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domenica 13 ottobre 2024

Le verità di fede non sono incompatibili con la ragione.

 


Sebbene la verità della fede cristiana superi la capacità della ragione, tuttavia i princìpi naturali della ragione non possono essere in contrasto con codesta verità. Infatti:  

 1. I princìpi così innati nella ragione si dimostrano verissimi: al punto che è impossibile pensare che siano falsi. E neppure è lecito ritenere che possa esser falso quanto si ritiene per fede, essendo confermato da Dio in maniera così evidente. Perciò essendo contrario al vero solo il falso, com'è evidente dalle loro rispettive definizioni, è impossibile che una verità di fede possa essere contraria a quei princìpi che la ragione conosce per natura.  

 2. Inoltre, le idee che l'insegnante suscita nell'anima del discepolo contengono la dottrina del maestro, se costui non ricorre alla finzione; il che sarebbe delittuoso attribuire a Dio. Ora, la conoscenza dei princìpi a noi noti per natura ci è stata infusa da Dio, essendo egli l'autore della nostra natura. Quindi anche la sapienza divina possiede questi princìpi. Perciò quanto è contrario a tali princìpi è contrario alla sapienza divina; e quindi non può derivare da Dio. Le cose dunque che si tengono per fede, derivando dalla rivelazione divina, non possono mai essere in contraddizione con le nozioni avute dalla conoscenza naturale.  

 3. In più, ragioni contrarie legano l'intelletto nostro al punto da non poter procedere alla conoscenza della verità. Perciò se Dio ci infondesse conoscenze contrastanti, impedirebbe al nostro intelletto di conoscere la verità. Il che non si può pensare di Dio.  

4. Inoltre, ciò che è naturale non può essere mutato finché permane la natura. Ora, opinioni contrastanti non sono compatibili nel medesimo soggetto. Dunque non è possibile che Dio infonda nell'uomo un'opinione, o una fede, incompatibile con la sua conoscenza naturale. Di qui le parole dell'Apostolo: «Il messaggio è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore, cioè il messaggio della fede che vi predichiamo» (Rm., 10, 8). Ma poiché le verità di fede superano la ragione, alcuni sono portati a considerarle come ad essa contrarie; il che è impossibile. Ciò è confermato da quelle parole di S. Agostino: «Quanto viene manifestato dalla verità in nessun modo può essere in contrasto sia col Vecchio, che col Nuovo Testamento» (2 Super Gen. ad litt., c. 18).  

 Da ciò si ricava con chiarezza che tutti gli argomenti addotti contro gli insegnamenti della fede, non derivano logicamente dai princìpi primi naturali noti per se stessi. E quindi essi non hanno valore di dimostrazioni; ma, o sono ragioni solo dialettiche, o addirittura sofistiche, e quindi si possono sempre risolvere. 

SAN TOMMASO D’AQUINO 

giovedì 9 maggio 2024

- Non è atto di leggerezza l'assenso alle cose di fede, per quanto esse siano superiori alla ragione.

 


Prestando fede a codeste verità, che la ragione umana non è in grado di controllare, non si fa un atto di leggerezza, quasi «prestando fede a dotte favole», secondo l'espressione di S. Pietro (2Pt., 1, 16). Poiché la stessa sapienza divina, che tutto conosce in modo completo, si degnò di rivelare i suoi segreti agli uomini; mostrando il suo intervento e la verità del suo insegnamento e della sua ispirazione con argomenti adatti: confermando cioè cose che sorpassano la conoscenza naturale con opere visibili superiori alle capacità di tutta la natura. Vale a dire con la guarigione prodigiosa di malattie, con la resurrezione dei morti, con le mutazioni miracolose dei corpi celesti, e, cosa ancora più mirabile, con l'ispirazione interiore delle menti umane, così da riempire col dono dello Spirito Santo uomini ignoranti e semplici, facendo loro conseguire all'istante somma sapienza ed eloquenza.  

 In considerazione di ciò, per l'efficacia delle prove suddette e non già per violenza di armi, né per attrattiva di piaceri e, cosa mirabilissima, in mezzo alla tirannia dei persecutori, una turba innumerevole non solo di persone semplici, ma anche di uomini sapientissimi, abbracciò la fede cristiana; nella quale vengono predicate cose che trascendono qualsiasi intelletto umano, mentre insegna a tenere a freno i piaceri della carne, e a disprezzare tutte le cose del mondo. Ora, l'adesione degli animi dei mortali a cadeste cose è insieme il più grande dei miracoli, ed esige l'intervento manifesto dell'ispirazione divina, per disprezzare le cose visibili nel solo desiderio di quelle invisibili. E questo non avvenne improvvisamente o per caso, ma per disposizione divina, com'è evidente dalla predizione fattane in precedenza dagli oracoli di molti profeti, i cui libri sono stati conservati religiosamente fino a noi, come testimonianza della nostra fede.  

 Di tale conferma si ha un accenno in quelle parole della Scrittura, in cui si dice che la salvezza umana, «fu annunziata prima dal Signore, poi ci è stata confermata da quelli che l'avevano udito, mentre Dio aggiungeva la sua testimonianza con segni e prodigi e coi doni dello Spirito Santo» (Ebr., 2, 3).  

 Questa mirabile conversione del mondo alla fede cristiana è segno certissimo degli antichi miracoli, così da non esser necessaria la loro ripetizione, apparendo essi evidenti nei loro effetti. Sarebbe infatti il più strepitoso dei miracoli, se il mondo fosse stato indotto a credere cose tanto ardue, a compiere azioni tanto difficili e a sperare cose tanto alte da uomini semplici e poveri, senza prodigi mirabili. Sebbene Dio non cessi, anche ai nostri giorni per confermare la fede, di compiere miracoli per mezzo dei suoi santi.  

 Coloro invece che introdussero sette erronee procedettero per vie del tutto contrarie, com'è evidente nel caso di Maometto, il quale allettò i popoli con la promessa di piaceri carnali, ai quali essi sono già propensi per la concupiscenza della carne. Inoltre diede precetti conformi a codeste promesse, sciogliendo le briglie alle passioni del piacere, in cui è facile farsi ubbidire dagli uomini carnali. In più egli non diede altri insegnamenti all'infuori di quelli che qualsiasi persona mediocremente istruita può dare facilmente e comprendere col suo ingegno naturale; anzi, le verità stesse che egli insegnò sono mescolate a favole e a dottrine falsissime. E neppure si servì di miracoli soprannaturali, che costituiscono la sola testimonianza adeguata della rivelazione divina, in quanto un fatto visibile, il quale non può attribuirsi che a Dio, mostra essere ispirato da Dio colui che insegna questa data verità. Ma disse di essere stato inviato con la potenza delle armi: il quale contrassegno non manca neppure ai briganti e ai tiranni. Inoltre a lui inizialmente non credettero Uomini pratici delle cose divine ed umane, ma uomini bestiali abitanti nel deserto, del tutto ignari delle cose di Dio; e servendosi poi del loro numero, egli costrinse gli altri ad accettare la sua legge con la forza delle armi. E neppure ebbe anteriormente la testimonianza dei profeti precedenti; anzi egli guasta tutti gli insegnamenti del Vecchio e del Nuovo Testamento con racconti favolosi, come risulta dalla lettura della sua legge. Ecco perché con astuzia egli proibisce ai suoi seguaci di leggere i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, per non essere tacciato di falsità. Perciò è evidente che coloro che credono in lui compiono [oggettivamente] un atto di leggerezza.  

SAN TOMMASO D’AQUINO

sabato 13 aprile 2024

- È opportuno che all'uomo vengano proposte come materia di fede cose che non possono essere investigate dalla ragione.

 


A qualcuno forse potrà sembrare che all'uomo non si debbano proporre a credere cose che la ragione non è in grado di investigare; poiché la sapienza divina provvede a ciascun essere secondo la sua natura. Perciò bisogna qui dimostrare che era necessario venissero proposte all'uomo come materia di fede anche cose che sorpassano la ragione.  

 Ebbene, nessuno tende con desiderio e con impegno verso cose che non conosce. Ora, avendo la divina provvidenza, come vedremo in seguito [lib. III, c. 142], preordinato l'uomo a un bene più alto di quello sperimentabile nella vita presente, era necessario che la mente umana venisse iniziata a cose più alte di quelle raggiungibili al presente dalla nostra ragione; imparando così a desiderare e a perseguire beni che trascendono la nostra condizione attuale. E questo compete soprattutto alla religione cristiana, che promette in modo singolare beni spirituali ed eterni. Ecco perché in essa si riscontrano molti insegnamenti che superano le capacità umane. Invece l'antica legge, in cui c'erano promesse di beni temporali, aveva proposto poche cose superiori all'indagine della ragione umana. - Del resto anche i filosofi hanno seguito lo stesso criterio, nel distaccare gli uomini dai piaceri sensibili, per condurli all'onestà: mostrarono cioè che esistono beni superiori a quelli sensibili, capaci di offrire godimenti superiori a coloro che attendono alle virtù attive e a quelle contemplative.  

 Anzi è necessario che agli uomini vengano proposte come cose di fede verità di codesto genere, per avere di Dio una conoscenza più vera. Allora soltanto infatti noi conosciamo Dio veramente, quando lo crediamo superiore a quanto l'uomo è capace di pensarne: poiché la realtà divina trascende la conoscenza naturale dell'uomo, come sopra abbiamo notato, perciò dall'esser proposte all'uomo verità divine superiori alla ragione, si conferma nell'uomo l'opinione che Dio è qualcosa di superiore a quanto è possibile pensare.  

 C'è poi in questo un altro vantaggio, cioè il freno della presunzione che è madre dell'errore. Ci sono invero alcuni così presuntuosi del proprio ingegno, che immaginano di poter misurare con la propria intelligenza la natura divina, ritenendo per vero quello che loro sembra tale, e falso quello che non li persuade. Affinché, dunque, l'animo umano liberato da siffatta presunzione potesse giungere a ricercare con modestia la verità, era necessario che Dio proponesse all'uomo delle nozioni che superano del tutto l'intelligenza umana.  

 Un altro vantaggio poi è quello cui accenna Aristotele nel decimo libro dell'Ethic. [c. 7, n. 8]. Volendo infatti un certo Simonide convincere un uomo a disinteressarsi delle cose di Dio, per applicare il proprio ingegno alle cose umane, col pretesto che «l'uomo deve intendersi delle cose umane e il mortale di quelle mortali», il Filosofo replica dicendo che «l'uomo deve innalzarsi per quanto è possibile alle cose immortali e divine». Ed ecco perché nell'undicesimo libro De Animalibus afferma, che per quanto sia poca la nostra conoscenza delle nature superiori, tuttavia questo poco è più amato e desiderato di tutta la conoscenza che abbiamo delle nature inferiori. E nel secondo libro del De Coelo et Mundo [c. 12, n. 1] insegna che, sebbene i problemi relativi ai corpi celesti non possano avere che una soluzione modesta e solo probabile, tuttavia produce in chi l'ascolta un grande godimento. 

