PUNTO DI PARTENZA DELLA CIVILTA MODERNA
Nella sua ammirabile introduzione della Vita di Sant'Elisabetta, Montalembert disse del secolo XIII, che fu - almeno per ciò che riguarda il passato, - l'apogeo della
civiltà cristiana: "Giammai forse la Sposa di Cristo aveva regnato con un impero così assoluto sul pensiero e sul cuore dei popoli...
Allora, più che in altro momento di questo fiero combattimento, l'amor de' suoi figli, il loro attaccamento senza limiti, il loro numero e il loro coraggio ogni
di crescenti, i santi che ogni dì essa vedeva sorgere di mezzo ad essi, offrivano a questa Madre immortale tali forze e consolazioni che mai le maggiori, di cui fu dappoi crudelmente privata. Grazie ad Innocenzo III,
che continua l'opera di Gregorio VII, la cristianità è una vasta unità politica, un regno senza frontiere, abitato da razze molteplici. I signori ed i re avevano accettato la supremazia pontificia.
Ci volle il protestantesimo a distruggere quest'opera".
Anche prima del protestantesimo, un fiero colpo fu dato alla società cristiana fin dal 1308. Quello che ne formava la forza, era, come disse il Montalembert, l'autorità
riconosciuta e rispettata del Sommo Pontefice. Questa autorità fu contraddetta, insultata e lacerata colla violenza e coll'astuzia: il re Filippo IV, colla sua persecuzione contro il papa Bonifacío VIII,
preparò il grande scisma d'Occidente che decapitò per un istante il mondo cristiano alla fine del secolo XIV. Fin d'allora, la forza cominciò a padroneggiare il diritto, come prima di Gesù
Cristo. Si videro le guerre riprendere il carattere pagano di conquista e perdere il carattere di liberazione. E la ragione di quello che vediamo ai nostri giorni, per non dire nulla di ciò che precedette: l'occupazione
di Roma, l'ingrandimento della Prussia a spese de' suoi vicini, l'Europa impassibile davanti al massacro dei cristiani per mezzo dei Turchi e l'immolazione di un popolo alle cupidigie dell'impero britannico.
Il secondo colpo fu dato dai dotti, dagli artisti, dai filosofi. Questi intellettuali si diedero appassionatamente allo studio della letteratura e dell'arte pagana. Vissero
collo spirito nell'ambiente della civiltà pagana, s'inebriarono di essa, ed allora, nella loro ebbrezza gettarono il disprezzo sulla civiltà cristiana e si sforzarono di farla sparire. "Gli antichi
umanisti - dice assai bene Jean Janssen (L'Allemagne á la fin du Moyen áge, p. 50) - non avevano minor entusiasmo per l'eredità grandiosa lasciata dai popoli dell'antichità che non ne
avessero più tardi i loro successori. Prima di loro,
avevano veduto nello studio dell'antichità uno dei mezzi più potenti ed efficaci di cultura per l'intelligenza umana. Ma nel loro pensiero, i classici greci
e latini non dovevano essere studiati col fine di arrivare con essi e per mezzo di essi al termine di ogni educazione. Essi intendevano porli al servizio degli interessi cristiani; desideravano innanzi tutto pervenire, per
loro mezzo, ad una intelligenza più profonda del cristianesimo e al miglioramento della vita morale. Mossi dai medesimi motivi, i Padri della Chiesa avevano raccomandato e incoraggiato lo studio delle lingue antiche.
La lotta non incominciò e non divenne necessaria se non allorché i giovani umanisti rigettarono tutta l'antica scienza teologica e filosofica come barbara, pretesero che ogni idea scientifica si trovi unicamente
contenuta nelle opere degli antichi, entrarono in lotta aperta colla Chiesa e col cristianesimo, e molte fiate gettarono una sfida alla morale".
