Alla luce delle Rivelazioni a Maria Valtorta
IL TERZO COMANDAMENTO: “RICORDATI DI SANTIFICARE LE FESTE”.
Da quanto letto abbiamo già sostanzialmente appreso - dalle parole semplici di Gesù che doveva adattarsi alla mente del giovanetto Jabé - il perché della necessità di santificare le feste, ma già in precedenza, per ritornare ai discorsi del ritiro presso l’Acqua Speciosa dove appunto aveva cominciato a spiegare i Dieci Comandamenti a degli ‘adulti’, Gesù si era espresso in maniera più completa e profonda.
Eravamo alla fine del primo anno di vita pubblica, in un inverno dal clima veramente rigido e dal tempo piovoso. Tuttavia la voce della presenza e predicazione di Gesù si era andata sempre più diffondendo e le persone che avevano bisogno del Maestro e taumaturgo non si arrendevano certo alle rigidezze climatiche.
Stranamente, l’ordine seguito da Gesù nello spiegare i Comandamenti non è quello al quale siamo abituati, infatti il comandamento “Onora il padre e la madre” e “Non fornicare”, precedono il “Ricordati di santificare le feste.”
Io seguirò ovviamente l’ordine canonico e mi limito a farvi notare che Gesù ci dà una spiegazione per questi suoi cambiamenti, spiegazione che troveremo nella catechesi del sesto Comandamento: “Non fornicare”, ma che ora vi anticipo in nota.41
<<<
La giornata meno tremenda42, per quanto ancora piovosa, permette alla gente di venire dal Maestro. Gesù ascolta in disparte due o tre che hanno grandi cose da dirgli e che poi raggiungono più quieti il loro posto. Benedice anche un bambinello che ha le gambine fratturate malamente e che nessun medico volle curare dicendo:
«È inutile. Sono rotte in alto, presso la spina». Lo dice la madre tutta in lacrime, e spiega: «Correva con la sorellina sulla via del paese. È venuto avanti di galoppo col suo carro un erodiano e lo ha travolto sotto il carro. Ho creduto fosse morto.
Ma è peggio. Lo vedi. Lo tengo su quest'asse perché... non c'è altro da fare. E soffre, soffre perché l'osso buca. Ma poi, quando l'osso non bucherà più, allora soffrirà perché non potrà che giacere sul dorso».
«Hai molto male?», chiede pietoso Gesù al fanciullino piangente.
«Sì».
«Dove?». «Qui... e qui», e si tocca con la manina incerta le due ossa iliache.
«E poi qui e qui», e tocca le reni e le spalle. «É dura l'asse e io voglio muovermi, io...», e piange disperato.
«Vuoi venire in braccio a Me? Ci vieni? Ti porto là in alto, vedi tutti mentre Io parlo».
«Siii» (il sì è pieno di desiderio).
Il poverino tende le braccine supplici.
«Vieni, allora».
«Ma non può, Maestro, è impossibile! Ha troppo dolore...
Neppur lo posso muovere io per lavarlo».
«Non gli farò male».
«Il medico...».
«Il medico è il medico, Io sono Io. Perché sei venuta?».
«Perché sei il Messia», risponde la donna che sbianca e arrossa in volto, presa fra una speranza e una disperazione.
«E allora? Vieni, piccolino».
E Gesù, passando un braccio sotto le inerti gambine, uno sotto le piccole spalle, prende il bambino e gli chiede:
«Ti faccio male? No? E allora di addio alla mamma e andiamo».
E va, fra la folla che si fende, col suo carico. Va fino in fondo, sale sulla specie di predella che gli hanno costruita perché sia visto da tutti, anche nella corte, si fa dare una panchetta e si siede, si aggiusta sulle ginocchia il bambino e gli chiede:
«Ti piace? Ora sta' buono e ascolta anche tu»; e inizia a parlare gestendo con una mano sola, la destra, perché con la sinistra sorregge il bambino che guarda la gente, felice di vedere qualcosa, e sorride alla mamma palpitante di speranza là in fondo, e giocherella col cordone della veste di Gesù e anche con la morbida barba bionda del Maestro e con una ciocca dei suoi lunghi capelli.
«È detto: "Lavora di un onesto lavoro e il settimo di dedicarlo al Signore e allo spirito tuo".