E da tutti questi argomenti appare evidente che la conoscenza delle cose più sublimi, per quanto imperfetta, conferisce all'anima la più grande perfezione. Perciò, sebbene la ragione umana non possa capire pienamente ciò che la trascende, tuttavia acquista così una grande eccellenza, ritenendo almeno per fede codeste verità.  

 Ecco perché nell'Ecclesiastico, 3, 25, si legge: «Ti sono state mostrate molte cose che sorpassano la comprensione umana»; e nella 1Cor., 2, 10 s., S. Paolo afferma: «Nessuno conosce i segreti di Dio all'infuori dello Spirito di Dio: ma Dio ce li ha rivelati mediante il suo Spirito». 

SAN TOMMASO D’AQUINO 

mercoledì 14 febbraio 2024

- È conveniente che all'uomo vengano proposte da ritenere per fede le verità divine che possono essere investigate dalla ragione naturale.

 


Essendoci dunque due serie di verità riguardo alle cose di Dio, la prima raggiungibile dalla ragione, mentre la seconda trascende qualsiasi capacità dell'ingegno umano, è conveniente che entrambe vengano proposte all'uomo da Dio come materia di fede. In proposito bisogna prima di tutto notare in che condizioni si trovino quelle verità che sono raggiungibili dall'indagine razionale, perché a nessuno sembri inutile la loro presentazione come oggetto di fede dall'ispirazione soprannaturale, dal momento che sono raggiungibili dalla ragione.  

 Seguirebbero infatti tre inconvenienti, se codeste verità fossero lasciate alla sola indagine razionale. Primo, che pochi uomini avrebbero la conoscenza di Dio. Poiché i più si troverebbero impediti dal raggiungere i risultati di una ricerca scientifica, sarebbero cioè negati alla scoperta della verità, per tre motivi. Alcuni lo sarebbero per la loro complessione, che rende moltissimi inadatti allo studio. Cosicché costoro con tutto il loro impegno non sarebbero capaci di raggiungere il grado supremo della conoscenza umana, che consiste nella cognizione di Dio. Altri sono impediti dai bisogni familiari.  

Tra gli uomini infatti molti sono costretti a curare gli interessi temporali, così da non poter impiegare tanto tempo nella ricerca e nella contemplazione, per poter giungere al fastigio dell'indagine umana, cioè alla conoscenza di Dio. Finalmente altri sono impediti dalla pigrizia; poiché per conoscere quanto la ragione può sapere di Dio, è necessaria la previa conoscenza di molte cose, dal momento che quasi tutta la filosofia è ordinata alla conoscenza di Dio. Infatti la metafisica, che ha per oggetto le cose divine, viene insegnata per ultima tra le discipline filosofiche. Perciò non si può arrivare all'indagine delle suddette verità, se non con grande fatica di studio; fatica che pochi si rassegnano ad affrontare per amore del sapere, pur avendone Dio posto in tutte le anime il desiderio naturale.  

 Secondo inconveniente: quegli stessi che raggiungessero la conoscenza o la scoperta di codeste verità, ci arriverebbero difficilmente e dopo lungo tempo: sia per la profondità di esse, che richiede da parte della ragione umana un lungo esercizio, sia per le molte conoscenze prerequisite di cui abbiamo parlato, sia perché in gioventù l'anima, agitata tra i moti contrastanti delle passioni, non è adatta all'esercizio di una conoscenza così alta, ma «diviene prudente e savia nell'acquietarsi», come si esprime Aristotele nel settimo libro della Physic. [c. 3, n. 7]. Perciò il genere umano resterebbe nelle più fitte tenebre dell'ignoranza, se per conoscere Dio non avesse altra via che la ragione; qualora la conoscenza di Dio, che è il massimo coefficiente della perfezione e della bontà, fosse riservata a pochi, che poi non ci arriverebbero se non dopo lungo tempo.  

 Il terzo inconveniente sta nel fatto che nelle investigazioni della ragione umana il più delle volte si mescola il falso, a cagione della debolezza nostra nel giudicare sotto le impressioni della fantasia. Perciò presso molti resterebbero dubbie anche le cose rigorosamente dimostrate, non afferrando essi il valore delle dimostrazioni; e soprattutto vedendo i pareri contrastanti di coloro che sono considerati sapienti. E anche nelle verità dimostrate talora si mescola qualche falsità, che non deriva dalla dimostrazione, bensì da ragioni probabili o sofistiche, considerate come vere dimostrazioni.  

 Ecco perché era necessario che le verità divine fossero presentate agli uomini con certezza assoluta come materia di fede. Perciò la divina bontà provvide salutarmente a comandarci di tenere per fede anche le verità conoscibili con la ragione: affinché tutti possano con facilità essere partecipi della conoscenza di Dio, senza dubbi e senza errori.  

 Di qui le parole della Scrittura: «Non camminate più, come camminano i gentili, nella vanità dei loro pensieri, con l'intelligenza ottenebrata» (Efes., 4, 17, 18). E ancora: «Tutti i tuoi figli saranno istruiti dal Signore» (Is., 54, 13). 

SAN TOMMASO D’AQUINO

domenica 14 novembre 2021

ESISTENZA E NATURA DI DIO - I limiti della nostra conoscenza di Dio.

 


E per quanto l‘ordine naturale possa illuminarci su Dio, l‘intelletto nostro, il quale ha coscienza del suo punto di partenza e del suo proprio oggetto, sa perfettamente che non ci porterà se non alla soglia, per così dire, della intima essenza di Dio. Dio trascende ogni essere creato e ogni nostra cognizione. I concetti che possiamo avere di lui e i nomi con cui esprimiamo tali concetti, desunti dal creato, sono concetti e nomi che convengono a Dio analogamente, non univocamente, sebbene non equivocamente (q. 13, aa. 1-3). Dalla equivocità nascerebbe l‘impossibilità totale di conoscere Dio (agnosticismo); dalla univocità- intendendo con questo termine una somiglianza sostanziale delle realtà significate — nascerebbe una panteistica confusione dell‘essere increato con l‘ente creato; dall‘analogia risulta una possibilità reale di conoscerlo, ma in modo imperfetto. Tali nostri concetti ce lo significano in modo proprio e non puramente metaforico o simbolico; ma per poterli appropriare esclusivamente a lui, dobbiamo affrettarci a includere in essi, oltre l‘elemento positivo che contengono, anche un elemento negativo, escludente i limiti e le imperfezioni, con cui la realtà espressa dai concetti viene attuata nelle creature. In forza del principio di causalità noi siamo perfettamente autorizzati ad attribuire a Dio tutta la perfezione che è negli effetti; ma poichè Dio è causa libera, agente per intelletto e volontà, analoga agli effetti e non univoca ad essi, trascendente cioè la specie e il genere degli effetti (non come il padre è causa del figlio, ma come 1‘ ingegnere è causa della macchina), per questa ragione al concetto di Dio, desunto dai rapporti reali che le cose hanno con lui, dobbiamo aggiungere la differenza del suo essere da quello delle cose. E questa differenza, che è l‘elemento più importante, non è per noi che una negazione. Dobbiamo accontentarci di dire che la sua perfezione non è essenzialmente quella delle cose, ma soltanto simile e proporzionale; in sè è infinitamente superiore, trascendente, e sostanzialmente a noi ignota (q. 12, aa. 2, 12).  24 — Ma la nostra cognizione di Dio, sebbene imperfetta, è vera e preziosissima. La dottrina dell‘analogia degli enti, che si estende a tutto il campo dell‘essere, non escluso Dio che è il «Sommo Analogato » dell‘essere e delle perfezioni dell‘essere, è fondata, nel sistema di S. Tommaso, ben più saldamente che nel sistema di Aristotele. Perchè S. Tommaso beneficia della preziosa dottrina della creazione, ignorata o non considerata da Aristotele, secondo la quale ogni ente deriva, da Dio; il molteplice, per quanto vario ed esteso, deriva dall‘ Uno e necessariamente porta nel suo seno la immagine o il vestigio dell‘ Uno: dell‘ Uno com‘ è in se stesso, nella sua natura intima, la quale non può non essere in qualche modo simile ai suoi effetti, poiché causare è rendere altri partecipi del proprio essere, anche se questa partecipazione, ai limiti del creato, non sia più che un‘ombra (I, q. 44; q. 4S., a. 7; q. 93).  Pertanto nella nostra conoscenza di Dio la via remotionis et negationis, deve integrare le vie causalitatis ad excellentrae perché mette in più chiara evidenza la radicale distinzione di Dio da ogni cosa creata, togliendoci la tentazione di confonderlo con l‘essere vago e astratto che si trova, come realtà universalissima, nella mente, quando fonde in concetti semplici le differenze delle cose, o le considera come enti. Pensatori valenti, antichi e moderni, hanno fatto questa deplorevole confusione. Per questo S. Tommaso insiste su questo aspetto negativo della nostra conoscenza di Dio: « Di lui — egli scrive — sappiamo piuttosto ciò che non è, anziché ciò che è» (q. 3, prol.) ; e mai così bene — egli nota — noi pensiamo di Dio, come quando lo distinguiamo da tutte lo cose create, negando energicamente che Egli sia qualcosa di identico ad esse. Così il pensiero di S. Tommaso armonizza profondamente, nella sua metafisica evidenza, con quanto definisce il Concilio Lateranense IV: « Tra Dio e la creatura non si può notare una somiglianza tanto grande, senza notare, insieme, una dissomiglianza ancora più grande» (cfr. DENZ., 132).  

