lunedì 7 ottobre 2019

L'INFERNO VISTO DAI SANTI



LE PENE DELL'INFERNO

Checché sia di questa questione, diavoli e anime in stato di dannazione soffrono l'assenza di Dio (la cosiddetta pena del danno) e ogni genere di inimmaginabili tormenti sensibili (la cosiddetta pena del senso).

a. L'assenza di Dio

Il più grande tormento dei dannati è il non poter più vedere Dio. Per coloro che vivono sulla terra, immersi come sono nei sensi e distratti da mille cose, il non poter vedere Dio potrebbe ritenersi come qualcosa di insignificante quasi. Finché infatti si vive quasi solo di materia, l'uomo può vivere anche senza Dio, come se egli non esistesse affatto. E purtroppo così vivono milioni di uomini, tutti ingolfati nel lavoro, nei piaceri della terra, nel guadagno di denaro e di beni dalle mille attrattive. Spogliato però del suo corpo e venuto del tutto meno il mondo delle cose passeggere, si avvertirà da tutti il peso di quella irresistibile innata tendenza a Dio che è l'eterno, l'infinito, la pienezza, la vera felicità che soddisfa in tutto.
Nel cuore del dannato c'è questa indistruttibile e fortissima tendenza verso Dio, e allo stesso tempo una spaventosa e irresistibile avversione che lo porta a odiarlo con odio inestinguibile, a bestemmiarlo incessantemente. E come un'onda portata inesorabilmente sulla spiaggia, egli tende e si slancia verso Dio e sempre ne è ricacciato. Quel Dio, mille volte offertosi nell'amore e nell'abbraccio del perdono, e mille volte rifiutato, ora per il dannato è il vero bene dal quale si sente per sempre escluso. La sua infelicità e la sua disperazione stanno soprattutto qui.
Tutto ciò è presentato dal Faber in una splendida pagina, - che riportiamo qui integralmente, scusandoci con i lettori per la sua lunghezza - nella quale si chiede a che cosa si può assomigliare questa pena. "... Vediamo a che somigli, poiché fortunatamente eccede ogni immaginazione a concepirne la tremenda realtà.
Supponiamo che noi potessimo vedere gli ingenti pianeti e le ponderose stelle rotanti la loro orrenda massa con spaventevole e forse con rumorosa velocità, tuonando nei campi del firmamento con furioso moto gigantesco, quale viene debolmente raffigurato da una valanga, e descrivendo con deviazioni che spaventano e con evoluzioni che fanno rabbrividire, le orbite per forza centripeta e centrifuga; noi vedremmo nella nudità delle sue ingenti operazioni la legge divina di gravità.
In pari modo noi scorgeremmo le vere relazioni tra Dio e noi, il vero significato e valore della sua benefica presenza, se potessimo vedere un'anima dannata al momento della sua riprovazione finale e giudiziale, pochi istanti dopo la sua separazione dal corpo, ed in tutto il vigore d' un'anima sciolta dall'ingombro del corpo e nell'orrore d'un penare senza fine.
Nessuna belva feroce nelle selve, nessuna chimera dell'immaginazione pagana potrebbe essere così orribile. Appena tirata l'insuperabile barriera tra essa e Dio, ciò che i teologi chiamano amore radicale della creatura per il Creatore erompe in una vera tempesta di incessanti sforzi. Cerca il suo centro, e non lo trova. Balza verso Dio, ed è di nuovo piombata al basso. Si lancia e batte contro le pareti di granito della sua prigione con tale incredibile forza che il pianeta deve essere ben saldo nel suo equilibrio per non spostarsi all'urto di quella violenza spirituale. Ma la legge di gravità è ancora più forte, ed il pianeta oscilla lievemente nella sua splendida atmosfera. L'anima sciolta dal corpo non può impazzire, altrimenti l'idea di un insuperabile desiderio di Dio, e l'inefficace attrazione della gloriosa Divinità, basterebbero a far dare volta alla ragione.
Percorrendo la sua bruciante gabbia, quello spirito colle sue molte facoltà ed accresciuta intelligenza spende la sua tormentosa immortalità variando, sempre ricominciando e compiendo con monotonia, come belva ingabbiata contro le ferree sbarre, un triplice movimento, non tre movimenti successivi, ma simultanei, un triplice movimento disperato.
Nella sua rabbia vorrebbe raggiungere Dio, ed afferrarlo e detronizzarlo, ucciderlo e distruggerlo. Nella sua agonia vorrebbe soffocare la sua interna sete di Dio, che la inaridisce, la dissecca e la brucia, con tutto il furente orrore d'una sfrenata frenesia. Nelle sue furie vorrebbe spezzare le sue strette catene di rodente fuoco che fissano e rendono immobile il suo amore radicale del Sommo Bene, e la sospingono sempre indietro con urli crudeli, rendendo vana la sua disperata tendenza verso il Centro Increato. Con questi continui e vani tre sforzi passa la sua vita d'interminabili orrori. La veemenza con cui lancia le sue imprecazioni contro Dio è vana; esse ricadono senza salire molto alte, restando molto al di sotto del suo tranquillo e festeggiato trono.
Finalmente le passa innanzi l'immensità di Dio, che per lei è improfittevole e senza consolazione; questa non è una vera immagine, ma solo un'ombra informe, ma pur l'anima conosce che è Dio. Con uno strido che dovrebbe essere udito in tutto il creato si slancia su tale ombra, ed urta, benché puro spirito, contro terrori materiali. Tenta afferrar l'ombra di Dio, ed invece abbraccia scottanti fiamme. Si rialza per altra riscossa contro di lui, ma si vede innanzi dei ceffì satanici. Si slancia presso quell'ombra quanto è lunga la propria catena, ed urta un'atterrita folla di anime maledette e dannate come lei. Così si contorce sempre col sentimento di essere la tormentatrice di se stessa. Così non passa ora del nostro tempo, non istante delle nostre stellate notti, non intervallo nelle vibrazioni delle nostre selve rischiarate dalla luna, non ondulazione d'aure profumate dai nostri giardini, non nota di delizia musicale per noi, senza che quella sciagurata e non commiserevole anima non si senta nuovamente venir meno per l'opprimente sentimento che tutto quanto la circonda è eterno. Tutto questo non è che l'assenza della dolce presenza di Dio nella sua creazione".
S. Agostino, a sua volta, afferma: "L'essere respinto dal regno di Dio, l'essere esiliato dalla città di Dio, l'esser privati della vita di Dio, mancare della grande abbondanza della dolcezza di Dio... è pena così grande che non può essere paragonata a nessuna altra pena che si conosca".
"Allontanatevi da me, maledetti" (Mt 25,41). Questa parola che il Giudice supremo dirà a tutti gli esclusi dal paradiso, pesa già come una montagna sul dannato e per sempre. Una tragedia che le più patetiche situazioni umane - come quella della madre tutta tesa verso la sua creatura che non può vedere; o come quella dell'esule che muore di nostalgia e di rimpianto per la sua terra amata che non vedrà mai più - non ne sono che immagine sbiadita. 