La stessa osservazione rispetto agli artisti. "La Chiesa - dice il medesimo storico (Ibid. p. 130) - aveva messo l'arte al servizio di Dio, chiamando gli artisti a cooperare
alla propagazione dei regno di Dio sulla terra ed invitandoli "ad annunziare il Vangelo ai poveri". Gli artisti rispondendo fedelmente a questo appello, non innalzarono il bello sull'altare per farne un idolo
e adorarlo per se stesso; ma lavorarono "per la gloria di Dio". Coi loro capi d'opera bramavano di ridestare e aumentare negli uomini il desiderio e l'amore ai beni celesti. Finché l'arte conservò
i principi religiosi che le avevano dato origine, fu in un continuo progresso. Ma in proporzione che svanirono la fedeltà e la solidezza dei sentimenti religiosi, vide pure dileguarsi da lei l'ispirazione. Più
essa studiò le divinità straniere, Più volle risuscitare a dare una vita fittizia al paganesimo, e più ancora vide sparire la sua forza creatrice, la sua originalità; e cadde infine in una
sterilità e aridità completa".
Sotto l'influenza di questi intellettuali, la vita moderna prese una direzione affatto nuova che fu l'opposto della vera civiltà. Poichè, come assai bene
disse Lamartine: "Ogni civiltà che non viene dall'idea di Dio è falsa.
"Ogni civiltà che non mette capo all'idea di Dio non dura.
"Ogni civiltà che non è penetrata dall'idea di Dio è fredda e vuota.
"L'ultima espressione d'una civiltà perfetta è Dio meglio conosciuto, meglio adorato, meglio servito dagli uomini" (Citato da Mons. Perraud, vescovo
d'Autun, nell'occasione delle feste del centenario del poeta).
Il cambiamento operossi da prima negli animi. Molti perdettero il concetto secondo il quale ogni fine è in Dio per adottare quello che vuole riporlo tutto nell'uomo.
"All'uomo decaduto e redento - dice assai bene il Bériot il Rinascimento oppose l'uomo nè decaduto, nè redento, che si eleva ad un'ammirabile
altezza mediante le sole forze della sua ragione e del libera arbitrio". Il cuore non fu più per amare Iddio, la mente per conoscerlo, il corpo per servirlo, e in tal modo meritare la vita eterna. La nozione superiore
che la Chiesa con tanta cura aveva cercato di stabilire, e per la quale le fu necessario tanto tempo, si cancellerà in questo ed in quello, nelle moltitudini; come al tempo del paganesimo, esse fecero del piacere, del
godimento, il fine della vita; ne cercarono i mezzi nella ricchezza, e per acquistarla, non si tenne più tanto conto dei diritti altrui. Per gli Stati, la civiltà non fu più la santità del gran
numero, e le istituzioni sociali mezzi ordinati a preparare le anime pel cielo. Di nuovo rinchiusero l'opera della società nel tempo senza riguardo alle anime fatte per l'eternità. Allora, come oggi,
questo chiamarono il progresso! "Tutto ci annunzia - scriveva con entusiasmo Campanella - il rinnovamento del mondo. Niente arresta la libertà dell'uomo. Come arrestare la marcia e il progresso del genere umano?"
Le nuove invenzioni, la tipografia, la polvere, il telescopio, la scoperta dei Nuovo Mondo ecc. venendo ad aggiungersi allo studio delle opere dell'antichità, provocarono un'ebbrezza d'orgoglio che fece
dire: la ragione umana basta da sè per dirigere i suoi affari nella vita sociale e politica. Noi non abbiamo bisogno di un'autorità che sostenga o raddrizzi la ragione.
Così fu rovesciata la nozione onde la società era vissuta e per la quale aveva prosperato da N. S.
Gesù Cristo in poi.
Tuttavia ciò non si fece senza resistenza. Moltissime anime restarono e restano sempre attaccate all'ideale cristiano, e la Chiesa è sempre là per conservarlo
e per lavorare al suo trionfo. Di qui, in seno della società, il conflitto che dura da cinque secoli e che, nell'ora presente, è giunto allo stato acuto.