S. Tommaso rigetta entrambi gli opposti errori dell‘agnosticismo e dell‘antropomorfismo ma se potesse avere una preferenza tra due errori, sarebbe certo per l‘agnosticismo, tanta è la sua preoccupazione di non materializzare l‘essere divino, per sè sussistente (q. 13, a. 5.). Per cui l‘Angelico ritiene « più alta e più sicura» la via negationis, per arrivare alla cognizione propria di Dio, finché noi siamo in terra. Così infatti scrive nella  (3 Cont. Gent., c. 39:  «Oltre la conoscenza di cui si è parlato, ve n‘ è un‘altra più alta, che si ha di Dio per mezzo di dimostrazione, con la quale ci avviciniamo meglio alla cognizione propria di lui. Infatti mediante la dimostrazione si rimuovono da lui molte cose, per cui riusciamo ad intendono distinto dagli altri. Con la dimostrazione si fa chiaro come Dio sia immobile, eterno, incorporeo, semplice, del tutto unico, e dotato di simili proprietà che già abbiamo veduto. Ora si giunge alla cognizione proprio. di una cosa non solo per la via delle affermazioni, ma anche per quella delle negazioni; poiché se è cosa propria dell‘uomo essere animale ragionevole, così è proprietà di lui ancora non essere inanimato, né irragionevole; ma questa è la differenza fra i due modi di conoscenza, che avuta la conoscenza propria di una cosa medi ante le affermazioni. si sa che cosa sia, [positivamente] la cosa, e come sia distinta dalle altre; invece avendo la conoscenza propria della cosa mediante le negazioni) sì sa come sia distinta dalle altre, ma ci resta sconosciuto qua! che è in se stessa. Tale è la cognizione propria di Dio che acquistiamo con le dimostrazioni».  2 — Questa teologia negativa si distingue però radicalmente da quella dei neoplatonici, i quali insegnavano l‘ incapacità assoluta della mente umana a determinare qualsiasi cosa circa Dio; e da quella, affine e peggiore, del movimento teologico eterodosso capitanato da Barth, ispirato alla concezione pessimistica di un decadimento irrimediabile della ragion umana per la colpa d‘origine, per cui Dio e i misteri divini in nessun modo sarebbero esprimibili in concetti umani. Infatti la teologia negativa di S. Tommaso ci notifica qualche cosa di ben prezioso circa Dio, e cioè la sua distinzione o separazione netta dalle cose. E così viene perfezionata I‘ imperfetta cognizione positiva che dì lui possiamo avere per la via della causalità, per la quale lo determiniamo mediante concetti che sono analogicamente comuni a Dio e alle creature L‘elemento dissomiglianza, che è incluso nei concetti analogici, non potendo noi determinano positivamente in sè, lo determiniamo negativamente, in rapporto sempre alle creature, col vantaggio prezioso di evitare lo scoglio panteistico e di conservare Dio in tutta la sua trascendenza. senza tuttavia cadere nell‘agnosticismo.  Da notare infine che, pur nell‘ambito della fede cattolica, altri teologi sono meno energici nel rilevare la distinzione dei due ordini di conoscenza: ordine increato essenzialmente divino e in sè a noi inconoscibile coi mezzi naturali, e ordine creato proporzionato alla nostra facoltà intellettiva. Infatti l‘ente creato è concepito da alcuni piuttosto univocamente all‘ente increato (Scoto); oppure l‘analogia è definita più per l‘elemento di somiglianza (Suarez) che per l‘elemento di dissomiglianza, come invece fa abitualmente e nei rapporti tra l‘ente creato e Dio in modo speciale, S. Tommaso.  

di P.Tito S. Centi  e P. Angelo Z.

mercoledì 10 novembre 2021

ESISTENZA E NATURA DI DIO - Il primato dell‘essere e dell‘ intelletto.

 


Il primato dell‘essere e dell‘ intelletto.  


21 — Notiamo ancora che l‘Angelico, pur accettando quale verità indiscutibile e valorizzando molto la nozione di Dio come Sommo Bene (cfr. I, q. 6; q. 19, a. 2;.III, q. I, a. 1; q. 23, a. 1; q. 75., a. 1....), preferisce (distinguendosi in questo dalle correnti teologiche più ispirate al Platonismo), come concetto sintetico massimamente comprensivo, quello di Essere sussistente. Perché il concetto di essere, come concetto, gli appare più universale di quello di bene (q. S., a. 2); e la facoltà intellettiva, che ha come suo proprio oggetto l‘essere, primeggia sulla volontà che ha come suo proprio oggetto il bene; il quale non muove la volontà se non in quanto conosciuto dall‘intelletto. E da questo pertanto, la volontà, pur essendo prima nell‘ordine dell‘efficienza (I, q. 82, a. 4), riceve nell‘ordine della causalità finale e formale la sua specifica determinazione. Sicché, assolutamente parlando — essendo ìl fine la prima delle cause — l‘intelletto precede la volontà e la dirige (I, q. 82, a. 3). Anzi ogni volontà emana dall‘ intelligenza come da suo principio (I, q. 19, a. 1; q. 27, a. 3; q. 59, a. 1; q. 80, a. 1); e il suo atto libero è tutto impregnato della luce intellettiva, ed è intimamente connesso all‘esercizio del raziocinio (I, q. 83).  Tuttavia, realista sino in fondo, l‘Angelico — proprio in forza dei principi or ora accennati circa l‘oggetto proprio della nostra intelligenza e il modo di procedere di essa nel suo atto, e la conseguente imperfezione della nostra conoscenza di Dio — stabilisce che è cosa migliore amare Dio, specialmente in questa vita, che conoscerlo, ossia che, trattandosi di questo supremo oggetto dell‘amore, amare vai meglio che conoscere; e la carità, la quale è nella volontà come forza impulsiva ad amare Dio com‘ è in sè, è più alta e nobile virtù, che la, fede, la quale è nell‘ intelletto e ci fa conoscere Dio soltanto imperfettamente nelle analogie dell‘ente creato. L‘amore infatti, spiega S. Tommaso, procede dalla conoscenza, ma fa un percorso inverso: l‘intelletto conosce traendo a sè le cose, la volontà invece tende alle cose conosciute per possederle in se stesse. Sicchè l‘intelletto, conoscendo Dio, lo abbassa al suo livello (quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur), mentre il moto dell‘amore tende a superare questo limite per possedere Dio com‘è in sè; il suo desiderio non si appaga ma si acuisce e non lascia tregua all‘ intelletto (cfr. p. 247, nota 3; II-II, q. 27, a. 4; De Verit., q. I, a. II, ad 6).  «L‘amore di Dio, quindi, è qualcosa di più grande — maius aliquid — che la conoscenza di Dio, specialmente nello stato di via », in cui ci troviamo finché viviamo su questa terra (II-II, ivi, ad 2). Presuppone tuttavia la conoscenza di Dio, la quale ne rende possibile l‘amore; e la conoscenza stessa riprenderà il suo posto di primato, anche nei rapporti con Dio, però non del tutto, nel termine della via, in Patria: quando l‘intelligenza fornirà alla volontà il possesso pieno del Sommo Bene, a cui la volontà anela; non più inseguendolo nelle ombre, ma vedendolo svelatamente faccia a faccia (I, q. 12, a. 10; I-II, q. 3, a. 4).  

Questa dottrina — del primato dell‘intelligenza — ci permette di salvare con più evidenza la libertà di Dio nella sua azione creatrice e in tutte le opere ad extra, contro il pericoloso determinismo naturale dei Neoplatonici, e contro quello psicologico, che ebbe più tardi ‗la sua formazione nell‘ottimismo di Leibnitz. Tra l‘essere di Dio, della cui bontà sono partecipazione le creature, e la volontà che, per il suo stesso impulso verso il bene, tende naturalmente a comunicare la bontà, sta di mezzo, regolatrice, 1‘ intelligenza, la facoltà che ricerca l‘armonia; e ad essa spetta scegliere i fini e proporzionare i mezzi ai fini. L‘essere, quindi, e l‘ordine delle cose create, è fatto anzitutto dall‘ intelligenza, alla quale segue la scelta del volere (I, q. 14, a. 8; q. 19, a. 4). Il fine, che Dio si prefigge nelle opere esteriori, essendo la bontà divina partecipata e manifestata, appare chiara la libertà assoluta dell‘atto creatore, poichè la bontà di Dio‘ — per sè sussistente come il suo essere col quale coincide — è pienezza infinita che nulla riceve dalle creature, e resta sempre‘ infinitamente distante da tutte le sue possibili partecipazioni, realizzabili nelle creature (cfr. I, q. 19, a. 10; q. 25., a. 6).  L‘essere sussistente, che agisce per intelletto, non può non essere libero circa i beni, che non sono la sua stessa essenza (I, q. 19, a. 3); e se si vuole parlare di necessità divina nel creare, conservare e governare le creature, si deve intendere di una necessità non assoluta, ma di supposizione; supponendo, cioè, che Dio le voglia, non potrebbe non volerlo, data la sua assoluta immutabilità (I, q. 19, a. 3).  22 — In forza dei cinque suddetti attributi che culminano e si condensano nel concetto di « Essere sussistente », S. Tommaso esclude sin dal principio ogni possibilità che Dio venga panteisticamente confuso con qualsiasi ente creato o parte di ente creato (cfr. q. 3). Tra l‘ « Essere per sè sussistente» — pienezza di perfezione e massima semplicità (q. 4), atto puro di perfezione — e gli enti per partecipazione, che non sono l‘essere, ma partecipano l‘essere — composti‘ quindi, nel loro stesso nucleo costitutivo, da due elementi distinti e proporzionati, uno limitante (potenza, essenza) l‘altro limitato, ma conferente la reale perfezione (atto, esistenza) — la distinzione è radicale e irriducibile. L‘ Essere sussistente, appunto perchè ‗atto puro, tutto omogeneo in sè, non è che uno e immoltiplicabile (q. II); è necessario, pienezza simultanea di totale perfezione ossia eterno (cfr. q. 10), semplicità assoluta, senza possibili distinzioni reali (q. 3), assolutamente immune da qualsiasi forma di mutamento (q. 9), causa creante di tutto l‘essere (I, q. 44). Mentre l‘essere per partecipazione è moltiplicabile, è contingente e limitato, è mutevole, bisognoso di essere sorretto dall‘onnipotenza di lui, appunto perchè nel suo nucleo costitutivo non è atto puro, tutto in sè omogeneo, ma composizione reale di potenza ed atto insieme: due elementi distinti, non separabili, ma condizionantisi a vicenda. Ogni possibile ente che non sia Dio, non può essere se non così. Questi due concetti nella dottrina di S. Tommaso (Dio Essere per sè sussistente, nel quale si identificano essenza ed esistenza; le creature = enti per partecipazione, realmente composti di essenza e di esistenza) riassumono tutto ciò che appartiene a Dio come tale è alle creature come tali. Così l‘elemento distintivo, per cui i due mondi — l‘increato e il creato — sono irriducibili, è intrinseco a Dio e agli enti creati, e non semplice predicato estrinseco.  Questa visione metafisica è così una forte base per escludere qualsiasi forma di panteismo, e altresì per affermare energicamente la distinzione tra l‘ordine naturale e l‘ordine soprannaturale (cfr. n. 17 in fine).  

di P.Tito S. Centi  e P. Angelo Z.

mercoledì 3 novembre 2021

ESISTENZA E NATURA DI DIO

 


Riassunto delle cinque vie. 


