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giovedì 29 settembre 2022

SAN PIO V IL PONTEFICE DELLE GRANDI BATTAGLIE

 


L'AVVERSARIO DELL'ERESIA 


Lo smacco della Dieta d'Augusta accrebbe in Germania le difficoltà. L'imperatore per superarle ideò nuovi progetti. Ma, come tutti i pusillanimi, dovette cercare appoggi, da tutte le parti. Pronto alle prime iniziative, desiderava che qualcuno gliele suggerisse, per potere, tentennante com'era, gettare su altri il peso della responsabilità. Verso la fine del 1569 decise di convocare a Spira una nuova assemblea. 

   Era stato avvertito che il Commendone, sentendosi stanco per le sue legazioni, si trovava a Verona per riposarsi. Grazie a quest'assenza, Massimiliano pensava di poter facilmente influenzare gli Elettori cattolici; ma i disinganni gli vennero proprio dai suoi stessi aiutanti e amici. Augusto di Sassonia, a Dresda, non volle ricevere i suoi inviati. “Ammalato come sono, gli fece sapere, con la stanza piena di medicine e d'unguenti, non posso accordar udienza”; poi gli scrisse che sarebbe stato per lui un vero pericolo lasciar la casa, e che non si sentiva di far nuove spese. Con quale vantaggio avrebbe esposto il suo scettro e le sue sostanze in una seconda Dieta d'Augusta? 

   Massimiliano, poco soddisfatto e ferito da questa risposta, tentò di commuovere l'Elettore, informandolo ch'egli stesso sarebbe venuto presso di lui. Ma Augusto di Sassonia si chiuse nel silenzio. I duchi di Brandeburgo e l'Elettore palatino si mostrarono quasi sprezzanti. “I miei ordini, le mie preghiere, esclamava gemendo l'imperatore, non valgono più un fuscellino di paglia agli occhi della maggior parte dei miei sudditi. Tutto è insubordinazione e disordine. Che devo fare?”. 

   Malgrado la noncuranza dei principali Elettori, Massimiliano si recò a Spira, e vi portò un lungo e complicato Memoriale sullo stato attuale e il governo del Sacro Impero, nostra cara patria, che aveva fatto redigere da Lazzaro di Schwendi. Questo generale, partigiano della Confessione di Augusta, proponeva come rimedio ai mali della Germania l'emancipazione dalla tutela romana e l'abolizione del giuramento di fedeltà. 

   Anche l'imperatore si lusingò di aver scoperta la medicina, e la indicò al Santo Padre con una semplicità e un'audacia che rasentava l'incoscienza. “Siccome, diceva, dalla molteplicità delle sètte nasce una confusione che pregiudica alla fede, è necessario autorizzare ufficialmente un'eresia e abolire per forza tutte le altre. Cosi il luteranismo si troverà da solo contro il cattolicismo e la libertà di scelta tra queste due religioni assicurerà la tregua degli animi”. 

   E' facile immaginare l'indignazione di Pio V per questo ingenuo messaggio e la pronta risposta data. 

   Il progetto dell'imperatore non era che una nuova illusione. Come poter ottenere la fusione di tante menti tra loro divise? Se i Riformati s'intendevano nel negare i dogmi, erano però divisi quando si trattava di formulare un corpo di dottrina. E non era un'impudenza paragonare la Chiesa a una delle sètte ugonotte, foss'anche la meno lontana dalle credenze cattoliche? Nessun Papa avrebbe mai ammesso un simile paragone; tanto meno Pio V, il quale spedì incontanente delle lettere al Commendone, perché ripigliasse la sua legazione. Questi lasciò la sua villeggiatura e si recò a Spira. L'imperatore, invece di trovarvi gli Elettori desiderati, trovò il Nunzio che mandò a monte tutti i suoi ardenti voti. 

   L'incontro fu cordiale; perché se Massimiliano temeva l'influenza del cardinale, ne apprezzava l'affabilità. Ma, mostrandosi egli ostinato nelle sue fantastiche idee, le relazioni divennero nuovamente tese. 

   Gli ordini del Papa furono perciò più severi; egli si mostrò stanco di veder metter sempre sul tappeto le stesse questioni e sempre minacciati i diritti della Chiesa per causa dell'incostanza dell'imperatore. Nel 1566, sul principio del suo pontificato, aveva dato prova di longanimità; nel 1570, stante la grande autorità acquistatasi, volle fare un colpo d'audacia, che avrebbe dovuto avere un'efficace ripercussione su tutte le corti d'Europa. Significò dunque al legato di deporre Massimiliano, qualora questi persistesse nei suoi errori. 

   Questa grave misura, colla drammaticità delle cerimonie che l'accompagnavano, doveva rivestire una specialissima importanza. Commendone avrebbe dovuto officiare solennemente per l'ultima volta alla presenza degli ambasciatori delle potenze cattoliche, e, dopo aver letto questo versetto del Vangelo: “Se qualcuno non ascolterà le vostre parole, uscendo fuori da quella casa o da quella città, scuotete la polvere dei vostri piedi”, doveva lasciare Vienna con tutti i rappresentanti della Santa Sede. 

   Ma il Nunzio, che conosceva la suscettibilità del carattere tedesco, giudicò che quest'uso straordinario d'un potere assoluto e questa deposizione clamorosa d'un imperatore non avrebbero avuto praticamente altro risultato che di unire in un fascio compatto le sétte eterogenee e disunite. Già altra volta egli aveva rifiutato l'invito di San Carlo Borromeo e del cardo Altemps che lo sollecitavano a prender parte al Conclave, adducendo per motivo che la sua presenza in Germania avrebbe con maggior vantaggio servito la Chiesa. In questa circostanza non fece parola degli anatemi pontifici e si contentò di influire sull'indolenza di Massimiliano e accrescere la sua irrisolutezza. 

   Questo ardire del cardinale raggiungeva quasi l'indipendenza. Bisogna dire che, per agire con una tale libertà, avesse la certezza di godere grande credito presso il Santo Padre, se pure non la si deve attribuire a una certa fiducia nei propri punti di vista, nella quale non manca un po' di presunzione. Erano necessari in ogni caso la santità di Pio V, il suo disinteresse, la sua lealtà nel ritenere che si potesse pensare meglio di lui e l'apprezzamento dei servizi a lui resi dal Commendone, per non ascoltare le critiche vivaci che gli invidiosi facevano alla condotta del legato. 

   Massimiliano però non volle darsi per vinto. Egli accarezzava la sua utopia coll'amor proprio di un autore che accarezza la sua opera, e l'avrebbe senza dubbio mandata ad effetto, tanto l'esaltazione di Cosimo aveva accresciuto i suoi pregiudizi contro il Papa. Ma la morte della regina di Spagna sconvolse tutti i suoi progetti; ed egli rivolse la sua ambizione ad altre cose. Il proprio interesse lo persuase a mostrarsi cattolico; la disperazione e l'ira dei Riformati, che lo maledivano sempre più per il suo umore incostante, l'indussero finalmente a decidersi. 

Card. GIORGIO GRENTE

domenica 10 luglio 2022

SAN PIO V IL PONTEFICE DELLE GRANDI BATTAGLIE

 


L'AVVERSARIO DELL'ERESIA 

Abbiamo visto come San Pio V, e da religioso e da cardinale, abbia, quale custode indefettibile dell'ortodossia, coraggiosamente combattuta la Riforma. Da pontefice la sua vigilanza si fece ancora più attenta. Qualcuno dei suoi predecessori, o per troppa indulgenza o per mancanza d'accortezza, aveva allentato alquanto le redini del governo; egli le strinse con mano ferma, senza curarsi di chi s'adombrava e s'impennava per il cambiamento di autorità. E mentre da una parte si sforzò di riformare i grandi, prelati e i cardinali, pretese dall'altra che imperatori e re cattolici si sottomettessero alle direttive della Chiesa. 
   È necessario seguirlo attentamente nella sua lotta incessante e generale contro i nemici del cattolicesimo. La necessità in cui ci troviamo, di esporre frammentariamente i fatti, non deve farci dimenticare che Pio V seppe dirimere a un tempo tutte le questioni religiose molteplici e delicate, che esigevano un pronto intervento. 
 
