giovedì 9 settembre 2021

SAN PIO V IL PONTEFICE DELLE GRANDI BATTAGLIE



IL DIPLOMATICO 

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Domandare in quella circostanza l'intervento del re di Polonia sarebbe stata una mossa impolitica. Il sovrano avrebbe colto l'occasione di esigere come ricompensa l'annullamento del suo matrimonio, fino allora inutilmente chiesto. 

   Salito sul trono molto giovane 7 , senza aver ricevuto dalla madre debole e molle una soda educazione, divenne vedovo due volte; ma se dalla prova rimase colpito, non seppe trame ammaestramento. Il suo carattere capriccioso e l'impeto delle sue passioni indussero i suoi cortigiani a consigliargli il matrimonio con la principessa Caterina, sorella di Massimiliano. Ma, sia per incompatibilità di carattere, sia per leggerezza del sovrano, la regina dovette ritirarsi a Radom. La lontananza di Caterina fece si che la cattiva condotta del marito diventasse tanto audace, ch'essa, sdegnata dell'oltraggio fattole, si rifugiò presso l'imperatore, suo fratello. 

   Sigismondo, irritato per questo preteso abbandono, fece subito pratiche presso il Papa per ottenere lo scioglimento del suo matrimonio, col pretesto che l'ultimo dei Jagelloni non doveva spegnersi senza eredi. E vi furono purtroppo dei vescovi conniventi che lo sobillarono a passar oltre, qualora Roma non avesse soddisfatta la sua domanda. 

   La questione, sorta prima che Pio fosse eletto Pontefice, era sempre rimasta sospesa grazie alla proverbiale irresolutezza del re, che gli valse il titolo di “re del domani” . Pio V vide subito l'imminente gravità del pericolo; i protestanti avrebbero potuto fare in Polonia quello che per un simile motivo avevano fatto in Inghilterra: Sigismondo avrebbe imitato Enrico VIII. 

   Fin dal 1551 Socino, tuttora nel fiore della sua gioventù, con la sua eloquenza e con dottrine eterodosse avvalorate dalla nobiltà della sua nascita e dalle sue belle maniere si era guadagnati i cortigiani e parte della popolazione. La sua eloquenza faceva facilmente presa sugli spiriti superficiali. 

   L'arcivescovo di Gnesen e il Vescovo di Cracovia, accecati dall'ambizione, facevano buon viso alle utopie dell'eresiarca, e invece di trattenere il re lo sospingevano sulla via del divorzio, e per vincere gli ultimi suoi scrupoli fecero pressione presso il Senato, affinché in nome degli interessi dello Stato iniziasse le pratiche a Roma. 

Solo un Nunzio esperto e risoluto poteva sventare il complotto e salvare la Polonia da una rivolta ufficiale; e quantunque la presenza del Commendone fosse necessaria in Germania, il Papa ritenne opportuno affidare al suo fedele legato questa delicata missione. 

   Appena il Nunzio ebbe presentate le credenziali, vide il re cambiare di tattica, sostituire alla forza l'astuzia e tentare insidiosamente di corromperlo. Lo circondò d'ogni sorta di gentilezze e gli offri onori e doni. Ma il Commendone non rese vane le speranze della Santa Sede; con bei modi e con nobile fierezza si oppose a qualsiasi tentativo di tradimento. Allora Sigismondo, mutando maschera, riprese i suoi gesti violenti e convocò la Dieta. 

   Non tutti i vescovi polacchi erano infetti di protestantesimo. Si distingueva tra essi il cardo d'Hosius, vescovo di Ermland, tanto eminente per saggezza, scienza teologica e virtù, che il Sommo Pontefice usava chiamarlo “colonna della Chiesa”. Egli godeva presso i suoi compatrioti tanta venerazione, che i luterani lo soprannominarono per burla “il Dio dei Polacchi”. 

   Grazie al suo intervento e a quello del Commendone, i suoi colleghi si raffermarono nella fede, e obbligarono l'arcivescovo di Gnesen, Uchanski, a convocare in sede separata l'episcopato. 

   Il Nunzio presenziò alle adunanze di questo Concilio e, parlando con molto calore e destrezza e richiamando i principi ortodossi, poté calmare le suscettibilità dei suoi uditori. Senza lasciarsi sconcertare dalle insinuazioni calorose o astute dell'arcivescovo di Gnesen, descrisse i mali scatenati sull'Inghilterra da Enrico VIII, e supplicò i vescovi che, per amore del proprio paese e della Chiesa, non volessero esporre la Polonia a dissensioni sanguinose. Il vigore dei suoi argomenti fini di convincere l'assemblea, e, secondo quanto disse l'Uchanski, l'avvenire della Polonia era nelle mani del Nunzio. 