b. La pena del senso

Alla pena del danno è congiunta pure la pena del senso, e cioè quell'insieme di sofferenze che affligge il corpo dell'uomo attraverso i suoi cinque sensi: vista, udito, gusto, odorato e tatto. I dannati, pur spogliati del corpo, le soffrono come se lo avessero. Il Signore - dice Teresa d'Avila - volle farmi sentire in ispirito quelle pene ed afflizioni (= dell'inferno), come se le soffrissi nel corpo.
Perciò i dannati vedono continuamente immagini e spettacoli orrendi, sono frastornati da clamori e urla spaventose, sentono fetori da non dire; come pure sono cruciati da contatti e pressioni e cose del genere per tutto l'essere.
Le pene del senso consistono prima di tutto e soprattutto nel fuoco che brucia e tortura i dannati fin nelle radici stesse del loro essere.
Si obietterà: come può il fuoco torturare l'anima, lo spirito? A parte che Dio può tutto e quindi può fare pure che il fuoco tocchi e tormenti lo spirito; si deve ricordare che il fuoco dell'inferno, pur essendo vero fuoco come insegna la Chiesa, non è della stessa natura del nostro fuoco materiale.
La S. Scrittura parla soprattutto di fuoco ardente e di zolfo, di arsura dilaniante, di pianto spaventevole, di tenebre esteriori, di rimorsi laceranti (per grazie sciupate, per il tempo dedicato a futilità e peccati, per le tante possibilità di bene perdute ecc.: verme che non muore), di odori ributtanti e fetori che emanano come da corpi in putrefazione (geenna). In particolare, Giobbe parla di "luogo tenebroso coperto dalla caligine di morte, di regione di miseria e delle tenebre, dove regna l'ombra di morte, il disordine e l'orrore sempiterno" (Giob 10,21.29).
Perché anche una pena del senso oltre quella del danno?
Perché il peccato, oltre ad essere offesa di Dio, è indebito godimento ed esaltazione folle delle creature.
"Ogni peccato, dice S. Agostino, è aversio a Deo et conversio ad creaturas", e cioè allontanamento da Dio per andare verso le creature. E perciò il peccato va castigato sia per il colpevole allontanamento da Dio e sia per la disordinata preferenza accordata alle creature anziché a Dio.
Lo stesso pensiero, più o meno, in S. Tommaso che scrive: "La pena è proporzionata al peccato. Nel peccato vi sono due aspetti: la separazione dal Bene increato, che è infinito (per questo il peccato è infinito), e l'adesione a un bene effimero, e pertanto il peccato è finito, sia perché un bene effimero è finito, sia anche perché l'adesione stessa è finita, non potendo gli atti delle creature essere infiniti. In quanto il peccato è separazione da Dio, risponde alla pena del danno, che è pure infinita, esso è infatti la perdita di un bene infinito, Dio; in quanto è una disordinata adesione alle creature, risponde alla pena del senso, che è finita". 
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Padre Antonio Maria Di Monda

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