   La Germania gli suscitò contro molti avversari, poiché la Riforma per la connivenza e l'aiuto dei principi, vi aveva messo profonde radici. Poco curanti della dottrina, costoro avevano soprattutto approfittato delle dispute dogmatiche, per accrescere le loro ricchezze e consolidare il loro potere. Il motto di Melantone: “I principi sono chiamati divinità dal salmista” non lusingava soltanto il loro orgoglio, ma legittimava la loro intrusione nella sorveglianza delle chiese e nella direzione dei fedeli. 
   Ma su questo terreno, ove entrarono con tanta temerità, incontrarono oltre il comune avversario il cattolicesimo, le loro stesse passioni. Avidi di guadagno e di supremazia, i duchi di Brandeburgo, di Sassonia e gli Elettori palatini si lanciarono all'assalto, ma i loro interessi e la loro ambizione causarono in breve la rottura del loro fragile accordo, 
   Quando Pio V salì al pontificato, la lotta fino allora ritardata dal naturale, lento carattere dei tedeschi, minacciò di scoppiare. Cattolici e protestanti si stancarono di vivere sotto il regime provvisorio del trattato di Augusta (1555). I primi, scossi dal loro torpore dai gesuiti, che con la predicazione e l'insegnamento cominciavano a convertire Colonia, Treviri, Monaco, Ingolstadt, Innsbruck e molte altre città dell'impero, s'apprestavano a rivendicare e riprendere i loro antichi privilegi. I secondi, insuperbiti dei loro successi, intendevano di ottenerne dei maggiori e fare abolire ufficialmente il reservatum ecclesiasticum; poiché questa rinuncia ai beni ecclesiastici imposta a ogni beneficiario che accettava la Riforma, non impediva che un certo numero di beneficiati, segretamente guadagnati all'eresia, rimanessero ancora nei loro impieghi. 
   Il sostenitore nato del cattolicesimo in questa lotta era l'imperatore; suo compito era difendere la S. Sede e riunire i dissidenti. Ma Pio V non poteva far grande assegnamento sul suo aiuto. Massimiliano II aspirava, come i principi tedeschi, a sottrarre i suoi Stati a ogni giurisdizione di Roma. Da tempo simpatizzava coi luterani, e, nonostante le condanne del pontefice, non disdegnava di approvare altamente il detto, molto decantato dagli uomini politici protestanti: Cuius regio, huius religio, quale è lo stato, tale sia la religione. 
   Suo padre Ferdinando, essendo stato informato che a sua insaputa aveva interrogati gli Elettori di Sassonia, di Brandeburgo e del Palatinato su un loro eventuale concorso “nel caso che la dominazione papale divenisse più imperiosa”, temette di vedere il Sacro Impero posto in balia a delle credenze tanto incerte. “Ti confesso schiettamente, gli scrisse, che se tu non mi assicuri che conserverai la religione cattolica e che vuoi vivere e morire nel seno della Chiesa romana, io non solo non sosterrò la tua elezione, ma sarò il primo a combatterla” 1 . 
   Morto Ferdinando (1564), i principi brigarono per trascinare Massimiliano a mettersi a capo d'una guerra contro la Santa Sede. Essi sapevano troppo bene che questi aveva manifestato a Cristoforo di Wurtemberg la speranza di appianare le dissensioni dei Riformati, per “poter torcere il collo al Papa”. Sapevano inoltre ch'egli aveva mostrato rammarico per l'elezione del cardo Ghislieri, e che mentre sedeva a tavola con Alberto di Baviera, avendone ricevuto l'annunzio da un corriere di Cosimo de' Medici, senza alcun riguardo alla presenza del Commendone aveva fatte delle riflessioni poco favorevoli sul carattere e sui meriti del nuovo eletto 2 . L'elettore palatino, Federico III, si sforzava perciò di convincere i suoi colleghi: “Aiutiamo, diceva, il giovane imperatore a liberarsi dal papismo, e a distruggere l'idolatria e la superstizione”. 
   L'unico mezzo per indurlo a decidersi era la convocazione della Dieta. Durante queste assisi si sarebbe facilmente sollevata la questione che avrebbe acuito l'antagonismo tra il papato e l'impero, e avrebbe affrettata l'autonomia religiosa della Germania emancipata. 
   Uno dei motivi più seducenti era il pericolo imminente dell'invasione turca e l'obbligo di scongiurarlo. Gli ottomani minacciavano la frontiera orientale dell'impero, e Soliman si vantava di occupare presto la città di Vienna. Massimiliano, allarmato, convocò la Dieta ad Asburgo. Il disegno dei luterani e dei calvinisti andava effettuandosi al di là di quanto essi potevano desiderare, e poiché uno dei punti del programma dell'assemblea era la difesa del territorio imperiale, la Santa Sede, rassicurata a questo riguardo, non avrebbe pensato a mandarvi il Nunzio, e si sarebbe così potuto più facilmente circonvenire l'imperatore. 
   Ma quelli che facevano assegnamento sull'indifferenza di Pio V e si burlavano della sua astensione, ebbero una sorpresa ben amara. Al nuovo Papa, appena uscito dal conclave, fu annunziata la convocazione della Dieta. Egli invece di fermarsi all'argomento, trattato calorosamente, della difesa del Sacro Impero contro le orde musulmane, andò dritto a una frase incautamente inserita dall'imperatore nella sua dichiarazione: “L'assemblea potrà pure definire esattamente i dogmi cristiani, e stabilire le misure utili per arrestare il progresso delle sette perniciose, che si sono introdotte in Germania”. 
   Nonostante questo colpo da to con destrezza alle confessioni eretiche, “la prudenza è madre di sicurezza”, è un fatto che nelle Diete precedenti si erano promulgati dei nuovi dogmi per la Chiesa. Pio V non si lasciò ingannare. 
   “In mezzo agli strepiti d'una corte rumorosa, scrive Fléchier, in mezzo a tutte le premurose acclamazioni che salutavano la sua elezione a pontefice, Pio V senza lasciarsi vincere da quell'emozione che prova ordinariamente chi giunge al potere, cominciò subito a disimpegnare il proprio ufficio, e spedì un breve al card. Commendone, ordinandogli di trovarsi presente alla Dieta germanica, in qualità di legato apostolico. Indirizzò nello stesso tempo a lui, al cardo Truchsess, agli arcivescovi di Magonza e di Treviri e ai vescovi tedeschi istruzioni forti e precise, perché non tollerassero alcuna diminuzione delle prerogative della Santa Sede, e soprattutto non permettessero a un'assemblea laica di tenere una specie di concilio, e di giudicare su punti riguardanti la fede”. 
  Truchsess, che si era tempestivamente congratulato delle “disposizioni pacifiche” di Pio IV dovette presto constatare che le concessioni non ottenevano buoni frutti e plaudì all'abile fermezza di Pio V, che si opponeva alle manovre dei protestanti. 
    Con il legato il Papa fece partire alcuni teologi eminenti: Scipione Lancellotti, Nicola Sanders, e i gesuiti Nadal, Ledesma e San Pier Canisio. 
   La scelta del Canisio fu felice; egli era fornito d'ingegno, d'eloquenza e di grande virtù; aveva il vantaggio di essere gradito ai tedeschi, e veniva a buon diritto considerato come uno degli uomini più affezionati al proprio paese. Non contento di “promettere a Dio di faticare per la salvezza della Germania insieme all'angelo custode dell'impero”, bramava di far convergere sulla sua sola patria tutta l'attività della Compagnia. Lasciamo l'Italia e la Spagna, scriveva da Worms al Padre Vittoria nel 1557, e consacriamoci per tutta la vita alla Germania. Canisio godeva inoltre fama di uomo mansueto 3 . 
   “La verità dev'essere difesa con carità, scriveva da Asburgo nel 1559, e dobbiamo far tutto il possibile per acquistarci la stima di quelli che non la pensano come noi”. Ora è appunto questa condiscendenza che il cardinale Madruzzi e l'arcivescovo di Magonza sollecitavano dalla Santa Sede. “I tedeschi, sia regolari che secolari, diceva Truchsess, non si lasciano facilmente convincere che devono ricorrere a Vostra Santità, e si sa per esperienza che essi non hanno più molta fiducia di guarire, appena si dice loro che i rimedi devono venire da Roma” 4 . La scelta del Canisio fu perciò frutto di una tattica felice; la simpatia personale ch'egli ispirava, si rifletteva sulla missione del legato. Appena giunto, il santo. diede principio alle sue predicazioni; tre o quattro volte al giorno egli attirava attorno al pulpito numerosi uditori, e la sua influenza si fece a poco a poco sentire anche nella Dieta. 
   Sulla Dieta agiva direttamente il card. Commendone 5 . Attraverso conferenze private, egli aveva subito notificato gli ordini della Santa Sede ai duchi di Cleves, di Baviera, di Brunswick e agli arcivescovi elettori di Treviri e Magonza. La Dieta, disse loro, non ha ricevuto il mandato di prolungare il Concilio di Trento né di discutere sulle deliberazioni. Cercare una via di conciliazione coi Riformati sarebbe a un tempo errore e sogno vano. Un'assemblea cosi eterogenea, chiamata all'improvviso a dare il proprio giudizio su dissensioni in fatto di religione, invece di risolvere le differenze, non farebbe che aggravarle. Se, in seguito ai loro colloqui, i protestanti partissero più disuniti di prima, qual bene si sarebbe ottenuto da un dibattito, nel quale principi, ecclesiastici e predicatori non faranno altro che fantasticare, per far trionfare ciascuno la propria interpretazione? In quale spaventevole discordia non farebbero precipitare le discussioni tra cattolici e luterani della Confessione rettificata e della Confessione non rettificata? Come mettere d'accordo i seguaci di Hessus, di Strigel, di Wigand e di Schwenkfeld, i Flaciniani, gli Adiaforisti, i Synergisti, gli Osiandriti, i Muscoliti, senza parlare degli Zwingliani, dei Calvinisti, dei novelli Ubiquisti e di tanti altri riformatori? Ammesso il principio della controversia, chi dirà l'ultima, definitiva parola sull'interpretazione della Sacra Scrittura? Quando anche l'imperatore volesse tentare un colpo di forza, incontrerebbe nei suoi Stati un'opposizione irriducibile, e la cristianità non si adatterebbe mai a ritenere come sue le credenze d'un'assemblea laica o mista. Il Santo Padre, conchiudeva il legato, proibisce sotto pena di incorrere nelle censure, che nella conferenza si tocchino questioni dottrinali.  
   Commendone fece pervenire indirettamente all'imperatore queste ingiunzioni, riservandosi di convincerlo per via ufficiale, qualora egli avesse tentato di sfuggire. 
   Massimiliano, che conosceva il Papa, valutava pienamente il valore di tali avvertimenti, e poiché gli ripugnava di romperla pubblicamente con la Chiesa, decise di attendere, senza provocarla, l'occasione per rendersi indipendente. E cosi quando all'apertura della Dieta, nel marzo 1566, il duca di Baviera lesse il messaggio imperiale, il tentativo di conciliazione tra cattolici e protestanti, stipulato nella lettera di convocazione, era già svanito. La Dieta a sua volta ratificò le decisioni di San Pio V; gli argomenti religiosi non provocarono alcuna disputa, e cattolici e riformati, riuniti separatamente, presentarono per iscritto all'imperatore le loro reciproche querele. 
   Gli ugonotti si assembrarono tumultuosamente nel palazzo di Augusto di Sassonia. Là, pur accapigliandosi tra loro, finché si trattò delle loro dispute private, si affratellarono per opprimere coi peggiori oltraggi i loro colleghi cattolici. 
   Questi risposero alle ingiurie dei loro avversari con un tono di moderazione, che di per se stessa era già una forza: l'urbanità rende migliori le buone ragioni. Essi deplorarono che si fosse osato trattare la loro religione come “idolatria pagana”, e che venissero accusati di attentare all' onore e alla prosperità della Germania. Quindi, passando all'offensiva, svilupparono questo argomento, messo pure in rilievo da Ronsard nella sua Elegia a Guglielmo des Autels: “Se è necessario credere che Dio non si sia ricordato della sua povera Chiesa che da quarant'anni in qua, e abbia atteso finora ad accendere miracolosamente nel Sacro Impero germanico la luce infallibile, che dovrà rischiarare in seguito tutta la cristianità, per quale incomprensibile vendetta l'Onnipotente, dopo aver riscattato a sì caro prezzo il genere umano e inviato lo Spirito Santo alla Chiesa cristiana, ha per tanto tempo rifiutata una tal grazia ai nostri pii antenati, e abbandonati alla eterna dannazione tanti milioni d'anime battezzate nel suo nome?”. 
   A questa replica franca e cortese, i Riformati non risposero che raddoppiando le ingiurie 6 . 
   Tuttavia, se i cattolici si trovavano facilmente d'accordo sui punti essenziali, differivano però tra loro su parecchi altri, non privi d'importanza. Il legato si mostrò tanto più inquieto, in quanto che gli ordini di Pio V, malgrado la loro precisione, davano luogo a polemiche. 
   Il Papa aveva ingiunto ai suoi rappresentanti di lasciar la Dieta, qualora questa avesse inserito nel suo programma la conferma della pace d'Augusta. Sorpresi per questa severità, gli elettori cattolici la disapprovarono, qualificandola come una esagerazione. Il Commendone stesso la giudicò una misura eccessiva. 
   Da parte sua non opponeva alcuna difficoltà a eseguire materialmente le istruzioni ricevute, ma voleva con una saggia prudenza adattarle alle circostanze. Ansioso dell'avvenire, interrogava i suoi teologi. Lancellotti e Sander si pronunciarono favorevoli alla partenza immediata; i tre gesuiti prospettarono una soluzione più benevola. Questa varietà di pareri accresceva le incertezze del legato, il quale fini di comunicare al Santo Padre il suo parere e quello dei suoi consiglieri. 
   Pio V persistette da principio nei suoi sentimenti; ma poi, pregato da San Francesco Borgia, superiore generale dei gesuiti, da lui tenuto in grande stima per le sue virtù, si decise a consultare la Congregazione dell'Inquisizione. Questa fu di opinione che la semplice ristampa, tutta teoretica, del trattato d'Augusta non abrogava i diritti della Santa Sede. Allora il Papa autorizzò il Commendone ad agire in piena libertà. 
   Le circostanze concorsero a trarre il cardinale d'imbarazzo. Le violente dispute tra luterani e calvinisti, gli intrighi di Augusto di Sassonia e il processo dell'Elettore palatino attirarono tutta l'attenzione della Dieta. 
   Massimiliano, sempre bramoso di far le parti di arbitro e impotente a ristabilire la concordia, s'irritava contro i protestanti che chiamava “gente indecisa e mobile”. Stanco alla fine di tante lungaggini e inutili schiamazzi, congedò gli Elettori senza aver potuto effettuare il suo sogno. 
   Cosi, grazie all'energia di Pio V e alla destrezza del suo legato, i loschi maneggi della Riforma naufragarono miseramente. Solo il Commendone ottenne dal suo soggiorno qualche vantaggio: la soppressione degli abusi che il Santo Padre gli aveva segnalati. Il nuovo arcivescovo di Colonia, sospetto di condiscendenza verso l'eresia, dovette dichiararsi ortodosso, e la sede episcopale di Magdeburgo non venne più aggiudicata alla Casa di Sassonia. Egli impose ancora ai disertori ecclesiastici di rientrare, mise termine alla lunga vacanza delle sedi episcopali di Vienna e Gratz, costrinse parecchi titolari a ricevere la consacrazione, e provvide che tutti i vescovi dell'Impero avessero consiglieri dotti e virtuosi. 
   Si capisce come Pio V, soddisfatto dei felici risultati di questa legazione, abbia voluto conferire al suo rappresentante insigni onori. Il Papa, cosi umile, cosi nemico di ogni sfarzo che riguardasse la sua persona, voleva che venissero debitamente onorati quelli che avevano ben meritato della Chiesa. 
   Quando seppe del ritorno del Nunzio, radunò la corte pontificia, e diede incarico a una deputazione del Sacro Collegio di precederlo e accompagnarlo in trionfo al Vaticano. Là, assiso sul trono, lo accolse con grandi segni di stima e lo dichiarò assai benemerito della Sede Apostolica e di Dio. 