Il Rinascimento è dunque il punto di partenza dello stato attuale della società. Di qui viene tutto ciò che soffriamo. Se vogliamo conoscere il nostro male,
e trarne da questa cognizione il rimedio radicale alla situazione presente, bisogna risalire ad esso (Giovanni Guiraud, professore alla Facoltà delle lettere di Besancon il quale ha pubblicato un eccellente libro sotto
questo titolo: L'Eglise et les Origines de la Renaissance, ci servirà di guida per richiamare sommariamente alla memoria ciò che avvenne in quell'epoca. Questo volume fa parte della Biblioteca dell'insegnamento di Storia ecclesiastica pubblicata dal Lecoffre).
I Padri della Chiesa, come dicemmo, avevano raccomandato lo studio delle letterature antiche, e ciò per due ragioni: essi trovavano in esse un eccellente strumento di cultura
intellettuale, e ne avevano fatto un piedistallo alla Rivelazione; così la ragione è l'appoggio della fede.
Fedeli a questa direzione, la Chiesa, e particolarmente i frati, posero tutte le loro cure a salvare dal naufragio della barbarie gli autori antichi, a copiarli, a studiarli, a
farli servire a dimostrazione della fede.
Era dunque affatto naturale che quando cominciò. in Italia la nuova epoca letteraria ed artistica, i Papi vi si mostrassero favorevoli.
Ai vantaggi più sopra ricordati, essi vedevano aggiungersene altri d'un carattere più immediatamente utile in questa epoca. Alla metà dei secolo XIII,
relazioni continue erano state iniziate tra il Papato e il Mondo Greco per ottenere il ritorno delle Chiese d'Oriente alla Chiesa Romana. Da una parte e dall'altra s'inviarono ambasciatori: quindi la cognizione
del greco era necessaria per discutere cogli scismatici e dar battaglia sul loro proprio terreno.
La caduta dell'Impero bizantino diede occasione, per questo genere di studi, ad un nuovo e decisivo impulso. I sapienti greci portando in Occidente i tesori letterari dell'antichità,
destarono un vero entusiasmo per le lettere pagane, e questo entusiasmo in niuna parte manifestossi più vivo che tra le persone di Chiesa. La tipografia venne a buon punto per moltiplicare e per renderne l'acquisto
infinitamente meno oneroso.
In fine l'invenzione dei telescopio e la scoperta del Nuovo Mondo aprivano al pensiero più larghi orizzonti. Qui ancora vediamo i Papi, e in primo luogo quelli d'Avignone,
mercè il loro zelo iniziare dei missionari nei paesi lontani e recare un nuovo stimolo al fermento degli spiriti, buono nel suo principio, ma che l'orgoglio umano deviò, come lo vediamo deviare ai giorni
nostri nei progressi delle scienze naturali.
I Papi adunque furono condotti, da ogni genere di circostanze provvidenziali, a chiamare e stabilire presso di sè i rappresentanti più distinti del movimento letterario
ed artistico di cui erano testimoni. Se ne fecero anzi un dovere ed un onore. Essi prodigarono le ordinazioni, le pensioni, le dignità a quelli che vedevano, per i loro talenti, elevarsi sopra gli altri. Disgraziatamente,
tenendo fisso lo sguardo al fine che volevano raggiungere, non furono abbastanza oculati rispetto alle doti morali delle persone che in tal modo incoraggiavano.
Il Petrarca, che si è d'accordo nel chiamarlo "il primo degli umanisti", trovò alla Corte di Avignone la più alta protezione, e vi ricevette la
carica di segretario apostolico. Fin d'allora si stabilì la tradizione nella Corte pontificia di riservare gli alti uffici dì segretari apostolici agli scrittori più rinomati, di guisa che questo collegio
divenne ben presto uno dei più attivi focolari dei Rinascimento. Vi si videro dei santi religiosi, come il camaldolese Ambrogio Traversari, ma disgraziatamente anche dei grossolani epicurei, come il Poggio, il Filelfo,
l'Aretino ed altri molti. Malgrado la pietà e la stessa austerità personale, onde i Papi di quell'epoca edificarono la Chiesa (1) non seppero, a motivo dell'atmosfera che li avvolgeva, difendersi
da una condiscendenza eccessiva per scrittori, i quali, sebbene al loro servizio, divennero ben presto, per la tendenza a cui s'abbandonarono. i nemici della morale e della Chiesa. Questa condiscendenza si estese alle
stesse opere, sebbene in sostanza fossero la negazione del cristianesimo.