 18 — Le cinque prove esposte da S. Tommaso — e si potrebbe anche dire la prova, poichè in realtà esse formano una sola prova — partono da cinque aspetti essenziali della realtà, quale cade sotto la nostra immediata conoscenza; aspetti che non è possibile intendere perfettamente senza affermare l‘esistenza di un principio supremo, che è ragione prima e fondamento della loro esistenza. Le cose, infatti, che cadono sotto la nostra immediata percezione — oggetto quindi della nostra esperienza sia interna che esterna — e che 1‘ intelletto tende a penetrare nella loro natura reale e profonda e nella loro ragion d‘essere, presentano, considerate sotto i vari aspetti e di fronte alle diverse causalità, queste caratteristiche:  a) non sono immutabili, ma soggette a mutamento, tendono cioè al possesso della loro naturale perfezione acquistandola progressivamente: sono potenza che passa all‘atto (considerazione secondo la causalità materiale — 1a Via);  b) agiscono e reagiscono le une sulle altre, producendosi e conservandosi nell‘essere une e le altre (considerazione secondo la causalità efficiente — 2 Via);  c) non esistono necessariamente, ma possono essere e non essere; infatti cominciano ad esistere e cessano di esistere (Considerazione secondo la causalità formale intrinseca — 3a Via);  d) sono multiformi e realizzano gradi diversi di perfezione, una maggiore dell‘altra (considerazione secondo la causalità formale estrinseca o causa esemplare — 4a Via);  

e) infine nel loro mutarsi e nei loro agire non operano a caso, ma tendono a fini determinati, realizzando in sè e nell‘universo l‘ordine e la bellezza (considerazione secondo la causa finale — S.a Via). (Cfr. per queste varie causalità il Diz. Tom.). Ora se si vuole dar ragione dell‘esistenza delle cose e renderle intelligibili, sotto qualunque di questi aspetti o punti di vista si considerino, si è costretti a salire fino a un Primo e Incondizionato che tutti chiamano Dio. Né solo il complesso delle cose, ma ogni singola cosa verifica in sè quelle proprietà, sicché anche da un solo frammento, per così dire, di realtà esistente, possono irraggiare le cinque vie, che conducono la mente a Dio.  19 — E‘ merito di S. Tommaso l‘aver trovato uno schema scientifico delle prove di Dio così vasto e completo, che abbraccia e include in sè ogni altra prova scientifica. Le prove infatti, che si danno da altri autori — come quella, p. es., che parte dalle verità eterne esistenti nella nostra mente; quella che parte dalla legge morale stampata nel cuore dell‘uomo; quella che considera l‘origine della vita, della religione, ecc. — non è difficile vederle come particolari applicazioni delle prove tomiste, poiché il nerbo della loro forza consiste nel fatto che tali realtà non hanno in se stesse e nell‘uomo la ragione o causa del loro essere; e perciò necessariamente devono averla in un altro essere, cioè in Dio. Da profondo filosofo Tommaso si è attenuto alle cinque forme di cause che esprimono gli aspetti essenziali di tutte le cose soggette alla nostra esperienza, come di qualsiasi altra possibile, e dalle quali è legittimo partire per una completa intelligenza della realtà. Questa intelligenza non si trova se non nel primo principio, che tutti intendiamo quando diciamo Dio.  All‘Angelico importava — come teologo — stabilire metodicamente, per antitesi, un complesso di attributi divini che contengono in germe tutta la teodicea e possono per analogia illuminare a noi la stessa Rivelazione soprannaturale, giacché questa è fatta a noi per il tramite di nuove analogie, desunte anch‘esse dalla natura creata. S. Tommaso non dimentica, anzi ne fa un principio ricchissimo di applicazioni, che la grazia suppone la natura e sulla natura si modella, e sa che la prima manifestazione di Dio (come la chiama S. Paolo, Rom., 1, 19) si ha per il tramite delle cose create, le cui essenze formano l‘oggetto proprio della nostra mente. E‘ questo soggetto di conoscenza proprio e connaturale, che ci deve per primo mettere in contatto con Dio; e Dio stesso non potrebbe fare a meno di seguire questa via nelle sue ulteriori manifestazioni, fino a che siamo pellegrini in terra, senza ricorrere al miracolo. Egli i rivela perciò necessariamente in speculo et in in enigmate, cioè nell‘ombra delle creature, «perchè ogni nostra conoscenza trae origine dal senso», « e il raggio divino della verità non può risplendere su di noi altrimenti che attraverso la varietà dei santi veli » che sono lo cose create, secondo Dionigi, (q. I, a. 9).  Così il mondo, imperfetta ma reale manifestazione di Dio, ci porta ad affermarlo come Primo Motore, nel pieno immutabile possesso dì tutta la sua perfezione, senza potenzialità, senza   cioè dover tendere in nessun modo ad essa e senza la possibilità di perderla (1 prova); come Prima Causa efficiente incausata, sorreggente con la sua efficienza infinita tutte le efficienze, fonte eminente di tutte le attività (2 prova); ci porta ad affermarlo semplicissimo e totalmente omogeneo in sè, senza distinzioni intrinseche di essenza e di esistenza, di attributi e di natura: pura essenza, pura esistenza, atto puro; necessariamente esistente (3 prova) ; Causa esemplare unica, suprema, sommamente perfetta di tutte le cose, la cui maggiore o minore perfezione consiste nel grado di maggiore o minore vicinanza che hanno con lui (4 prova); come Finalizzatore di tutte le cose, Intelligenza Suprema e Suprema Bontà, che tutto intende, nella comprensione di se stesso e tutto ordina, e attrae a sè (5.a prova).  Questo complesso di attributi divini è preziosissimo nel patrimonio della nostra conoscenza. Per avere una compiuta definizione reale della natura di Dio, quale si può ottenere da noi, basterà elaborarne sistematicamente e coerentemente il contenuto implicito ricchissimo. Essi costituiscono nell‘ordine della ricerca di questa ulteriore determinazione della natura di Dio (come S. Tommaso documenta nelle questioni 3 e ss. della Somma) il criterio decisivo di quanto si afferma o si nega di lui secondo ragione.  

E si arriva al concetto più comprensivo che noi possiamo farci della Causa Prima: «L‘essere per sè sussistente » — esse per se subsistens —; concetto che ci illumina poi a sua volta più intrinsecamente tutti gli attributi di Dio, manifestandoci la ragione intima del loro dover essere. Questa nozione equivale a quella di S. Anselmo: «id quo maius cogitari non potest» (l‘ente di cui non si può pensare il più grande, Proslogiom, e. 1); ma la supera per precisione metafisica (cfr. q. 3, a. 4; q. 13, a. II).  E non è vero che per elaborare questo concetto S. Tommaso — come lo accusa Kant — lasci da parte le sue prove cosmologiche e teleologiche subito dopo il primo passo, e vada in traccia di meri concetti a priori con cui determinare, fuori della realtà, la causa necessaria, a cui portavano quelle prove (cfr. Critica della Ragion Pura, trad. di G. Gentile e O. Lombardo Radice, II, pp. 133 ss.). Il concetto nuovo non è se non l‘enucleazione realistica, analitica, dei concetti stessi di Motore Primo immobile, Causa Prima incausata, Ente necessario, massimamente perfetto, intelligenza suprema finalizzatrice, ai quali conducono le prove cosmologiche.  L‘ente, che possiede tali attributi deve escludere da sè tutti i caratteri d‘imperfezione che hanno le cose dell‘universo e lo stesso universo nel suo insieme; escludere la composizione, la contingenza, la finitezza, la potenzialità. Deve essere l‘ente realissimo — id quo maius cogitari non potest — includente tutte le perfezioni senza limiti. E poichè dire perfezione è dire essere,  Egli necessariamente è «l‘Essere sussistente — Esse subsistens ». Ma questo concetto, ben lungi dall‘essere il nerbus probandi, come pretende Kant (ivi), è il termine a cui arriva la mente, procedendo nella penetrazione di quegli attributi senza che nulla di soggettivo, o di a priori, immetta nella sua sintesi, camminando su terreno reale e sodo; giacché reale è il mondo da cui si è partiti, reale quindi ne è la causa, e reale è conseguentemente la perfezione che necessariamente la costituisce come causa del mondo (cfr. q. 12 a. 12). Le critiche di Kant provengono dal concettualismo, che è la sua dottrina gnoseologica; ma non mordono ìl realistico processo tomista, se non supponendo vera quella errata dottrina.  20 — Questa essenziale esclusiva proprietà di Dio — Essere pèer sè sussistente — illumina, lontano lontano, le tesi principali della teologia tomista; giacché S. Tommaso se ne servirà per provare la necessità che ogni ente sia creato da Dio, non esclusa la materia prima (I, q. 44, aa. 1, 2), e la totale dipendenza da lui di tutti gli enti creati, non esclusa la libera volontà dell‘uomo; poichè, essendo ogni creatura ente per partecipazione, è impossibile che possa non dipendere dall‘ Essere per essenza. Questi, perciò, tutto conosce nella sua essenza e causalità; la sua scienza è scienza di artefice, causatrice dello cose (I, q. 14, a. 8), non presuppone a sè nessun ente reale o logico; non dipende assolutamente da nessuno, ma ogni cosa dipende assolutamente e totalmente da lui. E creatore di tutto l‘essere delle cose, prima Causa in ogni genere di causalità, tranne la causalità materiale e la forma intrinseca, perchè egli non può entrare in composizione con nessuna cosa, essendo atto puro (cfr. q. 3, a. 8); muove ogni cosa al suo fine (I, q. 22; q. 103); è causa prima anche del nostro conoscere e del nostro volere (I, q. 10S., aa. 3-S.) ; predestina l‘uomo gratuitamente; e sono doni suoi anche i meriti che l‘uomo realmente acquista con la sua grazia (I, q. 23, a. 5.); la sua mozione e la sua grazia sono efficaci, pur nel muovere la libera volontà, di per se stesse, non per dipendenza da qualsiasi atto della creatura (cfr. I, q. 22, aa. 2, 4; q. 23, a. 6; q. 103, aa. 7, 8).  E questo appunto perchè è la prima Causa Incausata, la prima Intelligenza sempre in atto dì intellezione, l‘Essere sussistente. Prima della sua azione creatrice non vi può essere cosa alcuna; solo dopo di lui, per dipendenza da lui, esiste ogni essere partecipato, il quale persiste nell‘esistenza e opera unicamente perchè sospeso alla sua azione conservatrice e motrice (I, qq. 104, 105.).  

Tutte queste tesi, e altre molte nella dottrina di S. Tommaso, sono connesse e contenute in quel concetto fondamentale di Dio, come conseguenze implicite nel loro principio. Si potranno forse mettere in discussione tali dottrine in se stesse, ma non il fatto della loro stretta coerenza coi principi della teologia tomistica; la quale si muove in un processo razionale meravigliosamente concatenato, non per mezzo di sillogismi, solo formalmente costruiti, ma per nessi reali, imposti dall‘essere.

di P.Tito S. Centi  e P. Angelo Z.

giovedì 23 settembre 2021

ESISTENZA E NATURA DI DIO

 


Il punto di partenza delle cinque vie e la sua importanza.