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Card. GIORGIO GRENTE

mercoledì 8 dicembre 2021

SAN PIO V IL PONTEFICE DELLE GRANDI BATTAGLIE

 


IL DIPLOMATICO 

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Queste furono le principali questioni politiche da Pio V  trattate durante il suo pontificato. La sua attenzione fu pure rivolta ad altre questioni; ma la stretta connessione di queste con la repressione dell'eresia e l'organizzazione della Lega antimusulmana esige che non se ne parli separatamente. Dobbiamo tuttavia segnalarle, per poter meglio comprendere la sua immensa attività. 

   Queste discussioni politiche, che avrebbero occupata tutta l'attenzione del più fine diplomatico, non erano per lui che dei leggeri incidenti, i quali si perdevano in mezzo ad avvenimenti assai più considerevoli. Cosa erano queste piccole competizioni di fronte alla quotidiana resistenza al protestantesimo, ai suoi grandiosi progetti d'una intesa europea contro i turchi, e le riforme interne della Chiesa? Soltanto uno spirito ben ordinato, una grande prontezza nelle decisioni e una costanza a tutta prova potevano resistere al peso d'un si grave compito. Diciamo meglio: solo uno speciale aiuto di Dio, da lui ottenuto con umili, frequenti preghiere e con mortificazioni, poteva guidarlo in mezzo a tanti scogli. 

   Su qualsiasi campo si eserciti la sua diplomazia, essa tende con tutti gli sforzi verso un solo fine: la gloria della Chiesa. 

  La Chiesa! Pio V non la perde mai di vista, e non ha che una sola preoccupazione, servirla, difenderla, onorarla. Attraverso le rivalità al di sopra degli egoismi e delle umane ambizioni, la Chiesa si erge vigile, disinteressata, divina. Ben lontano dal rapirle una piccola parte di gloria, egli sembra perfino ignorare l'onore che la Chiesa riceve dalla sua collaborazione. Questa totale dedizione di sé riveste tutte le sue imprese che effettivamente sono grandiose. 

   Mentre l'uomo scompare volontariamente nell'ombra e cede il posto al Sommo Pontefice, unicamente preoccupato di compiere sotto la guida dello Spirito Santo la sua alta missione, le considerazioni terrene svaniscono, e gli orizzonti si aprono oltre i confini di questo mondo. Non si tratta di conquistare dei territori o di mirare a risultati effimeri, meno ancora di sacrificarsi con ardore per l'orgogliosa soddisfazione di soggiogare dei re, ma di consolidare le forze soprannaturali della Chiesa e di allargare la sfera della sua azione. 

   Questo assoluto distacco da tutto ciò che è terreno spiega la condotta diplomatica di Pio V, e giustifica la fermezza con la quale seppe rivendicare i diritti della Chiesa. 

   La Fontaine ha scritto: Le persone più abili sono le più accomodanti”, ma Pio V ignorava affatto una simile abilità. Via le sottilità litigiose, le scaltrezze raffinate, le concessioni simulate! Ai suoi occhi la politica non era un vano esercizio d'equilibrio, dove quel che importa è manifestare subito la propria destrezza. Egli misurava una cosa sola: la formidabile responsabilità che pesava sulla sua coscienza. Di qui le sue lunghe riflessioni prima di prendere una decisione importante. “Sua Santità domanda tempo per decidere, scriveva suo nipote, il cardo Alessandrino; poiché secondo il costume della Santa Sede, che non giudica senza aver prima ben esaminato, il Santo Padre intende discutere la causa con tutte le circostanze e con la dovuta ponderatezza” 20 . 

   Di qui il domandar consigli, il convocare commissioni: “Sua Santità, scriveva lo stesso cardinale al Nunzio apostolico di Spagna, ha designato quattro cardinali, versati nella conoscenza del diritto, molti dottori ecclesiastici e laici, per dilucidare bene la questione”. Di qui soprattutto le notti trascorse in preghiera, e i suoi digiuni e le sue austerità nei giorni che precedevano qualche decisione d'importanza. 

   Di qui finalmente quella meravigliosa serenità d'animo, ch'egli sapeva conservare dopo aver presa una deliberazione. 

   Inaccessibile alla paura, fermo nei suoi disegni, qualora venissero lese o misconosciute le prerogative della Santa Sede, avrebbe creduto di commettere un tradimento, se non le avesse difese con tutta la forza del suo animo; e perciò esigeva che i diritti e i privilegi della Chiesa rimanessero intangibili, con un coraggio e una risolutezza che sembravano far rivivere la costanza e l'ardore di Gregorio VII. 

   Queste qualità, da lui rivelate nella soluzione di questioni politiche a un tempo e religiose, risplendevano di luce ancora fulgida, quando si trattava di questioni concernenti la dottrina e i destini del cattolicesimo. L'eresia non ha forse mai avuto un avversario più formidabile. 

Del Card. GIORGIO GRENTE 

giovedì 14 ottobre 2021

SAN PIO V IL PONTEFICE DELLE GRANDI BATTAGLIE

 

IL DIPLOMATICO 

***

Il Commendone avrebbe voluto approfittare di certe manifestazioni della Svezia verso la Santa Sede, per riattaccare con quella nazione relazioni diplomatiche e religiose. 