   Sigismondo si sforzò di commuovere il Commendone, dipingendogli la triste situazione in cui si trovava, e gli fece presente la necessità di non lasciar passare in altre mani l'eredità di tanti sovrani polacchi, che avevano con le loro virtù onorato il cattolicismo. 

   Il legato gli fece presente i danni politici che potevano derivare da una rottura con Roma, e, con un commovente appello al suo onore, alla sua pietà e alle tradizioni della sua famiglia, lo lasciò con l'impressione salutare del ricordo dei suoi antenati e delle lezioni della storia. Vinto, ma rassegnato, il sovrano ritardò la convocazione della Dieta. La vittoria del Nunzio parve cosi certa, che Pio V lo rimandò in Germania per riprendere con uguale esito i difficili negoziati che aveva interrotti. 

   I risentimenti di Uchanski e di Sigismondo tuttavia non erano spenti, ma solo dissimulati. La partenza del Commendone li ravvivò, e il Pontefice dovette intervenire direttamente. Con frequenti lettere si studiò d'impedire gli abusi che tentavano di introdursi: la comunione sotto le due specie accordata ai laici, il matrimonio dei sacerdoti, il libero esercizio del culto luterano e l'accesso dei protestanti alle cariche pubbliche. 

   Tali concessioni venivano richieste a Roma non tanto perché si nutrisse la speranza di ottenerle, quanto piuttosto coll'intento che i continui rifiuti finissero di stancare la pazienza del popolo. Cosi, qualora il re avesse nuovamente domandato lo scioglimento del matrimonio, i polacchi avrebbero più facilmente attribuito il rifiuto all'intransigenza d'un partito preso. 

   Pio V sventò il gioco. Abituato ad attribuire con estrema precisione le responsabilità ai loro effettivi destinatari, si rivolse direttamente ai capi della congiura rinfacciando le loro tergiversazioni e debolezze. Un soffio impetuoso passava sulle mene ambiziose dell'arcivescovo di Gnesen e del vescovo di Cracovia, già in segreto apostati, per disperderle e ridurle al nulla. 

   “Chi avrebbe pensato, esclamava il Papa, che si sarebbero visti dei vescovi così deboli nel difendere la Chiesa, mentre i protestanti spiegano tanto zelo per opprimerla? I vostri padri nella fede, i santi martiri dei quali occupate la sede, stimarono assai più glorioso il morire per l'onor di Dio, che assistere alla servitù della Chiesa. Voi non dovete mostrarvi degeneri; non abbiate timore di esporre la vostra vita; ma ricordatevi che morire per una causa santa è un onore e un dovere”. 

   Nel medesimo tempo, per far vedere che la sua pazienza aveva dei limiti, e che il suo silenzio non significava punto connivenza cogli scandali che si davano avvertì il sovrano di non permettere più che un vescovo prevaricatore occupasse la sede di Kiowi (26 marzo 1568). 

“... Vostra Maestà si mostra ben cieca quando pretende di mettere la pace nei suoi Stati, facendo delle concessioni indegne d'un principe cristiano. L'esempio della Francia da voi addotto invece di scusarvi, dovrebbe decidervi alla resistenza. La vostra allusione alla dottrina e alla condotta del nostro Divin Salvatore non ha maggior peso; perché, quando Vostra Maestà cita le parole che vietano d'estirpare la zizzania, per non distruggere il buon grano, non le cita nel senso che devono intendersi. Vorremmo piuttosto che la Maestà Vostra si ricordasse delle chiare espressioni, con cui il Divin Salvatore parla dei regni divisi in se stessi. Ora vi è forse un incentivo maggiore alla divisione che le dispute religiose? Se i disordini si sono ormai moltiplicati fino al punto che V. M. si trova impotente a reprimerli insieme, si dovrebbe almeno metter fine al disordine cagionato dal vescovo impostore di Kiowi. Vi preghiamo con paterno affetto, diletto figlio, di mettervi riparo in nome della vostra dignità, della gloria di Dio e della salvezza delle anime. Se voi indugerete a rimediarvi, saremo costretti ad agire contro l'intruso col rigore dei sacri canoni, per non sembrare complici della vostra inerzia e renderci colpevoli dinanzi a Dio e gli uomini”. 

 

   Questo rigore apostolico che non lasciava luogo a scappatoie e ritorceva contro il sovrano i testi tendenziosi, visibilmente a lui ispirati da altri, scosse il re, ma non riuscì a convertirlo. Le sue passioni non avrebbero finito per scatenare il suo spirito di rivolta? 