14 — Con le famose cinque vie dell‘art. 3, l‘Aquinate conclude cinque attributi esclusivamente appartenenti a Dio come Principio di tutte le cose; i quali, confermati nella piena luce della Rivelazione, gli serviranno per stabilire organicamente, secondo uno stretto ordine logico metafisico, « quomodo Deus sit» o piuttosto «quomodo Deus non sit»: e cioè che Dio non può esser corpo, nè avere in sè mistura di materia, né di composizioni qualsiasi: tutto pura sostanza senza accidenti, semplicità assoluta, cui ripugna entrare in combinazione con qualsiasi essere (q. 3).  Giova riassumere a brevi tratti il procedimento seguito da S. Tommaso nel determinare la natura di Dio. In tal modo risalterà meglio la stretta unità di tutto il trattato, e insieme la ricchezza filosofico-teologica del suo contenuto.  

Il metodo di S. Tommaso è rigorosamente logico, e sempre strettamente coerente ai principi della sua filosofia, innalzandosi gradualmente a un concetto di Dio massimamente comprensivo; il quale concetto illumina in seguito tutte le questioni studiate. E‘ questo, infatti, il modo connaturale di procedere della nostra mente, la quale nella sua attività conoscitiva passa dal generale al particolare, dall‘ indeterminato al determinato, « procede, cioè, dalla potenza all‘atto, e quindi perviene a un atto di conoscenza incompleto, prima che a un atto completo. L‘atto perfetto a cui perviene la mente è la scienza completa, per cui le cose si conoscono distintamente e determinatamente: mentre l‘atto incompleto è la scienza imperfetta, che ci fa conoscere le cose in modo indistinto sotto una certa quale confusione» (cfr. I, q. 85., a. 3). C‘è quindi in noi una conoscenza imperfetta e incompleta prima che una conoscenza perfetta e completa.  Così avviene anche nella conoscenza di Dio. L‘idea che ci sta dinanzi alla mente, quando cominciamo a speculare di lui e ci domandiamo anzitutto se esista nella realtà, è un‘idea massimamente indeterminata. Si parte da una definizione nominale (cfr. q. 2, a. 2, ad 2), e non si procede analizzando l‘idea, molto povera, che ne abbiamo; perchè oggetto della mente non è l‘idea (so non per riflessione), ma la realtà, che l‘idea rende presente all‘intelletto. E il peccato originale del famoso argomento di S.. Anselmo, quello di procedere dall‘idea, che la mente può farsi di Dio, come « ente di cui non si può pensare uno più grande», per arguirne l‘esistenza. S. Tommaso lo rigetta, perchè, per quanto perfetta ne sia l‘idea, « l‘ente di cui non sì può pensare uno più grande» resterebbe pur sempre « in apprehensione intellectus tantum », avrebbe cioè soltanto una esistenza pensata, non mai un‘esistenza realizzata, in sè, «in rerum natura », se non si concede già che un tale Ente esiste «in rerum natura»; il che non è concesso dall‘ateo (cfr. q. 2, a. 1, ad2).  15. — Se si tratta dell‘attività naturale della mente, oggetto proprio di essa, condizionante ogni sua ulteriore cognizione anche circa le cose spirituali e Dio stesso, sono le essenze dello cose fisiche. La nostra anima, essendo forma, ossia comprincipio sostanziale di un corpo fisico, è in contatto con l‘essere fisico o sensibile; e soltanto in esso le è dato di speculare l‘universalità dell‘ente. L‘anima è spirito, ma vivente e operante nel mondo fisico, fornita, per la sua attività specifica, di uno strumento corporeo da lei vivificato e reso sensibile all‘ impressione delle cose nell‘organo dei sensi. Non le piovono dall‘alta idee divine comprensive ed esistenziali, ma se le elabora essa stessa partendo dai dati concreti che i sensi interni, in continuità coi sensi esterni (e questi in contatto con la realtà fisica) forniscono alla sua facoltà operativa per eccellenza, l‘intelletto agente (cfr. Diz. Tom.; I, q. 84).  È reale ed esistente ciò che ha rapporti reali, e non solo pensati, con la realtà esistente, che per noi è anzitutto il nostro essere e le cose che ne circondano.  La mente umana da principio è tabula rasa.... un foglio bianco su cui nulla è scritto. Non ha idee, ma solo ‗la capacità di formarsene. E se le forma con la sua attività, ma a contatto con le cose realmente esistenti, modellandosi su di esse. E vero: le cose tra cui viviamo, e il nostro stesso essere sostanziale, non hanno i caratteri che hanno le idee. Le idee infatti sono universali, mentre nulla di universale esiste fuori della nostra mente. Nè potrebbero le cose fisiche nella loro materialità venire di per se stesse a contatto immediato con la intelligenza e operare su di essa, perchè è immateriale. Ma l‘anima ha a suo servizio i sensi esterni, che sono facoltà proporzionate alle cose fisiche, essendo legate a un organo corporeo. E‘ questa, anzi, la ragione più profonda, perchè l‘anima, pur essendo spirituale, è principio vivificante di un organismo corporeo; non incarcerata in esso per fantastiche colpe commesse in esistenze anteriori quale pura forma, come immaginava Platone; ma dotata di esso, in unità stretta di natura, per formare una sola sostanza completa capace di operare il contatto con le cose esistenti del mondo fisico, che è il territorio nel quale si realizza l‘essere connaturale a lei, di cui deve vivere assimilandoselo nell‘attività del pensiero.  

Le cose fisiche sebbene materiali, par ticolari, contingenti, incarnano un‘idea: sono fatte dal Logos e secondo il Logos, per manifestare il Logos (cfr. I, q. 44. aa. 1-4). E per questo possono alimentare la nostra vita intellettiva, e portarci fino a una certa conoscenza dello stesso Dio, il quale in esse in qualche modo si rispecchia. Sotto 1‘ influsso di una speciale facoltà spirituale (detta intelletto attivo; cfr. I, q. 79, aa. 3-li) I‘ immagine sensibile delle cose, già in certo modo smaterializzata nei sensi interni, rivela I‘ idea che si cela come incarnata nella materia. Possiamo paragonare questa facoltà al filtro selettore di un apparecchio radio. Dalla congerie caotica delle onde hertziane che percorrono gli spazi, il filtro seleziona e rileva le inoculazioni, che quelle onde ebbero alla loro origine, sicché risuonino nell‘apparecchio in suoni distinti e precisi, quali segni dell‘intelligenza che le ha modulate. Similmente l‘intelletto attivo fa con le cose venute a contatto dell‘anima: filtra l‘idea che contengono e la rende manifesta. E solo allora l‘intelletto intende e gode, quando ha colto l‘elemento intelligibile, cioè l‘essere ideale che la cosa incarna e da cui è plasmata, e, per così dire, modellata in tutte le sue parti.  Le cose materiali, dunque, per quanto affoghino 1‘ idea nella materia, sono nondimeno intelligibili (lo sono in potenza, dicono gli Scolastici), e l‘intelletto è in grado di conoscerle; la sua vita, anzi, sta nell‘assimilarsi la luce spirituale che racchiudono, rifacendo in sè la loro forma, che è l‘elemento intelligibile che le distingue. E così l‘intelletto può conoscere l‘essere del suo proprio mondo con tutte le relazioni che implica.  16 — Né l‘intelletto nostro, nella sua attività naturale, può staccarsi da questo suo mondo fisico, perchè correrebbe il grave rischio di pensare a vuoto e di costruire il suo edificio con enti di ragione. Anche nel far uso delle idee che già possiede, ha bisogno del fantasma che faccia come da corpo all‘idea astratta (cfr. I, q. 84, a. 7). Dalle immagini sensibili, che sono nella fantasia, ha origine la nostra cognizione intellettiva; e le immagini della fantasia, a cui ci si riferisce pensando, sono come un controllo della possibilità, se non della realtà, di ciò che pensiamo. Il fantasma a sua volta è controllato dai sensi esterni in maniera che la connessione col reale è stretta e continua. Perchè l‘essere pensato dalla nostra mente, è l‘essere esistente. — il reale in senso pieno — non il possibile, se non in quanto il possibile deriva dall‘esistente ed ha in esso il suo fondamento. Il possibile, infatti, non è ente in senso pieno; e ci sono enti possibili perchè ci sono enti esistenti e non viceversa. Ogni intelletto è ordinato anzitutto all‘esistente: sia l‘intelletto divino, sia l‘angelico, sia l‘umano; perché la scienza è dell‘essere esistente. « La scienza riguarda anzitutto e principalmente l‘ente esistente in atto » (III, q. 10, a. 3). Campo proprio dell‘intelletto umano, come abbiamo detto, è il mondo fisico, con tutte le relazioni reali che esso implica, le quali sono infinite e portano fino allo stesso Essere infinito per sè sussistente, perchè solo in lui le cose hanno la loro giustificazione.  