   I principi Eric e Giovanni, che si disputavano la corona, avevano scelto come arbitro Pio V; l'occasione pareva quindi assai favorevole. Ma Rusticucci, conoscendo meglio le cose, si frappose e rese vani gli sforzi del vescovo di Zante. Anche il Papa, quando seppe che la regina Caterina, moglie di Giovanni III, mal diretta da Grohowski, s'era permessa di far la comunione sotto le due specie, fini di disinteressarsi degli svedesi. 

   Ad alcuno potrebbe recar meraviglia questa preferenza data da Pio V ai consigli del Rusticucci; ma la meraviglia cessa, qualora si pensi che anche la benevolenza dimostrata da Gregorio XIII verso gli svedesi non ebbe alcun risultato e aveva lasciato quel popolo nello scisma 15 . 

    Pio V comunque non tolse la sua fiducia al Commendone, poiché lo incaricò di far riconoscere da Massimiliano la dignità di granduca da lui concessa ai Medici di Firenze, in ricompensa dei servizi ricevuti da quella nobile Casa. Quando Carlo IX domandò di tenere in Francia delle milizie ausiliarie, Cosimo de' Medici, consultato dal legato pontificio, rispose ch'egli metteva i soldati toscani a libera disposizione della Santa Sede, ed era disposto a mandare rinforzi, qualora il Pontefice l'avesse giudicato necessario. 

   Pio V, commosso ed edificato da un ossequio tanto cordiale, giungendo le mani esclamò: “Mio Dio, concedetemi la grazia di non morire, prima che abbia ricompensato un principe tanto fedele alla vostra Chiesa!” 

   Questa ricompensa fu forse suggerita al Papa dallo stesso de' Medici, il quale si lamentava che la sua autorità effettiva su tutta la Toscana non aveva avuto una consacrazione ufficiale. Egli desiderava un diploma che stabilisse la sua sovranità e la rendesse ereditaria; ma conosceva troppo bene l'opposizione dell'imperatore, del re di Spagna e la gelosia dei principi italiani e tedeschi. 

   L'atto di Pio V richiedeva riflessione; era necessario far vedere all'Europa che non si soccorreva inutilmente la Chiesa. Matteo Judex, professore all'università di Jena, s'adoprava ad allontanare da Roma i principi tedeschi accusando di ingratitudine la Santa Sede. Sparse centinaia di copie di una vignetta umoristica di Lutero, in cui Papa Clemente IV, con l'aspetto di un boia, troncava il capo a Corradino, re di Napoli, figlio dell'imperatore Corrado IV, e sotto la caricatura si leggeva: “Il Papa ricompensa gli imperatori per i servizi che questi gli hanno resi”. 

   Una degna ricompensa a Cosimo doveva distruggere questa calunnia. Ma si richiedeva il consenso di Massimiliano; e non sarebbe stata questa un'occasione per rendere più gravi le dissensioni tra l'impero e il papato? 

   Dopo che il Papa ebbe pesato bene il pro e il contro, con un motu proprio del 1 settembre 1569 conferì a Cosimo e ai suoi eredi il titolo di Granduca della Toscana. La bolla d'investitura, enumerando tutti i motivi della decisione da lui presa, dissipava il dubbio che egli avesse agito per capriccio 16 . Il duca di Firenze aveva impedito la propaganda protestante in Toscana e mostrato il suo amore al cattolicismo. A richiesta dal Papa s'era affrettato a mandare in Francia le sue milizie e ve le aveva lasciate a lungo, contribuendo pure efficacemente alle spese della guerra contro gli Ugonotti. Aveva messo sotto la protezione di Santo Stefano un ordine cavalleresco da lui istituito per la repressione dei Barbareschi, e si mostrava vigile nel dar la caccia ai corsari e a sterminare il banditismo. Il suo Stato, retto con intelligenza e bontà, occupava in Italia un posto assai importante; vi si potevano ammirare città popolose, chiese metropolitane, sontuose cattedrali, università, porti, fortezze, e molti uomini che si distinguevano nelle lettere, scienze, belle arti, nella guerra. Liberi da ogni minimo vassallaggio, i Medici potevano stare alla pari colle case sovrane; la loro genealogia contava tre papi, molti cardinali, molti celebri personaggi, e l'attuale duca era alleato dell'imperatore, del re di Francia e di famiglie principesche d'Europa. 

   Gli invidiosi però andavano sussurrando malignamente che tanta gloria era offuscata da un' ombra, che gocciava sangue. Senza fare un parallelo tra fatti che disonoravano la memoria dei Borgia e quella dei Medici, si diceva sotto voce che anche questi non andavano esenti da macchie, e che all'uopo la loro mano, più agile che onesta, sapeva prontamente usare il veleno e la spada. 

   Lorenzo aveva organizzato l'uccisione di Giuliano de' Medici, si sospettava; Alessandro aveva lasciato a Firenze una nomea di tirannia e il popolo non aveva nessuno scrupolo di imputargli l'avvelenamento del cugino, Cardo Ippolito, e persino quello della madre. Nessuno comunque ignorava che suo cugino Lorenzino l'aveva ucciso a tradimento nel 1537. 

   Inoltre si raccontava apertamente che i Medici avevano anche esportato all'estero le loro violenze; Caterina de' Medici infatti non riusciva a scrollarsi di dosso l'accusa di aver concepito e quasi eseguito l'assassinio di Coligny. 

   Può essere che la malignità del popolo per il piacere di strombazzare ai quattro venti gli scandali o di vendicarsi del rigore dell'autorità medicea, abbia esagerato i fatti e dato un'aria di drammaticità a certe morti. Bisogna anche dire che i costumi turbolenti di quei tempi rendevano meno odiose le uccisioni. I popoli d'allora, ben lontani dal provare il sentimento di repulsione verso i sicari che proviamo noi, li ritenevano facilmente come degli abili giostratori, che trovavano un'attenuante nel proprio interesse o nelle proprie passioni. 

   Non si vide forse la corte più raffinata della penisola, quella di Ferrara compromettere la sua eleganza in questioni conclusesi tragicamente? Benvenuto Cellini e la sua allegra brigata, che si era autodefinita dei “giovani virtuosi”, più d'una volta si era divertito a pugnalare per gioco innocui avventori, senza per questo perdere la loro riputazione di galantuomini. Si dice che Paolo III mormorasse con paterna indulgenza: “Artisti come Benvenuto Cellini, sono superiori alle leggi comuni”. 

   Tuttavia, per quanto fosse allora attutita la sensibilità, molti e forti sospetti di intrighi delittuosi pesavano sui Medici, e prestavano il fianco alla gelosia e alla collera; è comprensibile quindi che la decisione di Pio V doveva naturalmente sollevare critiche e contestazioni. 

I pettegolezzi della folla non giungevano certo alle orecchie del Papa, egli non avrebbe tollerato che un chiacchierone o un importuno qualunque gliene facesse udir l'eco; ma non poteva evitare i commenti che si facevano in Europa, specialmente dai sovrani, commenti che andavano a ferire la decisione da lui presa. 

    Chi mostrò maggior sdegno fu Massimiliano. Il Papa sperava, che dovendo l'imperatore sposare suo figlio Francesco con una figliuola di Cosimo de' Medici, il matrimonio avrebbe scemato il suo malcontento: l'esaltazione del padre sarebbe tornata ad onore della novella arciduchessa e avrebbe meglio giustificata l'entrata di quella principessa nella casa imperiale. E qualora Massimiliano non avesse esplicitamente approvato l'atto del Papa, si sarebbe per lo meno mantenuto in un silenzioso riserbo. Ma fu tutto il contrario. Diverse congiunture spinsero l'imperatore a fare resistenza. I suoi diritti erano minacciati da tutte le parti. Egli assisteva impotente alla perdita progressiva della sua autorità e allo smembramento dei suoi Stati: la Francia, la Spagna, la Russia e la Polonia s'attribuivano arrogantemente qualche lembo del suo territorio, e i suoi stessi feudatari non gli rendevano più che qualche omaggio di pura formalità. Il suo dispetto traboccava. Giudicò cosi opportuna l'occasione di vendicare i suoi precedenti affronti, di richiamare l'Europa al rispetto della sua supremazia, e far sentire al Papa, da lui creduto debole, che la sua forza non era venuta meno. 

   L'imperatore con una lettera autografa rivendicò “i privilegi del Sacro Impero”, e incaricò il suo ambasciatore, il conte d'Arcos, di accentuare le sue richieste. Nel frattempo sfogava a Vienna la sua collera. 

   Può essere, che conoscendosi incapace d'agire facesse la voce grossa, o manifestasse dei propositi violenti allo scopo di essere trascinato nella lotta. Fatto sta che notificò all'ambasciatore d'Inghilterra “ch'egli avrebbe ricondotto l'audace vescovo di Roma agli antichi costumi dei tempi apostolici, e che i principi tedeschi non l'avrebbero lasciato in imbarazzo”. 

   Questi infatti, luterani o calvinisti che fossero, l'avrebbero sostenuto, qualora, secondo le loro eleganti espressioni, egli avesse voluto “distruggere le tenebre d'Egitto, ossia il papismo, e liberare il mondo dall' Anticristo di Roma”. 

   Matteo Judex a sua volta, dall'alto della cattedra, infiammava gli animi con i suoi proclami. È compito di Massimiliano, diceva, mandare in rovina la dominazione papale, e “infliggere un giusto castigo a questi vescovi sediziosi, che osano offendere la maestà dell'imperatore”. E in termini biblici, tolti dai Profeti, scongiurava “le autorità grandi e piccole sotto pena di peccato gravissimo” di partire per la crociata 17 . 

   Massimiliano, eccitato da questi clamori e dalle insinuazioni dei principi, non si mostrava alieno da un conflitto armato. Uno dei suoi confidenti confessava a un amico dell'elettore palatino Federico, che il suo signore “vedrebbe volentieri una spedizione contro Roma” 18 . 