   Due mesi dopo, il 27 maggio 1568, Pio V, informato della debolezza di Sigismondo-Augusto, alle recriminazioni antecedenti aggiunse queste gravi parole: “Per quanto grande sia la dignità reale e vivo il rispetto che le si deve, un principe che si mostra debole sino all'estrema tolleranza, perde ogni prestigio e va incontro al disprezzo”. Ma le lettere non bastavano più. Lasciato a se stesso e alle perverse insinuazioni dei suoi consiglieri il sovrano riprese il tema del suo divorzio. 

   Allorché il Papa apprese che il tentativo di Massimiliano per rappacificare il cognato con la regina era fallito, prevedendo una ripresa di intrighi e debolezze, giudicò opportuno inviare nuovamente in Polonia il cardo Commendone. 

   Questi parti subito da Vienna, nonostante il disagio di un cammino lungo e malagevole fatto d'inverno. Fu un atto ben degno di lode; poiché il soggiorno di Varsavia, non offriva nulla d'attraente, in modo speciale perché vi aveva già dimorato. Qualche anno dopo, Desportes, compagno del duca d'Anjou che sali poi al trono di Francia col nome di Enrico III, provò tanta noia in mezzo “alle pessime città” e ai “costumi incivili dei fieri Sarmati”, che, lasciando di gran corsa quelle regioni indirizzò loro quest'apostrofe poco lusinghiera: “Addio, Polonia, addio, piani deserti sempre coperti di neve e ghiaccio, eterno addio! La tua aria, i tuoi costumi mi son talmente dispiaciuti, che non voglio mai più rivederti”. 

   Il card. Commendone fu ricevuto con grande solennità. 

Sigismondo non poté ingannarsi sui motivi, che gli avevano ricondotto il legato pontificio. Questi gli parlò subito di quel che si diceva sulle sue intenzioni, ma il re cambiò le carte in tavola. Che calunnia! Chi mai aveva potuto con tanta perversità ingannare il S. Padre? Si rassegnò con animo tranquillo a subire la malinconia della solitudine, e, poiché la missione del Commendone non aveva altro scopo, pregò caldamente il cardinale di recarsi a Roma, per testimoniare al Santo Padre della sua fedeltà. 

   L'Ambasciatore era un diplomatico troppo fine per prestarsi al gioco del re. Fece note al Papa le dichiarazioni del sovrano e la poca fede che vi prestava, e intanto prolungò la sua permanenza in Polonia, sotto il pretesto che doveva regolare delle questioni canoniche, ristabilire certi monasteri, e visitare le diocesi. 

   Ottenne pure che le sorelle del re, sposate a due principi protestanti, il duca di Finlandia e l'elettore di Brandeburgo, potessero liberamente ricevere una direzione religiosa destinata a confermarle nella fede, e che il giovine principe di Transilvania, nipote di Sigismondo, non fosse affidato a istitutori protestanti, desiderosi di far cadere nell' eresia lui e i suoi paesi. 

In queste difficili congiunture il Commendone trovò un forte appoggio nel cardo d'Hosius, e specialmente nei gesuiti chiamati in Polonia da questo prelato. Il Commendone, il cardo d'Hosius e i gesuiti contribuirono efficacemente a salvare la Polonia dallo scisma. 

   In questo frattempo mori la regina, e il Papa, vedendo libero Sigismondo, poté mettere il cuore in pace. Contrariamente a tutte le previsioni e a dispetto di tutte le convenienze, il re affettò un lutto eccessivo; e pianse rumorosamente la donna che in ogni modo aveva tentato di ripudiare. Anzi, per un cambiamento spiegabile forse per le sue infermità, se pure non si vuol vedere una prova che i suoi cattivi consiglieri lo sospingevano al divorzio in vista d'una scissione, non parlò più di matrimonio. 

   Quello che il Commendone doveva fare era terminato. Tuttavia non lasciò la Polonia, se non quando Sigismondo con un atto ufficiale del 7 maggio 1570 ebbe dichiarato di voler perseverare nel cattolicismo. 

  

   Il nuovo Nunzio alla corte polacca, Vincenzo del Portico, dovette trattare un affare ancora più delicato. Accarezzando sempre l'idea d'una confederazione europea contro i turchi, Pio V nutriva la speranza di poter attirarvi anche lo zar di Mosca. 

   Il pericolo turco era ai suoi occhi tanto grave, che per respingerlo conveniva domandare il concorso di tutti. Ma siccome per le difficoltà delle comunicazioni la curia romana non poteva avere precisi ragguagli sulle disposizioni del Cremlino, il Santo Padre per quanto riguardava Ivan il Terribile partecipava dell'ignoranza e delle illusioni delle persone che lo circondavano 8 . 

