IL DIPLOMATICO
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Ma non era questa la sola questione che si agitasse allora tra la Spagna e la Santa Sede. Nel Regno di Napoli vi era gran discordia; e una delle prime riforme intraprese da San Pio V fu la visita canonica delle diocesi. Ma, se le autorità religiose ottemperarono a questa innovazione, non si poté dire altrettanto dell'autorità civile, che interpretò la visita come un'usurpazione intollerabile. Quasi per istinto e senza che si fosse ricevuto alcun ordine, la resistenza si fece sentire in diverse parti.
Nel 1568 Pio V aveva istituito visitatore di Napoli Tommaso Orsini, vescovo di Strongoli, in Calabria. Questi, che a molta virtù univa una grande circospezione ed esperienza, procurò di render meno sensibile il controllo da lui esercitato. Ma tutta la sua prudenza non riuscì a calmare il viceré, il quale, geloso di salvaguardare anche contro un'usurpazione solo apparente l'integrità dei diritti sovrani, pretese che si domandasse l'exequatur, e che prima di tutto venisse allontanato l'inviato della Santa Sede.
Parecchi cardinali consigliarono Pio V di temporeggiare promettendo, allo scopo di evitare una crisi, di richiedere il consenso del re. Ma il Papa non volle assolutamente creare un precedente che avrebbe sminuito la sua sovrana autorità.
Ammettendo come principio che ogni vescovo deve poter liberamente visitare la propria diocesi, rispose che il Sommo Pontefice, vescovo universale, non deve subire opposizione al suo ministero né tollerare che venga diminuita la pienezza delle sue prerogative, e minacciò di porre l'interdetto sul Regno di Napoli. La misura era cosi grave che il cardo Coreggio, spaventato per le conseguenze che ne potevano derivare, pregò il Papa di soprassedere a una tale decisione.
Anche il visitatore pontificio in Sicilia Odescalchi incontrava la stessa opposizione da parte dell'ambasciatore spagnuolo Requesens, che si rifiutò di ricevere un'ambasceria dei Cavalieri di S. Lazzaro, e proibì la lettura della Bolla In Coena Domini nelle chiese dell'isola. Di fronte a simili soprusi Pio V, anziché colpire venne a trattative. Luigi de Torres, delegato presso Filippo II, parlò delle questioni pendenti e ne ottenne soddisfazione. Odescalchi ebbe facoltà di entrare in Sicilia, e le visite canoni che autorizzate nel Regno di Napoli potevano aver luogo nella Calabria e nelle Puglie.
Se Pio V esigeva che il re di Spagna riconoscesse i diritti della Chiesa, non lasciava però sfuggire alcuna occasione per attestargli la sua benevolenza. Filippo II, infatuato del suo potere voleva a ogni costo conservarlo intatto; ma il suo carattere sospettoso si adombrava per il più piccolo segnale d'indipendenza. Si lusingava d'essere l'arbitro dell'Europa e di tenere il Papato sotto la sua influenza, ma compensava i suoi difetti con un rispetto esteriore e una fedeltà alla religione, che non sarebbero state scosse da qualsiasi tentativo seducente o maligno.
Il nuovo palazzo dell'Escuriale, ov'egli viveva isolato nel suo orgoglio, era divenuto teatro d'un dramma familiare. Prima di salire sul trono Filippo aveva sposata la principessa Maria di Portogallo, dalla quale ebbe un figlio, Don Carlos, rachitico, travagliato da malattie, triste eredità della casa di Castiglia e Portogallo. Il suo corpo consunto dalla febbre, il suo spirito fantastico e le sue inclinazioni crudeli lo resero ben presto insopportabile. La caduta da una gradinata ad Ascala gli fece girare un po' il cervello, e lo rese oltremodo nervoso. Le sue passioni lo gettarono nell'avvilimento, e la sua perversità malaticcia lo spinse a truci atti di crudeltà verso gli animali e le sue stesse persone di servizio.
Morta la regina, Filippo II s'uni in matrimonio con Maria Tudor d'Inghilterra. Rimasto vedovo una seconda volta, sposò Elisabetta di Valois, figlia d'Enrico II, che a quanto sembra era stata promessa a D. Carlos, il quale, deluso e irritato, avrebbe per questo manifestato propositi poco lusinghieri verso il padre.
Il romanzo s'è impadronito di questo giovane infelice, i cui malanni, se non diminuiscono quello ch'egli ha fatto, scemano di molto quanto scrisse nel 1700 lo Schiller e recentemente Georges de Porto-Riche.
Don Carlos pensò effettivamente di suscitare una rivoluzione per far uccidere il re? Cominciò a ordire la trama? È certo che Filippo II, avendo saputo che nel gennaio 1568 il figlio aveva lasciato Madrid, lo fece arrestare e chiudere in prigione; e siccome sospettava che il Papa avrebbe deplorato una simile violenza volle personalmente fargli conoscere al ragione per cui aveva preso quella grave decisione, sforzandosi di giustificarla. Gli scrisse dunque la seguente lettera del 20 gennaio 1568.