   Anche il re di Spagna, come sovrano di Milano e Napoli, fu impressionato dalla decisione presa da Pio V. Cosimo de' Medici ne ebbe timore; doveva dunque vedere invasi i suoi Stati, e pagare a si caro prezzo la gloria tanto vagheggiata? Egli spedì segretamente in Germania il Fragosa per tastare il terreno; ma l'accoglienza glaciale avuta a Heidelberg fece perdere a costui ogni coraggio. 

   Ludovico di Nassau si manifestò invece favorevole; anzi incaricò Teligny di guadagnare Carlo IX alla causa di Firenze, mettendogli davanti, per fare più impressione, la possibilità d'una sconfitta spagnuola. Il re di Francia, all'insaputa di Caterina, s'immischiò nell'affare, stimolando l'ambasciatore fiorentino ad affrettare l'inizio delle ostilità. Cosimo de' Medici non era meno impaziente di dar principio alla lotta, e, contento di aver tali aiuti in caso d'un attacco, riduceva prudentemente le sue pretese a una semplice difesa. 

Cosa avrebbe pensato Pio V di queste trattative misteriose e sospette? Avrebbe approvato quest'intesa col principe d'Orange? È certo che il Papa nelle millanterie di Massimiliano non volle vedere le manovre che gli venivano accuratamente nascoste. 

   Non si meravigliò dell'effervescenza che si manifestava in Germania, e senza alcun timore forni al cardo Commendone; il mezzo di calmarla. Gli argomenti addotti erano precisi, copiosa la documentazione. Firenze s'era altre volte sottratta alla tutela imperiale con degli enormi sussidi; ne faceva fede una carta di Rodolfo, fondatore della casa d'Austria. Inoltre, celebri esempi giustificavano l'esaltazione dei Medici. 

   Benedetto IX aveva creato Casimiro re di Polonia, nonostante l'opposizione della Germania. Gregorio IX aveva dato a Demetrio il reame di Croazia; Innocenzo IV aveva chiamato al trono di Portogallo Alfonso de Boulogne. E se si andava più indietro, chi non ricordava Leone III e Carlo Magno? Siccome il Papa aveva il diritto incontestabile di consacrare l'imperatore, doveva pur essergli lecito di innalzare un semplice duca alla dignità granducale. 

   Il Commendone, sempre grave, insinuante, piacevole, seppe presentare con molta destrezza queste ragioni, e Massimiliano, che in fondo in fondo desiderava poco la lotta, le ammise volentieri. 

   Il 5 marzo 1570 il Santo Padre coronò solennemente in Vaticano Cosimo de' Medici. La cerimonia si svolse con tutta la magnificenza che Pio V soleva dare alle feste religiose. Durante la cerimonia pontificale, dopo che il granduca ebbe rinnovato il giuramento di fedeltà alla Chiesa e alla Santa Sede, il Papa benedisse secondo la liturgia le insegne del nuovo sovrano, gli offri la rosa d'oro di quell'anno e gli pose sul capo il diadema, sul quale aveva fatto incidere queste parole: “Pius V Pontifex Maximus, ob eximiam dilectionem ac catholicae religionis zelum praecipuumque iustitiae studium, donavit” 19 . 

   Il prestigio che godeva il Santo Padre, e l'inerzia dell'imperatore fecero si, che nessuna delle corti d'Europa facesse rimostranze per l'esaltazione di Cosimo. Parecchie applaudirono velatamente; tutte, nonostante qualche debole protesta, la riconobbero, e Massimiliano stesso che, dopo lo sposalizio di sua figlia con Filippo II, s'era sensibilmente avvicinato alla S. Sede, ratificò l'atto del Pontefice, quando alla morte di Cosimo (1574), il suo genero fu investito della dignità granducale. 

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Card. GIORGIO GRENTE 

giovedì 9 settembre 2021

SAN PIO V IL PONTEFICE DELLE GRANDI BATTAGLIE



IL DIPLOMATICO 

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Domandare in quella circostanza l'intervento del re di Polonia sarebbe stata una mossa impolitica. Il sovrano avrebbe colto l'occasione di esigere come ricompensa l'annullamento del suo matrimonio, fino allora inutilmente chiesto. 

   Salito sul trono molto giovane 7 , senza aver ricevuto dalla madre debole e molle una soda educazione, divenne vedovo due volte; ma se dalla prova rimase colpito, non seppe trame ammaestramento. Il suo carattere capriccioso e l'impeto delle sue passioni indussero i suoi cortigiani a consigliargli il matrimonio con la principessa Caterina, sorella di Massimiliano. Ma, sia per incompatibilità di carattere, sia per leggerezza del sovrano, la regina dovette ritirarsi a Radom. La lontananza di Caterina fece si che la cattiva condotta del marito diventasse tanto audace, ch'essa, sdegnata dell'oltraggio fattole, si rifugiò presso l'imperatore, suo fratello. 

   Sigismondo, irritato per questo preteso abbandono, fece subito pratiche presso il Papa per ottenere lo scioglimento del suo matrimonio, col pretesto che l'ultimo dei Jagelloni non doveva spegnersi senza eredi. E vi furono purtroppo dei vescovi conniventi che lo sobillarono a passar oltre, qualora Roma non avesse soddisfatta la sua domanda. 

   La questione, sorta prima che Pio fosse eletto Pontefice, era sempre rimasta sospesa grazie alla proverbiale irresolutezza del re, che gli valse il titolo di “re del domani” . Pio V vide subito l'imminente gravità del pericolo; i protestanti avrebbero potuto fare in Polonia quello che per un simile motivo avevano fatto in Inghilterra: Sigismondo avrebbe imitato Enrico VIII. 

   Fin dal 1551 Socino, tuttora nel fiore della sua gioventù, con la sua eloquenza e con dottrine eterodosse avvalorate dalla nobiltà della sua nascita e dalle sue belle maniere si era guadagnati i cortigiani e parte della popolazione. La sua eloquenza faceva facilmente presa sugli spiriti superficiali. 

   L'arcivescovo di Gnesen e il Vescovo di Cracovia, accecati dall'ambizione, facevano buon viso alle utopie dell'eresiarca, e invece di trattenere il re lo sospingevano sulla via del divorzio, e per vincere gli ultimi suoi scrupoli fecero pressione presso il Senato, affinché in nome degli interessi dello Stato iniziasse le pratiche a Roma. 

Solo un Nunzio esperto e risoluto poteva sventare il complotto e salvare la Polonia da una rivolta ufficiale; e quantunque la presenza del Commendone fosse necessaria in Germania, il Papa ritenne opportuno affidare al suo fedele legato questa delicata missione. 

   Appena il Nunzio ebbe presentate le credenziali, vide il re cambiare di tattica, sostituire alla forza l'astuzia e tentare insidiosamente di corromperlo. Lo circondò d'ogni sorta di gentilezze e gli offri onori e doni. Ma il Commendone non rese vane le speranze della Santa Sede; con bei modi e con nobile fierezza si oppose a qualsiasi tentativo di tradimento. Allora Sigismondo, mutando maschera, riprese i suoi gesti violenti e convocò la Dieta. 

   Non tutti i vescovi polacchi erano infetti di protestantesimo. Si distingueva tra essi il cardo d'Hosius, vescovo di Ermland, tanto eminente per saggezza, scienza teologica e virtù, che il Sommo Pontefice usava chiamarlo “colonna della Chiesa”. Egli godeva presso i suoi compatrioti tanta venerazione, che i luterani lo soprannominarono per burla “il Dio dei Polacchi”. 

   Grazie al suo intervento e a quello del Commendone, i suoi colleghi si raffermarono nella fede, e obbligarono l'arcivescovo di Gnesen, Uchanski, a convocare in sede separata l'episcopato. 

   Il Nunzio presenziò alle adunanze di questo Concilio e, parlando con molto calore e destrezza e richiamando i principi ortodossi, poté calmare le suscettibilità dei suoi uditori. Senza lasciarsi sconcertare dalle insinuazioni calorose o astute dell'arcivescovo di Gnesen, descrisse i mali scatenati sull'Inghilterra da Enrico VIII, e supplicò i vescovi che, per amore del proprio paese e della Chiesa, non volessero esporre la Polonia a dissensioni sanguinose. Il vigore dei suoi argomenti fini di convincere l'assemblea, e, secondo quanto disse l'Uchanski, l'avvenire della Polonia era nelle mani del Nunzio. 

   Sigismondo si sforzò di commuovere il Commendone, dipingendogli la triste situazione in cui si trovava, e gli fece presente la necessità di non lasciar passare in altre mani l'eredità di tanti sovrani polacchi, che avevano con le loro virtù onorato il cattolicismo. 

   Il legato gli fece presente i danni politici che potevano derivare da una rottura con Roma, e, con un commovente appello al suo onore, alla sua pietà e alle tradizioni della sua famiglia, lo lasciò con l'impressione salutare del ricordo dei suoi antenati e delle lezioni della storia. Vinto, ma rassegnato, il sovrano ritardò la convocazione della Dieta. La vittoria del Nunzio parve cosi certa, che Pio V lo rimandò in Germania per riprendere con uguale esito i difficili negoziati che aveva interrotti. 

   I risentimenti di Uchanski e di Sigismondo tuttavia non erano spenti, ma solo dissimulati. La partenza del Commendone li ravvivò, e il Pontefice dovette intervenire direttamente. Con frequenti lettere si studiò d'impedire gli abusi che tentavano di introdursi: la comunione sotto le due specie accordata ai laici, il matrimonio dei sacerdoti, il libero esercizio del culto luterano e l'accesso dei protestanti alle cariche pubbliche. 

   Tali concessioni venivano richieste a Roma non tanto perché si nutrisse la speranza di ottenerle, quanto piuttosto coll'intento che i continui rifiuti finissero di stancare la pazienza del popolo. Cosi, qualora il re avesse nuovamente domandato lo scioglimento del matrimonio, i polacchi avrebbero più facilmente attribuito il rifiuto all'intransigenza d'un partito preso. 