Ma proprio perché la filosofia di S. Tommaso fissa bene questo punto (che cioè l‘oggetto dell‘intelletto è l‘esistente, essendo l‘esistenza ciò che vi è di più formale, di più intimo, di più attuale e reale nell‘ente, e ciò che costituisce l‘ente stesso come atto, mentre l‘essenza è potenza ad esso ordinata; cfr. I, q. 3, a. 4; q. 7, a. 1; q. 105., a. S.; De Pot., q. 7, a. 2, ad 9....), evita radicalmente ogni forma di soggettivismo o idealismo; e conclude con le sue prove all‘ Ente realissimo, che non può non esistere, anzi è lo stesso esistere sussistente, poiché tutto l‘ordine delle cose esistenti è sospeso ad esso. L‘ importanza di questa aderenza all‘esistente non si potrebbe esagerare, e S. Tommaso la rileva ogni volta che se ne presenta l‘occasione. « La nostra conoscenza naturale — egli scrive — trae origine dal senso, e quindi si estende fin dove può essere condotta come per mano dalle cose sensibili ». E poichè le cose sensibili sono effetti che non adeguano la potenza della Causa, mediante essi non si può avere il pieno conoscimento della potenza di Dio e perciò neppure quello della sua essenza. « Ma siccome le cose sensibili sono effetti dipendenti dalla loro causa, ne segue che per mezzo di esse possiamo essere condotti fino a conoscere di Dio se esista; a conoscere altresì quello che a lui conviene necessariamente come  causa prima di tutte le cose eccedente tutti i suoi effetti. Quindi noi conosciamo di Dio la sua relazione con le creature, che cioè è la causa di tutte, e la differenza esistente tra esse e lui, che cioè egli non è niente di ciò che è causato da lui; e che tali cose vanno escluse da lui non già perchè egli sia mancante di qualche cosa, ma perché tutte le supera » (q. 12, a. 12).  Questo articolo è fondamentale e stabilisce il processo natura] e della nostra ascensione a Dio in armonia con tutta la filosofia tomista.   17 — Da quanto abbiamo detto si può comprendere perchè le prove dell‘esistenza di Dio per  S. Tommaso non possono essere a priori, partendo da un‘ idea ed analizzandone il contenuto, ma solo a posteriori, partendo da effetti realmente esistenti. In questo del resto egli è perfettamente in armonia con la Scrittura (Sap,, 13,1-9; Rom., 1,20), e con le definizioni della Chiesa (Conc. Vat. I, cfr. DENZ., 1785.), che non indicano, come argomento dimostrativo dell‘esistenza di Dio, se non quello che va dagli effetti alla causa: « per ea quae farla sunt ».  Il contenuto di un‘ idea esprime l‘essenza di una cosa, ma non ne possiede l‘esistenza, la quale è distinta realmente dagli elementi di un‘essenza ed in qualche modo estrinseca ad essi. Per S. Tommaso questa è la verità fondamentale. In Dio, è vero, essenza ed esistenza coincidono perfettamente. Egli è 1‘ Essere per sè sussistente. Ma questo concetto che è il più alto e più sintetico, a cui perviene S. Tommaso (cfr. q. 3, a. 4), non è nè può essere un punto di partenza nella via della ricerca (via inventìonis), ma punto di arrivo. Suppone dunque che l‘esistenza reale di Dio sia data a noi da un‘altra fonte. Soltanto nella via iudicii, cioè quando procediamo a unificare e chiarire tutte le nostre cognizioni su Dio, quel concetto diventa principio illuminante e sorgente di un più perfetto sapere, in quanto ci manifesta la ragione intrinseca di tutto ciò che affermiamo e neghiamo di lui.  Per questa aderenza al reale la posizione di S. Tommaso è altresì lontanissima dalle pretese degli Ontologisti (p. es., di Malebranche e di Gioberti), i quali ingenuamente ritenevano che la nostra mente sia in contatto conoscitivo immediato con  1‘ Essere per sè sussistente, fin dalla prima attività intellettiva, affermando che « il primo logico (ossia il primo ente da noi conosciuto) è anche il primo ontologico (ossia il primo esistente) », per cui provare l‘esistenza di Dio sarebbe fatica superflua. Nell‘ordine della nostra cognizione prima sono le cose sensibili, poi Dio; prima i suoi effetti, proporzionati alla nostra forza intellettiva, poi la loro causa. Sebbene nèll‘ordine dell‘essere sia il contrario — prima la causa, poi gli effetti —, nell‘ordine del nostro conoscere è così; e il pensiero dell‘uomo è veramente, in questo ordine, il centro dell‘universo; non nel senso inteso dagli idealisti, quasi crei e ponga esso stesso la realtà delle cose: ma nel senso vero e giusto inteso da S. Tommaso, in quanto è il pensiero nostro che fa l‘ordine nella cognizione, procedendo dal più noto al meno noto, e collegando le cose conosciute secondo un ordine connaturale alla mente umana. E tuttavia la mente è perfettamente consapevole che l‘ordine del suo conoscere (ordine logico) non coincide con l‘ordine dell‘essere (ordine ontologico) ; nè la scienza logica, che si occupa del primo, coincide con la metafisica che studia il secondo (mentre per gli Hegeliani queste due discipline si confondono). E per questo la sua cognizione può essere vera, nonostante l‘ordine inverso.  Sono gli effetti di Dio, ossia le cose sensibili soggette alla nostra esperienza, che illuminano per noi l‘esistenza di Dio e gli attributi conoscibili di lui, come dice S. Paolo (1. c.). La nostra mente è come l‘esploratore delle sorgenti di un fiume, il quale è costretto a risalirne la corrente.  

Nè si deve pensare che, così procedendo, si arrivi ad un concetto di Dio troppo misero. Certo non si giunge, nè si può giungere, con tale naturale processo, a conoscerne l‘essenza intima con un concetto del tutto positivo, che ci manifesti immediatamente ciò che egli è; ma si giunge a un concetto in parte positivo, in parte negativo, legato sempre agli effetti deficienti, da cui la mente è partita: si giunge a un concetto analogo di Dio, per dirlo con una parola tecnica (cfr. Diz. Tom.). Esso però è preziosissimo, sia per quello che manifesta, sia per quello che nasconde, rendendoci Dio conosciuto insieme e sconosciuto, poiché ci orienta sicuramente verso di lui, eccitando, per la sua stessa imperfezione, il desiderio di meglio conoscerlo, e conferendo al nostro amore, che brama di vederlo come è in se stesso, un valore più grande ancora che quello della cognizione (cfr. nn. 24-25.), e lasciando adito ad altre superiori manifestazioni divine: quelle della fede; e preparandoci alla visione intuitiva e facciale della divina essenza, quando, per somma grazia « vedremo Dio come egli è » (la Giov., 3,2): non più, quindi, nello specchio oscuro delle cose per speculum in aenigmate — ma a faccia a faccia — facie ad faciem —, come si esprime S. Paolo (1 Cor., 13,12).  Così S. Tommaso, partendo dalla natura, può distinguere nettamente da essa l‘ordine soprannaturale dando risalto alla gratuità assoluta della Rivelazione e della nostra elevazione all‘ordine della grazia, mentre nel contempo ne mostra l‘armonia profonda con la nostra natura. Elemento questo preziosissimo della speculazione tomista, di cui ha fatto tesoro tutta la speculazione teologica seguente, e che la Chiesa ha custodito gelosamente come sua dottrina, contenuta nel deposito della fede. L‘aver così ben fondata questa distinzione è merito precipuo dì  s. Tommaso; che appare veramente grande quando sì confronta il modo meno preciso o indeciso di pensare, su questo punto vitale, dei pensatori anteriori a lui. 

di P.Tito S. Centi  e P. Angelo Z.

domenica 19 settembre 2021

ESISTENZA E NATURA DI DIO

 


Le questioni riguardanti l‘esistenza di Dio. 

12 — E‘ così che S. Tommaso enuclea le verità circa l‘essenza di Dio, alla luce della Rivelazione ordinandole in modo che esse offrano di lui il più alto e pieno concetto.  

Definita la questione proemiale circa la natura dalla sacra Dottrina, su cui abbiamo creduto opportuno dare qualche cenno (q. 1), l‘Angelico propone la divisione di tutta la teologia (cfr. q. 2). La Prima Parte la suddivide in tre grandi trattati:  1) il trattato che studia l‘essenza di Dio; 2) il trattato che studia la distinzione delle Persone; 3) il trattato che studia l‘opera creatrice di Dio.  A noi interessa il primo trattato, il quale viene a sua volta suddiviso nelle seguenti questioni: a) se Dio esista; b) come sia in se stesso o piuttosto, nota S. Tommaso, come non sia; e) quale attività abbia in se stesso, ossia della scienza di Dio, della sua volontà e della sua potenza.  La questione dell‘esistenza di Dio si svolge in tre articoli di importanza filosofica, oltrechè teologica, grandissima. La teologia evidentemente suppone l‘esistenza del suo oggetto e dei suoi principi e non avrebbe da dimostrarli. Ma intorno al problema di Dio tali e tante sono state nei secoli le lotte della ragione pro e contro, che il teologo non potrebbe dispensarsi dal precisare i punti chiari e definiti, sia dalla filosofia, sia soprattutto dall‘ insegnamento rivelato. Il quale insegnamento, dichiarando la ragione umana in grado di dimostrare l‘esistenza di Dio, entra nel vivo campo della filosofia stessa, su cui pertanto il teologo ha da dire, anche come teologo, la sua parola. E d‘altra parte, essendo la teologia scienza suprema, non potrebbe affidare ad altre scienze la difesa dei suoi fondamenti, ma deve provvedervi da sè, disputando contro chi li combatte: «argomentando dai suoi principi, se l‘avversario ammette qualcuna delle verità rivelate, come si fa contro gli eretici; limitandosi a sciogliere gli argomenti dell‘avversario, se costui niente crede di ciò che si ha per rivelazione. E‘ chiaro infatti che poggiando la fede sulla infallibile verità divina, ed essendo impossibile dare dimostrazione contraria al vero, ogni prova che si porti contro la fede non è una dimostrazione, ma un argomento solvibile» (q. I, a. 8).  Le tre questioni riguardanti l‘esistenza di Dio sono: 1) se l‘esistenza di Dio sia una verità per se nota, in modo che ogni dimostrazione sia superflua; 2) se l‘esistenza di Dio sia dimostrabile in senso stretto; 3) con quali argomenti si provi l‘esistenza di‘ Dio.  Nel trattare questi tre punti S. Tommaso usa abbondantemente e genialmente ragioni filosofiche, ma l‘ispirazione della dottrina è rigorosamente teologica, giacché S. Tommaso specula alla luce dolla parola ispirata, espressa in Sap., 13, 1-9; Sal. 13S.; Rom, 1,20; Es., 3,14. In questo ultimo passo Dio indica il suo nome con queste parole: «Io sono Colui che sono » (cfr. q. 13, a. 11).  Nei testi di S. Paolo e del Libro della Sapienza è detto espressamente (parole ispirate e quindi verissime) che la ragione umana è in grado di dimostrare l‘esistenza di Dio argomentando dalle cose esistenti. Questi testi sono citati espressamente dall‘Angelico, o li presuppone nella mente dei discepoli, poichè l‘esposizione della sacra Scrittura era fatta, ai suoi tempi, in un altro corso di studia, antecedente o parallelo al corso di teologia sistematica. 