Tutti gli errori che di poi hanno pervertito il mondo cristiano, tutti gli attentati alle sue istituzioni, trassero da ciò la loro origine; si può dire che tutto questo
fu preparato dagli umanisti. Il Petrarca aveva già attinto nel commercio dell'antichità sentimenti ed idee che avrebbero afflitto la Corte pontificia, se ne avesse misurate le conseguenze. Egli, è
vero, s'inchinò sempre dinanzi alla Chiesa, alla sua gerarchia, ai suoi dogmi, alla sua morale; ma non fu così di coloro che lo seguirono, e si può dire esser lui che lì mise sulla mala via
in cui si smarrirono. Le sue critiche contro il governo pontificio autorizzarono il Valla a scalzare il potere temporale dei Papi, a indicare in essi i nemici di Roma e dell'Italia, a presentarli come i nemici dei popoli.
Egli giunse perfino a negare l'autorità spirituale dei Sommi Pontefici nella Chiesa, negando ai Papi il diritto di chiamarsi "i vicari di Pietro".
Altri fecero appello al popolo o all'imperatore per ristabilire, sia la Repubblica romana, sia l'unità italiana, sia un impero universale; tutte cose che vediamo
ai nostri giorni o tentate (1848), o attuate (1870), o presentate come la meta delle aspirazioni della framassoneria.
Alberti preparò un'altra specie di attentato, il più caratteristico della civiltà contemporanea. Giurista insieme e letterato, compose un trattato di diritto.
Egli proclamava "che a Dio devesi lasciare la cura delle cose divine, e che le cose umane sono di competenza del giudice". Era, come osserva Guiraud, proclamare il divorzio della società civile dalla società
religiosa; era aprire le vie a coloro i quali vogliono che i governi non cerchino se non i fini temporali, e restino indifferenti rispetto agli spirituali, difendano gli interessi materiali, e lascino da parte le leggi soprannaturali
della morale e della religione; era un dire che i poteri terreni sono incompetenti, o devono essere indifferenti in materia religiosa, che non hanno` il dovere di conoscere Dio, nè di far osservare la sua legge Era,
in una parola, formulare la grande eresia sociale del tempo presente e rovinare nella sua base la civiltà dei secoli cristiani. Il principio proclamato da questo segretario apostolico racchiudeva in germe tutte le teorie
mercè le quali i nostri moderni si dichiarano "i difensori della società laica" Bastava lasciare che questo principio si svolgesse per arrivare a tutto ciò di cui oggi siamo dolenti testimoni.
Attaccando così nella base la società cristiana, gli umanisti sconvolgevano in pari tempo nel cuore dell'uomo l'idea cristiana del suo destino. "Il
Cielo - scriveva Coluccio Salutati ne' suoi Travaux d'Hercule - appartiene di diritto agli uomini energici che sostennero grandi lotte o compirono grandi opere sopra la terra". Da questo principio trassero le conseguenze che ne derivavano. L'ideale antico e naturalista, l'ideale di Zenone, di Plutarco e d'Epicuro,
era di moltiplicare all'infinito le energie del proprio essere sviluppando armoniosamente le forze dello spirito e del corpo. Questo divenne l'ideale che i seguaci del Rinascimento sostituirono nella loro condotta,
come nei loro scritti, alle aspirazioni soprannaturali del cristianesimo. Questo fu ai giorni nostri l'ideale che Federico Nietzsche spinse all'estremo predicando la forza, l'energia, il libero svolgimento di tutte
le passioni per far giungere l'uomo ad uno stato superiore a quello in cui si trova, come quello che doveva produrre il superuomo (La glorificazione di ciò che gli americanisti chiamano "virtù attive" sembra
venga da ciò per mezzo del protestantesimo).