   Pio V sventò il gioco. Abituato ad attribuire con estrema precisione le responsabilità ai loro effettivi destinatari, si rivolse direttamente ai capi della congiura rinfacciando le loro tergiversazioni e debolezze. Un soffio impetuoso passava sulle mene ambiziose dell'arcivescovo di Gnesen e del vescovo di Cracovia, già in segreto apostati, per disperderle e ridurle al nulla. 

   “Chi avrebbe pensato, esclamava il Papa, che si sarebbero visti dei vescovi così deboli nel difendere la Chiesa, mentre i protestanti spiegano tanto zelo per opprimerla? I vostri padri nella fede, i santi martiri dei quali occupate la sede, stimarono assai più glorioso il morire per l'onor di Dio, che assistere alla servitù della Chiesa. Voi non dovete mostrarvi degeneri; non abbiate timore di esporre la vostra vita; ma ricordatevi che morire per una causa santa è un onore e un dovere”. 

   Nel medesimo tempo, per far vedere che la sua pazienza aveva dei limiti, e che il suo silenzio non significava punto connivenza cogli scandali che si davano avvertì il sovrano di non permettere più che un vescovo prevaricatore occupasse la sede di Kiowi (26 marzo 1568). 

“... Vostra Maestà si mostra ben cieca quando pretende di mettere la pace nei suoi Stati, facendo delle concessioni indegne d'un principe cristiano. L'esempio della Francia da voi addotto invece di scusarvi, dovrebbe decidervi alla resistenza. La vostra allusione alla dottrina e alla condotta del nostro Divin Salvatore non ha maggior peso; perché, quando Vostra Maestà cita le parole che vietano d'estirpare la zizzania, per non distruggere il buon grano, non le cita nel senso che devono intendersi. Vorremmo piuttosto che la Maestà Vostra si ricordasse delle chiare espressioni, con cui il Divin Salvatore parla dei regni divisi in se stessi. Ora vi è forse un incentivo maggiore alla divisione che le dispute religiose? Se i disordini si sono ormai moltiplicati fino al punto che V. M. si trova impotente a reprimerli insieme, si dovrebbe almeno metter fine al disordine cagionato dal vescovo impostore di Kiowi. Vi preghiamo con paterno affetto, diletto figlio, di mettervi riparo in nome della vostra dignità, della gloria di Dio e della salvezza delle anime. Se voi indugerete a rimediarvi, saremo costretti ad agire contro l'intruso col rigore dei sacri canoni, per non sembrare complici della vostra inerzia e renderci colpevoli dinanzi a Dio e gli uomini”. 

 

   Questo rigore apostolico che non lasciava luogo a scappatoie e ritorceva contro il sovrano i testi tendenziosi, visibilmente a lui ispirati da altri, scosse il re, ma non riuscì a convertirlo. Le sue passioni non avrebbero finito per scatenare il suo spirito di rivolta? 

   Due mesi dopo, il 27 maggio 1568, Pio V, informato della debolezza di Sigismondo-Augusto, alle recriminazioni antecedenti aggiunse queste gravi parole: “Per quanto grande sia la dignità reale e vivo il rispetto che le si deve, un principe che si mostra debole sino all'estrema tolleranza, perde ogni prestigio e va incontro al disprezzo”. Ma le lettere non bastavano più. Lasciato a se stesso e alle perverse insinuazioni dei suoi consiglieri il sovrano riprese il tema del suo divorzio. 

   Allorché il Papa apprese che il tentativo di Massimiliano per rappacificare il cognato con la regina era fallito, prevedendo una ripresa di intrighi e debolezze, giudicò opportuno inviare nuovamente in Polonia il cardo Commendone. 

   Questi parti subito da Vienna, nonostante il disagio di un cammino lungo e malagevole fatto d'inverno. Fu un atto ben degno di lode; poiché il soggiorno di Varsavia, non offriva nulla d'attraente, in modo speciale perché vi aveva già dimorato. Qualche anno dopo, Desportes, compagno del duca d'Anjou che sali poi al trono di Francia col nome di Enrico III, provò tanta noia in mezzo “alle pessime città” e ai “costumi incivili dei fieri Sarmati”, che, lasciando di gran corsa quelle regioni indirizzò loro quest'apostrofe poco lusinghiera: “Addio, Polonia, addio, piani deserti sempre coperti di neve e ghiaccio, eterno addio! La tua aria, i tuoi costumi mi son talmente dispiaciuti, che non voglio mai più rivederti”. 

   Il card. Commendone fu ricevuto con grande solennità. 

Sigismondo non poté ingannarsi sui motivi, che gli avevano ricondotto il legato pontificio. Questi gli parlò subito di quel che si diceva sulle sue intenzioni, ma il re cambiò le carte in tavola. Che calunnia! Chi mai aveva potuto con tanta perversità ingannare il S. Padre? Si rassegnò con animo tranquillo a subire la malinconia della solitudine, e, poiché la missione del Commendone non aveva altro scopo, pregò caldamente il cardinale di recarsi a Roma, per testimoniare al Santo Padre della sua fedeltà. 

   L'Ambasciatore era un diplomatico troppo fine per prestarsi al gioco del re. Fece note al Papa le dichiarazioni del sovrano e la poca fede che vi prestava, e intanto prolungò la sua permanenza in Polonia, sotto il pretesto che doveva regolare delle questioni canoniche, ristabilire certi monasteri, e visitare le diocesi. 

   Ottenne pure che le sorelle del re, sposate a due principi protestanti, il duca di Finlandia e l'elettore di Brandeburgo, potessero liberamente ricevere una direzione religiosa destinata a confermarle nella fede, e che il giovine principe di Transilvania, nipote di Sigismondo, non fosse affidato a istitutori protestanti, desiderosi di far cadere nell' eresia lui e i suoi paesi. 

In queste difficili congiunture il Commendone trovò un forte appoggio nel cardo d'Hosius, e specialmente nei gesuiti chiamati in Polonia da questo prelato. Il Commendone, il cardo d'Hosius e i gesuiti contribuirono efficacemente a salvare la Polonia dallo scisma. 

   In questo frattempo mori la regina, e il Papa, vedendo libero Sigismondo, poté mettere il cuore in pace. Contrariamente a tutte le previsioni e a dispetto di tutte le convenienze, il re affettò un lutto eccessivo; e pianse rumorosamente la donna che in ogni modo aveva tentato di ripudiare. Anzi, per un cambiamento spiegabile forse per le sue infermità, se pure non si vuol vedere una prova che i suoi cattivi consiglieri lo sospingevano al divorzio in vista d'una scissione, non parlò più di matrimonio. 

   Quello che il Commendone doveva fare era terminato. Tuttavia non lasciò la Polonia, se non quando Sigismondo con un atto ufficiale del 7 maggio 1570 ebbe dichiarato di voler perseverare nel cattolicismo. 

  

   Il nuovo Nunzio alla corte polacca, Vincenzo del Portico, dovette trattare un affare ancora più delicato. Accarezzando sempre l'idea d'una confederazione europea contro i turchi, Pio V nutriva la speranza di poter attirarvi anche lo zar di Mosca. 

   Il pericolo turco era ai suoi occhi tanto grave, che per respingerlo conveniva domandare il concorso di tutti. Ma siccome per le difficoltà delle comunicazioni la curia romana non poteva avere precisi ragguagli sulle disposizioni del Cremlino, il Santo Padre per quanto riguardava Ivan il Terribile partecipava dell'ignoranza e delle illusioni delle persone che lo circondavano 8 . 

   Il Portico ebbe dunque la missione di metter d'accordo la Polonia e la Russia, il lupo e l'agnello. Sigismondo-Augusto che subiva imprecando le incursioni di Mosca sulle frontiere polacche, non aveva proprio nessuna voglia di offrire all'appetito dello zar tutto il suo regno. Il Nunzio intravide subito l'impossibilità di un'intesa; l'interesse della Polonia esigeva che Sigismondo stesse all'erta. 

   Senza lasciarsi scoraggiare dai primi rapporti del suo ambasciatore, Pio V lo sollecitò a iniziare le dovute pratiche, e, per fargli animo gli scrisse che avrebbe mandato a Mosca qualche vescovo. Poco dopo gli accordò tutti i poteri di suo plenipotenziario presso lo zar, e gli tracciò le linee da seguire. Portico doveva procedere con molta circospezione, accennare solo vagamente le questioni religiose, salvo che l'imperatore stesso non sollevasse delle controversie, e fargli balenar la prospettiva di strappare la Terrasanta “al crudele tiranno turco”, come appunto si apprestavano a fare Roma, Venezia e la Spagna. 

   Queste istruzioni del Pontefice, accompagnate da una lettera autografa a Ivan 9 , terminavano con queste parole: “Da quanto Sua Santità ha inteso, lo zar ha espresso il desiderio di ottenere le grazie e i privilegi seguenti: il titolo di re, dei sacerdoti che istruiscano i suoi popoli nella pratica dei riti romani, degli artisti e altro ancora” 10  

   Non era questo il primo generoso errore. Nel 1568 il card. d'Hosius non aveva forse scritto al duca di Baviera, che il principe di Sassonia, ugonotto arrabbiato, voleva rientrare in seno alla Chiesa, e che doveva presto arrivare il P. Canisio per conchiudere un si felice avvenimento? 11 . Il desiderio crea la speranza. Come il duca rimase stupito che si fosse preso sul suo conto un abbaglio tanto ingenuo, cosi il Nunzio rimase maravigliato per le istruzioni del Santo Padre. Egli credeva di aver sufficientemente esposte le intenzioni della Russia, e ora non si teneva alcun conto delle sue osservazioni né della realtà dei fatti. Quell'Ivan che a Roma era ritenuto favorevole al cattolicismo, e che veniva trattato come un principe bramoso di convertirsi o disposto a far delle concessioni, non era in realtà se non uno sfrenato, che aggiungeva a tutte le infamie tutte le crudeltà. 