   Il Portico ebbe dunque la missione di metter d'accordo la Polonia e la Russia, il lupo e l'agnello. Sigismondo-Augusto che subiva imprecando le incursioni di Mosca sulle frontiere polacche, non aveva proprio nessuna voglia di offrire all'appetito dello zar tutto il suo regno. Il Nunzio intravide subito l'impossibilità di un'intesa; l'interesse della Polonia esigeva che Sigismondo stesse all'erta. 

   Senza lasciarsi scoraggiare dai primi rapporti del suo ambasciatore, Pio V lo sollecitò a iniziare le dovute pratiche, e, per fargli animo gli scrisse che avrebbe mandato a Mosca qualche vescovo. Poco dopo gli accordò tutti i poteri di suo plenipotenziario presso lo zar, e gli tracciò le linee da seguire. Portico doveva procedere con molta circospezione, accennare solo vagamente le questioni religiose, salvo che l'imperatore stesso non sollevasse delle controversie, e fargli balenar la prospettiva di strappare la Terrasanta “al crudele tiranno turco”, come appunto si apprestavano a fare Roma, Venezia e la Spagna. 

   Queste istruzioni del Pontefice, accompagnate da una lettera autografa a Ivan 9 , terminavano con queste parole: “Da quanto Sua Santità ha inteso, lo zar ha espresso il desiderio di ottenere le grazie e i privilegi seguenti: il titolo di re, dei sacerdoti che istruiscano i suoi popoli nella pratica dei riti romani, degli artisti e altro ancora” 10  

   Non era questo il primo generoso errore. Nel 1568 il card. d'Hosius non aveva forse scritto al duca di Baviera, che il principe di Sassonia, ugonotto arrabbiato, voleva rientrare in seno alla Chiesa, e che doveva presto arrivare il P. Canisio per conchiudere un si felice avvenimento? 11 . Il desiderio crea la speranza. Come il duca rimase stupito che si fosse preso sul suo conto un abbaglio tanto ingenuo, cosi il Nunzio rimase maravigliato per le istruzioni del Santo Padre. Egli credeva di aver sufficientemente esposte le intenzioni della Russia, e ora non si teneva alcun conto delle sue osservazioni né della realtà dei fatti. Quell'Ivan che a Roma era ritenuto favorevole al cattolicismo, e che veniva trattato come un principe bramoso di convertirsi o disposto a far delle concessioni, non era in realtà se non uno sfrenato, che aggiungeva a tutte le infamie tutte le crudeltà. 

   Sigismondo-Augusto s'incaricò di dissipare tutte le perplessità del Portico coll'impedirgli la partenza. Ivan, egli disse, s'ingannerà forse sul motivo di questa visita, e affetterà di credere che sia ispirata dal timore; diventerà un arrogante, farà cadere le deboli speranze d'un accordo e ritardare la conversione dei russi. Scrisse anche al cardo d'Hosius una lettera che cominciava coll'apologo del cane di Esopo, il quale abbandonò la preda per lanciarsi sulla propria ombra. Non si poteva dire più chiaramente che cercare l'amicizia della Russia significava perdere quella della Polonia. . 

   Pio V non credette che questa conclusione potesse cosi facilmente trarsi dalle premesse. Ordinò a Portico di mettersi in viaggio, e Sigismondo-Augusto dovette rassegnarsi a lasciar partire il legato. Ma il re avanzò subito nuovi pretesti, di cui qualcuno era veramente futile poiché, se nella sua corrispondenza faceva cenno a delle preoccupazioni religiose, diplomatiche e persino letterarie, si perdeva poi in particolari curiosi sulla cura di far un viaggio comodo e sulla difficoltà di avere delle morbide lettighe oppure delle vetture. 

   Tutte queste lungaggini finirono forse di stancare il Papa, oppure ebbe egli delle altre comunicazioni, che confermarono quelle già ricevute dal Portico? Fatto sta che nel 1571 scrisse al suo legato di desistere dalle trattative 12 . Questi non poté dissimulare la sua soddisfazione né nascondere un tantino d'orgoglio per aver almeno avuto il coraggio di avventurarsi in un simile passo. In magnis voluisse sat est ripeteva enfaticamente col poeta 13 ; piccola consolazione per gli individui che, secondo quel favolista, si contentano di poco. 

   Pio V notificò a Sigismondo c he “per le cattive informazioni ricevute, riguardanti la vita dello zar 14 , abbandonava qualsiasi trattativa con Mosca”; ma, trascurando la Russia, cercò altri alleati in Persia, nell' Arabia e nell'Etiopia. 

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 Card. GIORGIO GRENTE 

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