 13 — Ci si può domandare se queste prove circa l‘esistenza di Dio, ogni altra che si potrebbe portare, abbiano valore razionate dimostrativo o meno. C‘ è chi mette in dubbio questo valore, ritenendo che tali prove valgono sul terreno teologico, e non ‗rigorosamente su quello filosofico, in quanto si appoggiano alla Rivelazione e non alla semplice ragione umana. Per l‘uomo, nello stato di natura decaduta dopo il peccato originale — dicono — è necessaria la grazia sanans per raggiungere con sufficiente fermezza la convinzione dell‘esistenza di Dio, qualunque sia la prova che gli si sottoponga.  Le prove dell‘esistenza di Dio non sarebbero quindi di evidenza cogente. G. Corti recentemente scriveva: « La storia del genere umano e dei suoi pensatori dimostra che, all‘infuori della Rivelazione, tutto era Dio fuorché Dio anche Platone ed Aristotele non hanno saputo formarsi cli Dio quel preciso concetto razionale di cui tuttavia la ragione è capace ». E questa che chiama  « dissonanza », egli la crede non risolvibile se non « ammettendo che la naturale capacità dell‘uomo a conoscere Dio presentemente non si attui di fatto pienamente senza il concorso della grazia». (La Scuola Cattolica, 1940. p. 90).  Ma qui mi pare doversi fare una distinzione: se si parla dell‘esistenza di Dio, non mi sembra accettabile teologicamente questa soluzione. Mi sembra esclusa da quanto scrive S. Paolo circa l‘inescusabilità dei sapienti: « Avendo conosciuto Iddio non l‘ hanno glorificato come Dio, nè l‘hanno ringraziato; ma s‘ invanirono nei loro ragionamenti, e fu avvolto di tenebre il ‗loro stolto cuore» (Rom., 1,21). Oscurità della mente e del cuore data come castigo di questa colpa e non della colpa originale. Mai si fa cenno, nella Scrittura e nei Padri e in tutta la Dottrina della Chiesa, di un ostacolo generale frapposto dalla colpa originale per la conoscenza di questa primordiale verità religiosa. La colpa originale, secondo S. Tommaso, non intaccò le forze naturali della ragione, giacché ci privò direttamente dei beni gratuiti, e solo indirettamente, in quanto fu disciolta l‘armonia della giustizia originale, portò un contraccolpo sulle forze della natura, disperdendole in contrarie direzioni. La Chiesa rigettò decisamente il tradizionalismo che per giustificare le proprie teorie ricorreva all‘oscuramento subito dalla ragione in seguito alla colpa originale. Essa dichiara che «sebbene la ragione, a causa del peccato originale, sia stata resa debole e oscura, le rimase tuttavia abbastanza chiarezza e virtù da condurci con certezza alla conoscenza dell‘esistenza di Dio» (DENZ., 1627). Dove della grazia non si fa menzione.  Non bisogna poi confondere la questione circa l‘esistenza di Dio come causa prima delle cose (ritenuto, almeno confusamente, distinto dalle cose) con la questione circa la natura di Dio, compiutamente determinata dalla ragione in modo coerente. Per questa seconda questione le difficoltà sono molto più grandi e praticamente insormontabili onde la grazia è moralmente necessaria (cfr. q. 1, a. 1; 1 Cont. Gent., c. 4). Invece per la prima questione, pur concedendo l‘utilità della grazie., e anche la necessità di essa a riguardo di certi individui in condizioni speciali, non credo che si debba estendere tale necessità generale a tutti gli uomini, secondo verità e secondo la dottrina di‘ S. Tommaso. Da notare ancora che la grazia, di cui si ammette la necessità per accidens circa la questione dell‘esistenza di Dio, non è per necessità un ausilio essenzialmente soprannaturale, poichè è sufficiente anche un aiuto straordinario, che rettifichi semplicemente la natura, in certi casi per cause accidentali, deformata. (Cfr. M. DAFFARA, Dio..., p. 6. Torino, 1938). 

giovedì 16 settembre 2021

ESISTENZA E NATURA DI DIO

 


Funzione della ragione e della cultura nella teologia. 

8 — Insistendo sul processo teologico come fu attuato nella Summa Theologiae, intendiamo di giustificarne il valore. Ma non vogliamo sostenere che proprio della teologia sia puramente dedurre delle conclusioni di principi rivelati. Come è possibile infatti dedurre conclusioni vere e proprie che spieghino il reale ricco contenuto dei principi rivelati, se non approfondendo la conoscenza dei principi stessi, con lo studiarne seriamente le fonti‘, cioè la Scrittura e la Tradizione che nei Padri ha il suo canale sacro? Se alla Scolastica decadente si può fare il grave appunto di aver trascurato questo necessarissimo studio, sarebbe supremamente ingiusto fare un tale rimprovero a S. Tommaso, che per i Padri ebbe la più grande venerazione e il più assiduo studio specialmente nella contemplazione della verità nelle questioni di S. Scrittura. Ma anche in questo è necessario l‘uso della dialettica, come si riscontra in particolare negli scritti dei santi [Padri].... ». (1 Sent, Prol., q. 1, a. S.).  Questa dottrina sulla natura della teologia è applicata in modo vivo in tutta la Somma. Per questo la trattazione di S. Tommaso, seguita e penetrata con attenzione, produce sull‘animo un effetto di riposante soddisfazione; che proviene appunto dal modo connaturale alla ragione, con cui egli procede. Dottrina teologica autentica, non immessa nel dogma dalla filosofia, ma dedotta dai dogma, usando della filosofia ancella e non dominatrice (q. 1, a. S., ad 2). Ancella tuttavia perfettamente libera nelle sue mosse, perchè solo così, come osserva il Gilson, può prestare la sua valida opera di prezioso servizio alla Rivelazione.  

9 - S. Tommaso  ha perfetta coscienza di quanto spetta al dominio proprio della fede e a quello proprio della ragione: distingue nettamente, più che qualsiasi teologo precedente, l‘ordine soprannaturale dall‘ordine naturale; ma non li separa, bensì li associa amichevolmente.  Oggi la dottrina dell‘Aquinate è comune, si può dire, in tutta la Chiesa; ma ai suoi tempi egli fu considerato come un innovatore e fu accusato da alcuni teologi, più pii che illuminati, di laicizzare la teologia, non solo perchè metteva a servizio di essa le dottrine profane dei filosofi (l‘accusa di alcuni modernissimi, dunque, è ben antica!); ma soprattutto, allora, perchè sembrava togliere ad essa, per abbandonarli a queste ultime, dei territori che, secondo loro, le appartenevano (cfr. SOM. FRANC., Dieu, I. p. 329).  Accusa anche questa ben inconsistente. In realtà S. Tommaso precisava i confini delle scienze profane e della teologia. La teologia è scienza e sapienza nel suo ordine; e le dottrine profane sono scienze nel loro ordine. La teologia lascia ad esse tutta la libertà di costituirsi e svilupparsi secondo la natura dei loro oggetto, secondo i loro propri principi e il loro proprio metodo. Il contatto inevitabile fra scienza sacra e scienze profane non è intrusione di quella nei domini propri di queste, pretesa di dominarle e renderle schiave; ma collaborazione amica, anche se il primato di dignità, a causa della nobiltà del suo oggetto e della fonte da cui attinge, spetta alla teologia (cfr. q. 1, a. S.).  

10 — Il giudizio che la teologia dà delle scienze, e la direzione che tiene in qualche modo su di esse, sono estrinseci; riguardano, cioè, le conclusioni delle scienze, le quali non possono essere contrarie alla verità della teologia, a causa dell‘unità del vero, che scaturisce da una stessa fonte suprema, che è Dio; e a causa dell‘unità della coscienza che non ammette- doppia verità. La teologia è nel suo pieno diritto di rigettare le conclusioni delle scienze profane realmente contrastanti con le sue verità dimostrate; ma non può pretendere di sostituirsi ad esse in nessun campo, neppur nel correggere l‘errore. Solo le scienze sono in grado di fare scientificamente questa correzione con ritorni riflessivi più esatti sul proprio oggetto e sui propri procedimenti.  

L‘espressione filosofia ancella della teologia, già antichissima, e che S. Tommaso richiama (nella q. 1, a. 4, ad 2), non ha per nulla un significato mortificante per le scienze razionali. Esse, infatti, sono libere ancelle e se rendono servigi alla teologia, ciò è un onore che le eleva, poichè entrano così, senza nulla perdere della loro libertà, in un nuovo campo, dove nuovi problemi prima sconosciuti, ma pieni di vitale interesse, sono sottoposti al loro esame e aspettano da loro una soluzione conforme a ragione, pur sotto il controllo estrinseco della Rivelazione; la quale, pur additando la mèta da conseguire e la via che vi conduce, non entra propriamente nell‘ interno dominio delle scienze, ma resta esterna, come il faro, che indica il porto e ‗la rotta da seguire, resta esterno alla nave (influsso negativo). 

 11 — I servigi che la filosofia rende alla teologia si possono così riassumere (cfr. De Trinit., q. 2, a. 3):  a) La ragione naturale, come quella che è presupposta alla fede e in qualche modo conduce a essa, dimostra i « preamboli della fede», i quali vengono esposti e difesi nell‘Apologetica.  b) Fornisce similitudini o analogie alla speculazione teologica per illustrare le verità della fede (cfr. I Cont. Gent., c. 8).  e) Presta i suoi principi alla teologia, affinché per mezzo di essi metta in evidenza e più distintamente enuclei il ricchissimo contenuto della Rivelazione; e affinché possa confutare le obiezioni portate contro la fede, mostrandone razionalmente la falsità, o almeno la mancanza di forza cogente (2 Cont. Gent., cc. 3, 4).  Questo metodo è stato applicato magistralmente da S. Tommaso. Esso ha l‘approvazione della Chiesa (cfr. Syllabus, 13; DENZ., 1713; Leone XIII, «Aeterni Patris»; Pio X, « Pascendi»; Pio XI,  « Studiorum Ducem ») ed è ricco di ottimi frutti.  A proposito dei contrasti che possono sorgere tra filosofia e teologia, ecco un bel testo di S. Tommaso che chiarisce i rapporti tra esse (De Trinit., 1. c.) : « Come la sacra dottrina si fonda sul lume della fede, così la filosofia si fonda sul lume naturale della ragione. Onde, è impossibile che gli‘ insegnamenti della filosofia siano contrari a quelli della fede.... Che se nei detti dei filosofi si trova qualcosa contrario alla fede, ciò non è filosofia, ma piuttosto abuso della filosofia per difetto di ragione. E perciò è possibile con i principi stessi della filosofia (quindi su terreno prettamente filosofico e con mezzi filosofici) confutare siffatto errore, o dimostrando che ciò che fu obiettato è affatto impossibile, o almeno che non è inoppugnabile. Questa distinzione s‘impone: come infatti le cose della fede non si possono provare dimostrativamente vere, così alcune coso contrarie alla. fede non si possono provare dimostrativamente false; ma si può sempre dimostrare che non sono necessitanti ».  La teologia è così opus fidei et rationis — opera insieme della fede e della ragione — attinge alla sorgente pura della Parola di Dio, la elabora in concetti più espressivi, per soddisfare la sete di ogni anima. I misteri divini infatti, come insegna il Concilio Vaticano I, pur restando sempre misteri, hanno una. loro intelligibilità fruttuosissima per una mente religiosa che vi si applica, appunto per l‘analogia col mondo creato e per il nesso che li lega tra loro e col fine ultimo dell‘uomo (cfr. DENZ., 1796).

  di P.Tito S. Centi  e P. Angelo Z.

sabato 14 agosto 2021

ESISTENZA E NATURA DI DIO

 


Funzione della ragione e della cultura nella teologia. 