   Sigismondo-Augusto s'incaricò di dissipare tutte le perplessità del Portico coll'impedirgli la partenza. Ivan, egli disse, s'ingannerà forse sul motivo di questa visita, e affetterà di credere che sia ispirata dal timore; diventerà un arrogante, farà cadere le deboli speranze d'un accordo e ritardare la conversione dei russi. Scrisse anche al cardo d'Hosius una lettera che cominciava coll'apologo del cane di Esopo, il quale abbandonò la preda per lanciarsi sulla propria ombra. Non si poteva dire più chiaramente che cercare l'amicizia della Russia significava perdere quella della Polonia. . 

   Pio V non credette che questa conclusione potesse cosi facilmente trarsi dalle premesse. Ordinò a Portico di mettersi in viaggio, e Sigismondo-Augusto dovette rassegnarsi a lasciar partire il legato. Ma il re avanzò subito nuovi pretesti, di cui qualcuno era veramente futile poiché, se nella sua corrispondenza faceva cenno a delle preoccupazioni religiose, diplomatiche e persino letterarie, si perdeva poi in particolari curiosi sulla cura di far un viaggio comodo e sulla difficoltà di avere delle morbide lettighe oppure delle vetture. 

   Tutte queste lungaggini finirono forse di stancare il Papa, oppure ebbe egli delle altre comunicazioni, che confermarono quelle già ricevute dal Portico? Fatto sta che nel 1571 scrisse al suo legato di desistere dalle trattative 12 . Questi non poté dissimulare la sua soddisfazione né nascondere un tantino d'orgoglio per aver almeno avuto il coraggio di avventurarsi in un simile passo. In magnis voluisse sat est ripeteva enfaticamente col poeta 13 ; piccola consolazione per gli individui che, secondo quel favolista, si contentano di poco. 

   Pio V notificò a Sigismondo c he “per le cattive informazioni ricevute, riguardanti la vita dello zar 14 , abbandonava qualsiasi trattativa con Mosca”; ma, trascurando la Russia, cercò altri alleati in Persia, nell' Arabia e nell'Etiopia. 

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 Card. GIORGIO GRENTE 

domenica 25 luglio 2021

SAN PIO V IL PONTEFICE DELLE GRANDI BATTAGLIE

 


IL DIPLOMATICO 


Nello stesso tempo Massimiliano esprimeva calorosamente all'ambasciatore di Sassonia la sua simpatia per i protestanti, e gradiva la proposta dell'elettore Augusto che lo eccitava a “sbarazzarsi di tutte le relazioni coi preti, e a sfidare apertamente il frate che regnava a Roma”. L'imperatore aveva fatta al nunzio un'accoglienza cosi fredda che il duca di Baviera sentì il bisogno di rimproverargli la sua sgarbatezza: “Non è una vergogna, gli disse, vedere come gli ambasciatori turchi sieno accolti in Germania con segni di grande rispetto, mentre si suscitano mille difficoltà per dare udienza al nunzio della Santa Sede?”. 

   Massimiliano comprese che il Papa non avrebbe mai permesso il matrimonio d'un re cattolico con una principessa, che se la intendeva col protestantesimo; e sapeva pure che Filippo II non si sarebbe mai ribellato al veto del Santo Padre. Egli infatti aveva già tentato con occulte proposte di staccarlo dalla Santa Sede, ma non aveva ricevuto che uno sdegnoso rifiuto, da lui stesso definito “pillola amara”. 

   Il re di Spagna, come se raccogliesse già dalle mani tremanti dell'imperatore la signoria dell'Europa caduta ormai sotto il suo protettorato, con un tono fiero e mordace gli fece le proprie rimostranze. Egli si meravigliava che Massimiliano avesse fatto al principe d'Orange l'onore di inviare un arciduca, suo fratello, a intercedere in favore del ribelle alla corte di Madrid, e giudicava una simile condiscendenza come mancanza di tatto. Tuttavia, soggiungeva, nulla produceva in lui tanta meraviglia e si cattiva impressione quanto il suo atteggiamento sleale verso la Chiesa; e lo supplicava di non lasciare le vie battute dai suoi antenati, e in loro nome gli ingiungeva di adempiere il proprio dovere. 

   Tuttora ferito da questa umiliazione, l'imperatore si studiò di far dimenticare al Papa e al re le sue maniere di procedere tanto ambigue. Con una disinvoltura, cosi bene confacente al suo carattere incostante, copri i cattolici di tenerezze riserbate prima ai luterani. Poi, assicurando Filippo II della sua fedeltà, fece chiamare il Nunzio e lo ricevette con gran magnificenza davanti a tutti gli ufficiali della corona. 

Per fortuna la Santa Sede aveva un nunzio forte e intelligente, destro e risoluto, Giovanni Francesco Commendone, vescovo di Zante. “La corte romana, scrive Fléchier, non ebbe mai un diplomatico più dotto, più attivo, più disinteressato e fedele. Egli dovette intraprendere i negoziati più importanti in tempi difficilissimi”. Godette la fiducia di Giulio III, Paolo IV e Pio IV, e la meritò concludendo trattati vantaggiosi con Venezia e i principi italiani, con missioni felicemente riuscite in Fiandra, Inghilterra e Portogallo, e per aver preso parte principalissima al Concilio di Trento. 

   Pio V, che anche prima d'esser Papa aveva apprezzate le belle doti del Commendone, lo confermò nelle diverse sue missioni, e volle servirsi ordinariamente di lui per la soluzione di conflitti che richiedevano un plenipotenziario molto abile. Lo inviò in qualità di legato in Germania e in Polonia, ove degli scaltri intriganti si lusingavano di avere o di prendere il comando della situazione 6 . 

   Il carattere di questo cardinale era però per molti aspetti diverso da quello di Pio V. Il Commendone era senza dubbio virtuoso, pio, aveva un giudizio chiaro, un animo risoluto che andava sino alle ultime conseguenze delle cose, e nei disegni di riforma della Chiesa dimostrava il suo stesso zelo e il suo stesso amore. Ma se era fermo nell'esigere rispetto per la disciplina e nel rivendicare i diritti della S. Sede, usava nei suoi atti più dolcezza e amabilità. Poeta nei suoi anni giovanili, egli aveva conservato nel tratto una soavità che, senza diminuire la forza di quanto esigeva, gli attirava molte simpatie. Mentre Pio V amava di tenersi, per dir cosi, sulle montagne, il Commendone discendeva volentieri su punte meno alte, cercando i mezzi conciliativi. Del resto, agile e nobile insieme, non restava impigliato in nessun affare, e si trovava a suo agio in tutte le corti, ove, guadagnando sì subito l'affetto dei principi, lasciava alla sua partenza bella fama d'integrità, di abilità e di dignitosa affabilità. 

   E' dovere di giustizia rendere omaggio a questo savio collaboratore di Pio V, e bisogna riconoscere che la diplomazia pontificia ebbe in lui un prezioso ausiliare. Quest'elogio corrisponde alla stima che il Papa aveva di lui. Quando egli ritornava dalle sue delicate missioni, riceveva da Pio V dei grandi onori. Il Pontefice accettava spesso i suoi consigli. 

   Il legato scoprì subito i sentimenti di Massimiliano. Ma, siccome nella Dieta di Asburgo aveva potuto vincere le esitazioni dell'imperatore, preferì credere che fosse sincero, e per il momento non volle richiedere da lui che delle facili assicurazioni.  

   Anche Pio V non s'ingannò su questo repentino cambiamento di Massimiliano; le dispute già avute con lui non facevano che confermarlo nella sua opinione. Giudicò tuttavia più conveniente adottare il metodo di condotta del suo legato, e prestar fede alle dichiarazioni imperiali. 

   Un riavvicinamento tra la S. Sede e l'impero avrebbe imposto soggezione ai popoli agitati dalla Riforma, incusso timore ai principi tedeschi, e sconvolto i loro disegni di una confederazione ostile alla Chiesa. Inoltre, il matrimonio del re di Spagna con la figlia dell'imperatore riannodava i vincoli, alquanto allentati, che univano una volta i due grandi Stati cattolici, e permettevano al Papa di effettuare il più ardente dei suoi sogni, l'assalto generale contro i turchi. Pio V in concistoro notificò al Sacro Collegio le buone notizie ricevute dal Commendone, e disse che in pegno della sua benevolenza concedeva a Filippo Il la dispensa per il matrimonio colla nipote. 

La stessa moderazione lo persuase a non rivendicare gli antichi diritti della Santa Sede sul nuovo ducato di Prussia. 

Si sa che i cavalieri dell'Ordine Teutonico un tempo amministravano quella regione a nome della S. Sede; ma nel 1526 il Gran Maestro Alberto di Brandeburgo rinnegò la fede, dispose a suo piacere dei domini a lui affidati, e, spergiuro ai suoi voti, avendo sposata a Konigsberg la figlia del re di Danimarca, eresse la Prussia in ducato ereditario. Il suo regno sconvolto da civili, contese e dispiaceri domestici ebbe fine nel 1568. 

   Dei sette figli avuti dalla sua prima moglie, sei morirono in tenera età. Dalla sua seconda moglie, principessa di Brunswick, ebbe una figlia cieca e un figlio, Alberto Federico, che spinto dalla sua follia a tavola gettava il vasellame sul viso dei convitati. 

   Con la morte del duca Alberto sembrò giunto il momento propizio, per rimettere la Chiesa in possesso dei suoi privilegi. 

   Alcuni amici fedeli consigliarono il Papa a ricorrere alla mediazione di Massimiliano e del re di Polonia, Sigismondo II Augusto. Ma Pio, che teneva l'occhio rivolto piuttosto agli interessi religiosi, comprese che una vittoria territoriale andava praticamente a discapito spirituale, e sacrificò la sovranità pontificia nella speranza di ricondurre quelle popolazioni traviate in seno alla Chiesa. I suoi rappresentanti, per ordine ricevuto, si contentarono di protestare platonicamente alla Dieta di Lublino contro l'ingiusta spoliazione. 