“Come figlio obbedientissimo, per il profondo rispetto che nutro verso questa Santa Sede, devo notificare alla Santità Vostra la mia decisione di incarcerare il serenissimo principe, mio figliuolo... Vostra Santità e l'Europa conoscono abbastanza il mio sistema di governo, per essere convinte che se mi sono indotto a una tale decisione, non l'ho fatto se non dopo maturo esame, a causa della deplorevole condotta del principe, il cui cattivo carattere ha resa vana l'educazione ricevuta dai suoi precettori. Per frenare le sue viziose inclinazioni ho usato clemenza, ma tutto fu inutile. Vostra Santità può immaginare quale sia il mio dolore nel vedere questo futuro erede di tanti Stati, da Dio assoggettati alla mia sovranità; ma egli non ha proprio nessuna delle qualità che si richiedono in un monarca. Onde io, per farlo stare a dovere, ho dovuto assicurarmi della sua persona. Avverto Vostra Santità, e spero che Essa dal mio modo d'agire giudicherà come alla tenerezza che la natura mi ispira per mio figlio, io preferisca la gloria di Dio, l'interesse dei miei Stati e la pace del mio popolo”.
Pio V, vivamente commosso da queste rivalità che avrebbero condotto, com'egli presentiva, a un epilogo sanguinoso, s'affrettò a richiamare Filippo II a sentimenti di clemenza. “Questa vostra decisione, gli scrisse, vi espone a passare per un padre barbaro e a macchiare l'onore d'un principe destinato a cingere un giorno la corona Vostra e di Carlo V”.
Ma il re rimase inflessibile; e gli ultimi atti di Don Carlos non fanno che renderne testimonianza. La morte dello sventurato principe liberò Filippo II da ogni timore. Il prigioniero, mangiando ingordamente e tracannando senza misura delle bevande ghiacciate, in poco tempo cessò di vivere.
Il Papa venne subito informato della tragica fine di Don Carlos; ma siccome l'ambasciatore di Spagna gli aveva spesso parlato della ribellione di Don Carlos e dei suoi folli furori, pensò che la scomparsa del principe fosse un sollievo per tutti e una giusta punizione, cosi che s'astenne dall'inviare alcuna lettera, né di riprovazione né di condoglianza.
Qualcuno potrà forse meravigliarsi di questo riserbo del Papa. Attribuirlo a qualche motivo poco lodevole, alla paura forse di recare dispiacere, sarebbe un misconoscere il carattere franco del Pontefice. Quando un suo intervento poteva essere utile, nessuna minaccia nascosta o aperta avrebbe potuto trattenerlo dall'agire. Ma la morte del principe non suscitò allora le reazioni che pullularono in seguito intorno ad essa.
Sono le potenze, padrone della pubblica opinione, che hanno stravolto i fatti, per vendicarsi d'un re che non amavano; i Paesi Bassi gli rimproveravano il suo governo dispotico, l'Inghilterra non poteva perdonargli il suo desiderio di batterla, e la Francia nutriva verso di lui odio a causa della Lega. Di qui ebbe origine la leggenda che Filippo II fosse un padre senza cuore, che “aveva sulle labbra il sorriso e nelle mani il pugnale”.
Ma l'uomo che ebbe in venerazione la memoria di suo padre sino al punto da conferire le più alte dignità a suo fratello naturale, Don Giovanni d'Austria, e che scriveva alle proprie figliuole delle lettere spiranti semplicità paterna e vera affezione, non poteva essere inesorabile con suo figlio, se non dopo aver esaurito verso il colpevole tutta la bontà del suo cuore.
Pio V se l'immaginò. Egli del resto condivideva i sentimenti dei suoi contemporanei. Filippo II afflitto, ma costante nelle sue avversità, ispirava a tutti, fuorché ai suoi nemici politici e ai protestanti, una specie di imperioso rispetto.
Due anni dopo, il Papa riuscì a diminuire alquanto il rincrescimento che Filippo II provava nel piegare costantemente la sua natura autoritaria ai richiami della Santa Sede. La regina di Spagna, Elisabetta, stava per morire. Massimiliano pregò l'arciduca Carlo di offrire al re la mano della sua figlia primogenita. L'alleanza era vantaggiosa: piaceva a Filippo II, serviva agli interessi spagnuoli e soprattutto a consolidare l'impero. Ma vi si frapponeva l'ostacolo della parentela; l'imperatore aveva sposata la sorella del re di Spagna, il quale avrebbe perciò dovuto unirsi con una sua nipote. Era necessario ottenere la dispensa da Roma.
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Card. GIORGIO GRENTE
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