7 — Così la mente nostra si rende conto dell‘organicità vivente e vitale della parola di Dio, la quale è infinitamente ricca. E qui si apre un campo immenso alla speculazione teologica: il campo dell‘implicito, indiretto, virtuale. S. Tommaso lo chiamò il campo del «rivelabile » intendendo con questo termine tutto ciò che può essere visto in forza della luce della Rivelazione, che si trova in concreto nella sacra Scrittura: sia esso mistero inaccessibile di per sè alla ragione umana, sia invece verità di ragione connessa col mistero come presupposto o come conseguenza, sia fatto storico avente rapporto con la parola di Dio.  « Appartiene alla teologia — scrive S. Tommaso — l‘esplorazione dl tutte le verità che dai principi derivano e che servono alla loro difesa », «di tutte le verità che, o accompagnano la fede, o la precedono o la seguono» (1 Sent., Prol., a. 3, qc. 2, ad 2; 3 Sent., d. 24, q. I, a. 2, qc. 2). Campo esplorato dal teologo col sussidio che gli fornisce la propria cultura biblica, letteraria. filosofica, storica. La quale cultura non dovrà nulla immettere di estraneo nella parola di Dio; ma dovrà essere puro strumento di penetrazione di essa. La Parola. di Dio è data a uomini in termini loro intelligibili, proporzionati alla capacità umana, nelle analogie dell‘ente creato a cui è legata la nostra mente in questa vita. Chi dell‘ente creato ha una conoscenza più chiara, più profonda, più piena, possiede perciò stesso il migliore mezzo di penetrazione della Parola divina. Il teologo è, tra gli uomini di fede, colui che ha più intelligenza e più cultura.  Perchè scandalizzarsi dunque (come mostrano di fare alcuni) dell‘elemento razionale introdotto nel procedimento teologico‘? Non è possibile fare della teologia senza di esso: senza dare un Senso preciso alle nozioni rivelate, servendosi delle analogie tra il mondo creato e il mondo increato. La quale analogia non «invenzione dell‘Anticristo» come vorrebbe K. Barth (Dogmatik, p. VITI), ma è insita nella natura delle cose e nella rivelazione stessa, fatta a noi in speculo creaturarum. Con questa sua errata concezione la teologia dialettica di Barth si conclude in un agnosticismo sterile, in un nominalismo morto e mortale, in un relativismo che è distruzione della stessa Parola di Dio e della Fede, che pur pretende di esaltare; mentre la teologia vera deve essere la massima vita dell‘ intelligenza, la cognizione più piena dell‘oggetto della Fede, la contemplazione più alta dei misteri divini, l‘analogo in terra della visione beatifica, scopo finale della Rivelazione.  Lo sviluppo che prende la dottrina rivelata, per quanto vasto, non altera la dottrina rivelata: la teologia si muove nell‘ interno della Rivelazione stessa, anche servendosi di sussidi razionali; e resta, pure distinta dalla fede, perfettamente omogenea con essa. Non impoverisce la dottrina rivelata, come pretende qualcuno ripetendo un‘accusa superficiale; ma ne mostra più esplicitamente L‘ infinita ricchezza. La teologia non può limitarsi a ciò che è espressamente contenuto nella sacra Scrittura, ma va oltre, pur senza uscire dalla virtualità delle fonti della Rivelazione. S. Tommaso non esita ad affermare: « Qualunque verità deducibile da ciò che è contenuto nella Scrittura, non è estranea alla teologia, anche se nella sacra Scrittura [esplicitamente] non sia contenuta» (in Dionys. De Div. Nom., lect. 1).  Ripetiamo ancora che proprio la penetrazione del dato rivelato e non l‘abbondanza dell‘erudizione in sè, sta a cuore all‘Angelico. Egli venera la tradizione filosofica e patristica proprio per questo, conscio della intrinseca solidarietà del vero, la cui scoperta è opera di ognuno e di tutti. Ma aggiunge che una pura cultura che non servisse a questo fine, non sarebbe desiderabile; poichè  « non è il sapere quel che tu vuoi o quel che tu pensi, che costituisce la perfezione della mia intelligenza; ma soltanto il sapere la verità della cosa », solum quid rei veritas habeat (I, q. 107, a. 2).

di P.Tito S. Centi  e P. Angelo Z.

lunedì 5 luglio 2021

ESISTENZA E NATURA DI DIO

 


La Teologia come scienza. 


S. — Per quel che riguarda la Summa Theologiae (e in modo speciale la parte che tratta dell‘essenza di Dio), S. Tommaso non poteva lasciare da parte quanto la tradizione gli forniva di elementi utili, anzi indispensabili per una sistemazione della sua speculazione. Egli vuole dare, nel modo più breve e lucido, una conoscenza completa della dottrina cristiana, come si esprime nel Prologo. E come avrebbe potuto allora trascurare la grande speculazione logico-metafisica di Aristotele che gli forniva schemi ottimi per tale lavoro? Schemi non artificiali‘ ed arbitrari, ma desunti da una visione netta e realistica della natura della mente umana, relativa all‘essere; schemi quindi che non potevano essere sostituiti da nessun altro di‘ uguale valore.  

Oggi c‘è, da qualche parte, una levata di scudi contro gli schemi aristotelici introdotti da S. Tommaso nella teologia (vedi Charlier 187 , Stolz 188 ); però a torto e per un misconoscimento delle funzioni proprie di questi schemi, i quali non impoveriscono, nè tanto meno soffocano la vitalità trascendente della Rivelazione; ma al contrario forniscono uno strumento utilissimo per  meglio, ossia più ordinatamente, penetrarla; il che vuol dire pensarla in modo più confacente all‘ indole della nostra mente che non sa. in senso vero e proprio, se non quando unifica, ossia fa l‘ordine nelle sue nozioni: un ordine non estrinseco, puramente storico e di successione; ma intrinseco, logico, fondato sulla natura degli elementi propri della Rivelazione. La teologia di S. Tommaso in questo senso si può ben dire quaedam metaphysica, anche se l‘espressione spiaccia a qualcuno (p. es., allo Stolz, cfr. op. cit., p. 71), poichè dev‘essere veramente la metafisica, ossia studio per altissimam Causam, dell‘essere rivelato, costruita non con elementi della metafisica razionale infinitamente inferiore, ma sul modello della metafisica razionale, cioè secondo la tendenza propria della ragione umana, da cui nessun teologo potrebbe prescindere.  Quelli che si agitano per un ritorno puro e semplice alla teologia dei Padri, o della santa tradizione, come dicono, non sembra che si battano per un progresso della teologia, ma per un regresso; giacché, come si è detto, i Padri non han fatto se non parzialmente opera di‘ sistemazione delle verità della fede (il che vuoi dire di intelligibilità); mentre quest‘opera ha assunto nei teologi posteriori, e specialmente in S. Tommaso, altezze, al dire di Leone XIII, difficilmente superabili.  

Essi insistono sul carattere carismatico della teologia, la quale si svolgerebbe, quindi, in forme più o meno irrazionali o soprarazionali, al di fuori degli schemi logici e delle argomentazioni che, invece, abbondano nella teologia scolastica. Si sente in questa concezione 1‘ influsso delle correnti teologiche eterodosse, secondo cui la mente nulla potrebbe nella penetrazione della parola rivelata. Queste correnti eterodosse (p. es., la Teologia dialettica di K. Barth, scuola) dichiarano senz‘altro impossibile qualsiasi costruzione scientifica che sia coerente con la parola divina e porti a un consenso con la fede. E sono accanite contro la teologia e i metodi della Scolastica. Ma esse rendono, per ciò stesso, innaturale e avitale, dirò così, la parola di Dio, la quale non può essere da noi assimilata se non per via della più alta nostra facoltà, che è 1‘ intelligenza. E‘ chiaro poi che in queste correnti teologiche opera, visibilmente o invisibilmente, la concezione agnostica circa il potere conoscitivo della ragione, non più considerata relativa all‘essere e apprensiva dell‘essere, ma elaboratrice di fenomeni soggettivi di valore del tutto contingente.  6 — Le polemiche inter catholicos, vigenti in questi ultimi tempi, si sono concentrate sul concetto di scienza, applicato alla teologia: concetto aristotelico, valorizzato da S. Tommaso (vedi q. I, a. 2). Non ci è possibile riassumerle in questa introduzione. Diremo solo che a torto si è visto in questo concetto un qualcosa come un letto di Procuste, soffocante e mortificante la straripante vitalità della  dottrina rivelata. Il concetto di scienza applicato alla teologia è un concetto analogico che esige un‘applicazione suo modo, e va corretto e completato con l‘altro concetto di sapienza, che conviene alla teologia non meno che il concetto di scienza. La teologia, partecipazione della scienza di Dio in noi (impressio quaedam divinae scientiae, q. 1, a. 3, ad 2), realizza veramente in sè tutto l‘elemento certezza e dimostrazione « ex principiis », contenuto nel concetto aristotelico di scienza; il quale esprime bene perciò, una qualità intrinseca ed importantissima della teologia. Essa, scienza della fede, desume i suoi principi dalla Rivelazione, ai quali aderisce per fede soprannaturale; certezza questa inevidente, sostenuta però dall‘autorità della parola di Dio, che risuona nel credente con un accento non mai del tutto traducibile in parole umane. A servizio della fede stanno i doni carismatici dello Spirito Santo, specialmente il dono di sapienza, che formano nel teologo l‘animus, l‘inclinatio, la connaturalità, l‘istinto verso la parola di Dio (q. I, a. 6, ad 3). Ma tutto ciò rafforza il teologo e non pregiudica in nulla la sua qualità di scienziato della fede. Dai principi creduti, ragionando secondo il naturale modo di procedere dell‘intelletto umano, incapace di penetrare con un atto solo tutto il contenuto dei principi, il teologo dedurrà, tanto più sicuramente quanto più illuminato, le verità implicite, formulando in modo organico le sue conclusioni.  E‘ scienza della fede anche il sistemare o disporre gerarchicamente i principi rivelati stessi, mettendone in luce le relazioni intime con un principio supremo; poichè questo lavoro è fatto anch‘esso per mezzo del ragionamento; ed è sovente deduzione teologica, giacché il nesso dei vari articoli di fede, che sono i principi della teologia, non è sempre oggetto di esplicita rivelazione, ma è arguito o dedotto dalla ragione alla luce della fede allora per noi, non un revelatum, ma un revelabile: un oggetto in qualche modo nuovo (quanto alla nostra cognizione esplicita), conosciuto in atto, come contenuto nella rivelazione stessa, per un lavoro di penetrazione fatto dalla mente.  Tutto il processo della scienza teologica avviene sotto la luce della fede; giacché essa procede ex auctoritate divina, non nel senso che tutto quello che deduce sia illuminato dall‘esplicita testificazione divina, e quindi sia oggetto proprio della fede, intuito nell‘atto stesso della fede; ma nel senso di un lavoro della ragione, la quale, vivendo la fede e assimilandone la luce, veramente arguisco ciò che vi è d‘implicito nei singoli oggetti di fede; discorre da concetto a concetto, penetra passo passo e assimila via via l‘infinita ricchezza della Parola di Dio. Giacché la mente umana non è come la mente divina, e neppure come la mente degli angeli, totalmente intuitiva e di tale vigore da comprendere ed esaurire, con un atto unico di visione, la totalità del contenuto di un oggetto; ma è discorsiva, procede per divisione o composizione, per analisi e sintesi, unificando man mano i vari atti di visione, parziali ma intimamente connessi, in una visione sempre più vasta del soggetto della scienza. 

 di P.Tito S. Centi  e P. Angelo Z.