   Il popolo, che temeva invece un atto energico, ammirò il disinteresse del Papa, e lasciò cadere molti pregiudizi che aveva verso di lui. Questa diplomazia soprannaturale ottenne una ricompensa immediata: la città luterana di Danzica permise il ritorno dei domenicani, che, aiutati ben presto da altri missionari, ottennero in quella provincia molte conversioni.  

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Card. GIORGIO GRENTE 

sabato 29 maggio 2021

SAN PIO V IL PONTEFICE DELLE GRANDI BATTAGLIE

 


IL DIPLOMATICO

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Ma non era questa la sola questione che si agitasse allora tra la Spagna e la Santa Sede. Nel Regno di Napoli vi era gran discordia; e una delle prime riforme intraprese da San Pio V fu la visita canonica delle diocesi. Ma, se le autorità religiose ottemperarono a questa innovazione, non si poté dire altrettanto dell'autorità civile, che interpretò la visita come un'usurpazione intollerabile. Quasi per istinto e senza che si fosse ricevuto alcun ordine, la resistenza si fece sentire in diverse parti. 

   Nel 1568 Pio V aveva istituito visitatore di Napoli Tommaso Orsini, vescovo di Strongoli, in Calabria. Questi, che a molta virtù univa una grande circospezione ed esperienza, procurò di render meno sensibile il controllo da lui esercitato. Ma tutta la sua prudenza non riuscì a calmare il viceré, il quale, geloso di salvaguardare anche contro un'usurpazione solo apparente l'integrità dei diritti sovrani, pretese che si domandasse l'exequatur, e che prima di tutto venisse allontanato l'inviato della Santa Sede. 

   Parecchi cardinali consigliarono Pio V di temporeggiare promettendo, allo scopo di evitare una crisi, di richiedere il consenso del re. Ma il Papa non volle assolutamente creare un precedente che avrebbe sminuito la sua sovrana autorità. 

   Ammettendo come principio che ogni vescovo deve poter liberamente visitare la propria diocesi, rispose che il Sommo Pontefice, vescovo universale, non deve subire opposizione al suo ministero né tollerare che venga diminuita la pienezza delle sue prerogative, e minacciò di porre l'interdetto sul Regno di Napoli. La misura era cosi grave che il cardo Coreggio, spaventato per le conseguenze che ne potevano derivare, pregò il Papa di soprassedere a una tale decisione. 

   Anche il visitatore pontificio in Sicilia Odescalchi incontrava la stessa opposizione da parte dell'ambasciatore spagnuolo Requesens, che si rifiutò di ricevere un'ambasceria dei Cavalieri di S. Lazzaro, e proibì la lettura della Bolla In Coena Domini nelle chiese dell'isola. Di fronte a simili soprusi Pio V, anziché colpire venne a trattative. Luigi de Torres, delegato presso Filippo II, parlò delle questioni pendenti e ne ottenne soddisfazione. Odescalchi ebbe facoltà di entrare in Sicilia, e le visite canoni che autorizzate nel Regno di Napoli potevano aver luogo nella Calabria e nelle Puglie. 

   Se Pio V esigeva che il re di Spagna riconoscesse i diritti della Chiesa, non lasciava però sfuggire alcuna occasione per attestargli la sua benevolenza. Filippo II, infatuato del suo potere voleva a ogni costo conservarlo intatto; ma il suo carattere sospettoso si adombrava per il più piccolo segnale d'indipendenza. Si lusingava d'essere l'arbitro dell'Europa e di tenere il Papato sotto la sua influenza, ma compensava i suoi difetti con un rispetto esteriore e una fedeltà alla religione, che non sarebbero state scosse da qualsiasi tentativo seducente o maligno. 

   Il nuovo palazzo dell'Escuriale, ov'egli viveva isolato nel suo orgoglio, era divenuto teatro d'un dramma familiare. Prima di salire sul trono Filippo aveva sposata la principessa Maria di Portogallo, dalla quale ebbe un figlio, Don Carlos, rachitico, travagliato da malattie, triste eredità della casa di Castiglia e Portogallo. Il suo corpo consunto dalla febbre, il suo spirito fantastico e le sue inclinazioni crudeli lo resero ben presto insopportabile. La caduta da una gradinata ad Ascala gli fece girare un po' il cervello, e lo rese oltremodo nervoso. Le sue passioni lo gettarono nell'avvilimento, e la sua perversità malaticcia lo spinse a truci atti di crudeltà verso gli animali e le sue stesse persone di servizio. 

   Morta la regina, Filippo II s'uni in matrimonio con Maria Tudor d'Inghilterra. Rimasto vedovo una seconda volta, sposò Elisabetta di Valois, figlia d'Enrico II, che a quanto sembra era stata promessa a D. Carlos, il quale, deluso e irritato, avrebbe per questo manifestato propositi poco lusinghieri verso il padre. 

   Il romanzo s'è impadronito di questo giovane infelice, i cui malanni, se non diminuiscono quello ch'egli ha fatto, scemano di molto quanto scrisse nel 1700 lo Schiller e recentemente Georges de Porto-Riche.  

   Don Carlos pensò effettivamente di suscitare una rivoluzione per far uccidere il re? Cominciò a ordire la trama? È certo che Filippo II, avendo saputo che nel gennaio 1568 il figlio aveva lasciato Madrid, lo fece arrestare e chiudere in prigione; e siccome sospettava che il Papa avrebbe deplorato una simile violenza volle personalmente fargli conoscere al ragione per cui aveva preso quella grave decisione, sforzandosi di giustificarla. Gli scrisse dunque la seguente lettera del 20 gennaio 1568. 

   “Come figlio obbedientissimo, per il profondo rispetto che nutro verso questa Santa Sede, devo notificare alla Santità Vostra la mia decisione di incarcerare il serenissimo principe, mio figliuolo... Vostra Santità e l'Europa conoscono abbastanza il mio sistema di governo, per essere convinte che se mi sono indotto a una tale decisione, non l'ho fatto se non dopo maturo esame, a causa della deplorevole condotta del principe, il cui cattivo carattere ha resa vana l'educazione ricevuta dai suoi precettori. Per frenare le sue viziose inclinazioni ho usato clemenza, ma tutto fu inutile. Vostra Santità può immaginare quale sia il mio dolore nel vedere questo futuro erede di tanti Stati, da Dio assoggettati alla mia sovranità; ma egli non ha proprio nessuna delle qualità che si richiedono in un monarca. Onde io, per farlo stare a dovere, ho dovuto assicurarmi della sua persona. Avverto Vostra Santità, e spero che Essa dal mio modo d'agire giudicherà come alla tenerezza che la natura mi ispira per mio figlio, io preferisca la gloria di Dio, l'interesse dei miei Stati e la pace del mio popolo”. 

   Pio V, vivamente commosso da queste rivalità che avrebbero condotto, com'egli presentiva, a un epilogo sanguinoso, s'affrettò a richiamare Filippo II a sentimenti di clemenza. “Questa vostra decisione, gli scrisse, vi espone a passare per un padre barbaro e a macchiare l'onore d'un principe destinato a cingere un giorno la corona Vostra e di Carlo V”. 

   Ma il re rimase inflessibile; e gli ultimi atti di Don Carlos non fanno che renderne testimonianza. La morte dello sventurato principe liberò Filippo II da ogni timore. Il prigioniero, mangiando ingordamente e tracannando senza misura delle bevande ghiacciate, in poco tempo cessò di vivere. 

   Il Papa venne subito informato della tragica fine di Don Carlos; ma siccome l'ambasciatore di Spagna gli aveva spesso parlato della ribellione di Don Carlos e dei suoi folli furori, pensò che la scomparsa del principe fosse un sollievo per tutti e una giusta punizione, cosi che s'astenne dall'inviare alcuna lettera, né di riprovazione né di condoglianza. 

   Qualcuno potrà forse meravigliarsi di questo riserbo del Papa. Attribuirlo a qualche motivo poco lodevole, alla paura forse di recare dispiacere, sarebbe un misconoscere il carattere franco del Pontefice. Quando un suo intervento poteva essere utile, nessuna minaccia nascosta o aperta avrebbe potuto trattenerlo dall'agire. Ma la morte del principe non suscitò allora le reazioni che pullularono in seguito intorno ad essa. 

   Sono le potenze, padrone della pubblica opinione, che hanno stravolto i fatti, per vendicarsi d'un re che non amavano; i Paesi Bassi gli rimproveravano il suo governo dispotico, l'Inghilterra non poteva perdonargli il suo desiderio di batterla, e la Francia nutriva verso di lui odio a causa della Lega. Di qui ebbe origine la leggenda che Filippo II fosse un padre senza cuore, che “aveva sulle labbra il sorriso e nelle mani il pugnale”. 

   Ma l'uomo che ebbe in venerazione la memoria di suo padre sino al punto da conferire le più alte dignità a suo fratello naturale, Don Giovanni d'Austria, e che scriveva alle proprie figliuole delle lettere spiranti semplicità paterna e vera affezione, non poteva essere inesorabile con suo figlio, se non dopo aver esaurito verso il colpevole tutta la bontà del suo cuore. 

   Pio V se l'immaginò. Egli del resto condivideva i sentimenti dei suoi contemporanei. Filippo II afflitto, ma costante nelle sue avversità, ispirava a tutti, fuorché ai suoi nemici politici e ai protestanti, una specie di imperioso rispetto. 

   Due anni dopo, il Papa riuscì a diminuire alquanto il rincrescimento che Filippo II provava nel piegare costantemente la sua natura autoritaria ai richiami della Santa Sede. La regina di Spagna, Elisabetta, stava per morire. Massimiliano pregò l'arciduca Carlo di offrire al re la mano della sua figlia primogenita. L'alleanza era vantaggiosa: piaceva a Filippo II, serviva agli interessi spagnuoli e soprattutto a consolidare l'impero. Ma vi si frapponeva l'ostacolo della parentela; l'imperatore aveva sposata la sorella del re di Spagna, il quale avrebbe perciò dovuto unirsi con una sua nipote. Era necessario ottenere la dispensa da Roma. 

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Card. GIORGIO GRENTE