carta geografica d'Italia circondata da una ghirlanda bianco, rosso e verde, col motto: «Viva l'Italia, viva Gioberti!» 66.
Dopo la Guardia Civica, Pio IX con un Motu proprio del 1 ottobre, istituì il Consiglio Municipale ed il Senato di Roma e il 14 ottobre la Consulta di Stato 67, già negata da Gregorio XVI. Il Collegio dei cardinali costituiva il Senato del nuovo regime; venivano istituiti due corpi legislativi elettivi, l'Alto Consiglio e
il Consiglio dei Deputati; le leggi per divenire esecutive dovevano avere la sanzione del Papa.
Ne «Il Contemporaneo», Pietro Sterbini presentava la Consulta come «una rivoluzione sociale, che non si arresta alla superficie, ma attacca le fondamenta, e si
compie fra le feste e gli evviva, fra le lacrime di gioia e gli abbracciamenti fraterni» 68. L'obiettivo dei rivoluzionari era quello di trasformarla da organo consultivo in un vero e proprio parlamento legislativo. Ancora una volta Metternich ne previde il dinamismo incontrollabile: «La Consulta
- egli osservava - racchiude il germe di un sistema rappresentativo che non si adatta né all'autorità sovrana del Capo della cattolicità, né alle Costituzioni della Chiesa» 69.
Il 1847 si concluse con un atto che era l'inevitabile conseguenza della creazione della Consulta: la formazione di un Governo, costituito da nove ministeri, che affiancava la
sua autorità a quella del Papa. Il governo era presieduto dal cardinale Gabriele Ferretti, appartenente all'ala più moderata della Curia, che il 16 luglio aveva sostituito il cardinal Gizzi come nuovo segretario
di Stato. Ferretti tenne questo ufficio per sei mesi: resosi conto di non riuscire a controllare la situazione pregò di essere sostituito. Il suo successore, il 21 gennaio 1848, fu il cardinale Giuseppe Bofondi.
La tempesta, prevista da osservatori attenti come Metternich e Solaro, era imminente. La scintilla rivoluzionaria partì da Parigi il 23 febbraio 1848, con la caduta della
"monarchia di luglio" di Luigi Filippo e di qui si propagò a Vienna, a Berlino, a Francoforte, a Milano, a Parma, a Venezia, mentre negli stessi giorni appariva a Londra il Manifesto del Partito Comunista, commissionato a Marx e ad Engels dalla "Lega dei Giusti" 70.
Le dimissioni del principe di Metternich il 13 marzo 1848 segnano, più che la conclusione di una carriera politica, la fine di un'epoca: l'era della "Restaurazione".
«Traccio una riga - scrive Metternich - tra ciò che era e ciò che è: questa linea di demarcazione inizia all'undicesima ora della notte tra il 13 e il 14 marzo 1848. Io sono l'uomo di ciò
che era» 71. Nei vari stati italiani si invoca la costituzione liberale. Ferdinando II re delle Due Sicilie la concede a Napoli il 10 febbraio, il granduca
Leopoldo II di Toscana il 15 dello stesso mese, il re di Sardegna Carlo Alberto il 4 marzo. Pio IX, dapprima esitante, non è contrario al principio. Il 14 marzo concede lo «Statuto fondamentale pel governo temporale
degli Stati della Chiesa», mentre il popolo manifesta nelle strade al gridò: «Viva Pio IX, vivano le costituzioni italiane dalle Alpi al mare!» 72.
Sono giorni di entusiasmo generale 73. Massimo d'Azeglio scrive: «Questa non è una rivoluzione, è un cataclisma politico sociale. Il Papa, il Papa solo può forse, non solo salvarsi, ma diventare il moderatore degli
eventi» 74. La piazza reclama ora la guerra contro l'Austria e l'espulsione dei padri della Compagnia di Gesù. Quasi ogni sera turbe di dimostranti
si radunano davanti alla chiesa del Gesù gridando «Morte ai Gesuiti» e frantumando a sassate i vetri delle finestre. Quando il Ministro di Polizia Galletti fa sapere al Papa di non potere assicurare l'incolumità
dei gesuiti, è lo stesso Pio IX a consigliare ai padri di lasciare Roma finché non si calmi la tempesta 75.
Il 10 febbraio 1848, mentre sembra delinearsi il programma giobertiano di una unione dei principi italiani, il Papa ha pronunciato una allocuzione conclusasi con questa espressione:
«Benedite, dunque, o grande Iddio, l'Italia, e conservatele questo dono, il più prezioso di tutti, la fede!» 76. Di queste parole, osserva l'Aubert, una sola cosa colpì gli uditori: Pio IX invocava le benedizioni del cielo sull'Italia, quella nazione della quale il Metternich
aveva detto che era solo un'espressione geografica 77.
È questo forse il punto più alto del grande equivoco alimentato per convincere gli italiani che il Papa fosse pronto a prendere la testa della "crociata"
contro l'Austria. I "Circoli" romani propagano la benedizione all'Italia di Pio IX come una benedizione alla guerra contro l'Austria e fanno stampare l'effigie del Papa incorniciata da bandiere, spade
e cannoni. Molti collaboratori del Papa, come Corboli-Bussi e Rosmini, spingono Pio IX all'intervento militare. Il sacerdote roveretano cerca di dare un fondamento teologico alla guerra, affermando che essa è «obbligatoria»
per un sovrano quando è giusta, come in questo caso, poiché ha una grande utilità nazionale 78.