Per questi intellettuali, e per quelli che li ascoltarono, e per quelli che fino ai nostri giorni si sono fatti loro discepoli, l'ordine soprannaturale fu, più o meno
completamente, messo da un canto; la morale divenne la soddisfazione accordata a tutti gl'istinti; il godimento sotto tutte le forme divenne l'oggetto delle loro aspirazioni. La glorificazione del piacere, era il tema
favorito delle dissertazioni degli umanisti. Lorenzo Valla affermava nel suo trattato De voluptate, che "il piacere è il vero bene, e che non ci sono altri beni che il piacere" . Questa convinzione condusse lui e molti altri a fare oggetto di poesia le peggiori dissolutezze. Così erano
prostituiti i talenti che avrebbero dovuto essere adoperati a vivificare la lettura e l'arte cristiana.
Su tutti i punti si faceva dunque il divorzio fra le tendenze del Rinascimento e le tradizioni del cristianesimo. Nel mentre la Chiesa continuava a predicare la decadenza dell'uomo,
ad affermare la sua debolezza e la necessità d'un soccorso divino per compiere il dovere, l'umanesimo preveniva G. G. Rousseau per proclamare la bontà della natura: esso deificava l'uomo. Nel mentre
la Chiesa assegnava alla vita umana una ragione e uno scopo soprannaturale, ponendo in Dio il termine del nostro destino, l'umanesimo, ritornato pagano. limitava a questo mondo e al medesimo uomo l'ideale della vita.
Dall'Italia, il movimento penetrò nelle altre parti delI' Europa.
In Germania, il nome di Reuchlin fu, senza che quel dotto lo volesse, il grido di guerra di tutti coloro che si travagliavano per distruggere gli Ordini religiosi, la Scolastica,
e in fin dei conti, la Chiesa stessa. Senza lo scandalo che si fece intorno a lui, Lutero e i suoi discepoli non avrebbero osato mai sognare ciò che hanno compiuto.
Nei Paesi Bassi, Erasmo preparò, anch'egli, le vie alla Riforma col suo Eloge de la Folie. Lutero non fece che proclamare altamente ed eseguire arditamente ciò che Erasmo aveva incessantemente insinuato.
La Francia erasi parimenti affrettata ad accogliere presso di sè le umane lettere; ma non vi produssero, almeno nell'ordine delle idee, effetti così funesti.
Non fu però lo stesso riguardo ai costumi. "Dappoichè i costumi degli stranieri cominciarono a piacerci - disse il grande cancelliere di Vair, testimone di quanto dice - i nostri (costumi) si sono talmente
pervertiti e corrotti che possiamo dire: "E' già molto tempo che non siamo più francesi"".
In niuna parte i capi della società ebbero sufficiente chiaroveggenza per fare la separazione di ciò che eravi di sano da ciò che v'era di sommamente pericoloso
nel movimento di idee, di sentimenti, di aspirazioni, ch'ebbe il nome dì Rinascimento.
NOTA
(1) Martino V ebbe un'inclinazione costante per la giustizia e la carità. Grande era la sua devozione; ne diede in più occasioni delle prove luminose, soprattutto
allorchè fece trasferire da Ostia le reliquie di Santa Monica. Egli sopportò con una rassegnazione profondamente cristiana le disgrazie che vennero a colpirlo successivamente nelle sue più care affezioni.
Fin dalla sua giovinezza aveva distribuito la maggior parte de suoi beni ai poveri.
Eugenio IV conservò sul trono pontificio le sue abitudini austere di religioso. La sua semplicità e frugalità gli fecero dare da' suoi famigliari il soprannome di Abstenius. A ragione Vespasiano celebra la santità della sua vita e de' suoi costumi.
Nicolò V volle avere nella sua intimità lo spettacolo continuo delle virtù monastiche. Perciò chiamò presso di sè Nicola da Cortona e
Lorenzo da Mantova, due certosini coi quali godeva intrattenersi delle cose del cielo in mezzo ai dolori della sua ultima malattia.
Delasuss, Henri;