Nelle vie di Milano e di Venezia intanto si alzano le bandiere della Rivoluzione, mentre Carlo Alberto, mosso dalla speranza di cingere la corona d'Italia, sostituita l'antica
bandiera azzurra dei Savoia con il tricolore, attacca l'Austria. A Roma il 21 marzo viene assaltata l'ambasciata austriaca e sulla statua di Marco Aurelio in Campidoglio è issato il tricolore. Da un pulpito
elevato nel Colosseo, il padre Gavazzi si rivolge alla popolazione romana invocando la "santa crociata" contro l'Austria. «L'austriaco - proclama - cento volte più feroce del musulmano, sta alle
nostre porte: novelli crociati, armiamo i nostri petti col segno della croce, ed avanti sul nemico, perché Dio lo vuole! ...» 79. La scena si conclude col suono della Marsigliese e la formazione di un corteo che arriva fino al Quirinale per indurre il Papa a benedire le bandiere della guerra.
Gli avvenimenti travolgono ormai il Pontefice, costretto a permettere la costituzione di un esercito di volontari, sia pure con la sola missione di proteggere lo Stato Pontificio,
senza oltrepassare i confini. Il proclama emanato il 5 aprile a Bologna dal generale Giovanni Durando che comanda le truppe pontificie, vuole mettere il Papa di fronte al fatto compiuto. «Soldati! - afferma - Il Sommo
Pontefice ha benedetto le vostre spade, che unite a quelle di Carlo Alberto, debbono concordi muovere allo sterminio dei nemici di Dio e dell'Italia. (...) Una tale guerra della Civiltà contro la barbarie è
guerra non solo nazionale, ma altamente cristiana!» 80.
Il 27 aprile i rappresentanti dei "Circoli romani" inviano una deputazione al Quirinale, esigendo che il Papa richiami il Nunzio di Vienna, e il giorno successivo formano
un "comitato di guerra". Sono le ore più difficili per Pio IX. Il suo animo mosso da contrastanti sentimenti, s'interroga sulla possibilità di conciliare le aspirazioni alla libertà e alla
indipendenza d'Italia, in cui ancora crede, con i diritti e la libertà della Chiesa. La drammatica contraddizione viene finalmente sciolta dall'allocuzione Non semel 81, pronunciata nel Concistoro del 29 aprile 1848, in cui egli dichiara solennemente che, in quanto Pastore
supremo, non può dichiarare guerra ad una nazione i cui membri sono suoi figli spirituali. In questa celebre allocuzione Pio IX rifiuta il suo appoggio all'intervento piemontese, rigettando «al cospetto di
tutte le genti (...) i subdoli consigli manifestati per mezzo di giornali e di vari scritti da coloro i quali vorrebbero fare il romano Pontefice presidente di una certa nuova Repubblica da costituirsi con tutti i popoli d'Italia»
82.
L'8 settembre 1847 Mazzini aveva scritto al Papa invitandolo apertamente all'apostasia: «Io non vi dirò le mie opinioni individuali sullo sviluppo religioso
futuro, poco importano. Vi dirò che qualunque sia il destino delle attuali credenze, Voi potete porvene a capo (...). Vi chiamo, dopo tanti secoli di dubbio e di corruttela, ad essere apostolo dell'Eterno Vero (...).
Siate credente. Aborrite dall'essere re, politico, uomo di Stato (...). Annunciate un'Era: dichiarate che l'Umanità è sacra e figlia di Dio, che quanti violano i suoi diritti al progresso, all'associazione
sono sulla via dell'errore. (...) Unificate l'Italia, la patria Vostra (...). Noi Vi faremo sorgere intorno una Nazione al cui sviluppo libero, popolare, Voi, vivendo, presiederete (...)» 83.
L'allocuzione concistoriale del 29 aprile, con la quale Pio IX rifiuta solennemente di porsi alla testa della Rivoluzione in Italia, rappresenta la solenne ed esplicita risposta
all'invito a rinnegare la propria missione avanzato da parte delle società segrete. Qualcuno ha voluto vedere in quest'allocuzione il "tradimento" della Rivoluzione; si tratta in realtà, secondo
le parole di Crétineau-Joly, di una «pagina di storia scritta ai piedi del crocifisso» 84. «La Rivoluzione - scrive Louis Veuillot esigeva una sanzione alle sue dottrine, un'accettazione della sua bandiera. Egli invece condannò le sue opere,
affermò altamente i diritti che lei gli voleva far abdicare, rifiutò di dichiarare guerra all'Austria. Il Non possumus, opposto dopo ad altri avversari, colpì per primo la sedizione che gli parlava faccia a faccia» 85.
Sugli ambienti rivoluzionari l'allocuzione cadde come un fulmine a ciel sereno. Carlo Alberto aveva già aperto le ostilità contro l'Austria nell'entusiasmo
generale e il contingente pontificio era appena partito per il fronte. In questo senso, come osserva Pelczar, «l'allocuzione fu in ritardo di un mese» 86. A partire da questo documento tuttavia, tra la Chiesa e il cosiddetto risorgimento si aprì un fossato destinato a divenire presto incolmabile. Il sogno neoguelfo di porre
il Papato alla testa della Rivoluzione italiana precipitò in frantumi. A Roma, gli stessi club rivoluzionari che avevano osannato Pio IX organizzarono manifestazioni contro il Pontefice al grido di «Pio IX ci
ha traditi! Morte ai cardinali!» mentre sulle chiese comparivano scritte: «Morte a Cristo, viva Barabba» 87. La Guardia Civica intanto, senza ordini superiori, occupò Castel Sant'Angelo e le porte della città perché sin d'allora si era sparsa la voce che
Pio IX volesse abbandonare la città.
Roberto De Mattei