Questo è detto col comando del riposo sabatico. L'uomo non è da più di Dio. Eppure Dio fece in sei giorni la sua creazione e il settimo riposò.
Come allora l'uomo si permette di non imitare il Padre e di non ubbidire al suo ordine?
È ordine stolto?
No. In verità è un ordine salutare sia nell'ordine della carne, sia in quello morale, sia in quello dello spirito.
Il corpo affaticato ha bisogno di riposo così come lo ha quello di ogni creato essere.
Riposa pure, e noi lo lasciamo riposare per non perderlo, il bove usato nel campo, l'asino che ci porta, la pecora che ci figlia l'agnello e ci dà latte.
Riposa pure, e noi la lasciamo riposare, la terra del campo, perché nei mesi che è priva di seme si nutra e saturi dei sali che ad essa piovono dal cielo o affiorano dal suolo.
Riposano bene, anche senza chiedere il nostro beneplacito, gli animali e le piante che ubbidiscono a leggi eterne di un riprodurre saggio.
Perché allora l'uomo vuole non imitare il Creatore, che il settimo si riposò, e non l'inferiore che, vegetale o animale che sia, senza aver avuto che un comando all'istinto, si sa regolare secondo esso e ad esso ubbidire?
È un ordine morale oltre che fisico. Per sei giorni l'uomo fu di tutti e di tutto. Preso come un filo dal congegno del telaio, andò su e giù senza mai poter dire: "Ora mi occupo di me stesso, dei miei più cari. Sono il padre e oggi sono dei figli, sono lo sposo ed oggi mi dedico alla sposa, sono il fratello e gioisco dei fratelli, sono il figlio e curo la vecchiezza dei genitori".
È un ordine spirituale.
Santo il lavoro. Più santo l'amore. Santissimo Iddio. E allora ricordarsi di dare almeno un giorno su sette al nostro buono e santo Padre, che ci ha dato la vita e ce la mantiene. Perché trattarlo da meno del padre, dei figli, dei fratelli, della sposa, dello stesso nostro corpo? Il dies Domini sia di Lui.
Oh! dolce ricoverarsi dopo il lavoro del giorno, a sera, nella casa piena di affetti! Dolce ritrovarla dopo un lungo viaggio!
E perché non ricoverarsi dopo sei giorni di lavoro nella casa del Padre? Perché non essere come il figlio che torna da un viaggio durato sei giorni e dice: "Eccomi a passare il mio giorno di riposo con te"?
Ma, ora udite, Io ho detto: "Lavora di un onesto lavoro". Voi sapete che la nostra Legge ordina l'amore del prossimo.
L'onestà del lavoro rientra nell'amore del prossimo. L'onesto nel lavoro non ruba nel commercio, non defrauda la mercede all'operaio, non lo sfrutta in maniera colpevole, si ricorda che il servo e l'operaio sono una carne e un'anima pari a lui e non li tratta come pezzi di pietra senza vita, che è lecito spezzare e percuotere col piede e col ferro. Chi non fa così non ama il prossimo e pecca perciò agli occhi di Dio. Maledetto è il suo guadagno, anche se da esso ne trae obolo per il Tempio. Oh! che bugiarda offerta! E come può osare di metterla ai piedi dell'altare quando gronda di lacrime e sangue dell'inferiore sfruttato, o ha nome "furto", ossia tradimento verso il prossimo, perché il ladro è un traditore del suo prossimo?
Non è, credetelo, santificata la festa se non è usata a scrutare se stesso ed impiegata a migliorare se stesso, a riparare i peccati commessi durante i sei giorni.
Ecco la santificazione della festa! Questa e non un'altra tutta esteriore e che non muta di uno iota il vostro modo di pensare.
Dio vuole opere vive, non simulacri d'opere.
È simulacro il falso ossequio alla sua Legge. È simulacro la santificazione mendace del sabato, ossia il riposo compiuto per mostrare ubbidienza al comando agli occhi degli uomini, ma usando poi quelle ore di ozio nel vizio, nella lussuria, nella crapula, nella cogitazione sul come sfruttare e nuocere al prossimo nella veniente settimana.
È simulacro la santificazione del sabato, ossia il riposo materiale che non si accoppia al lavoro intimo, spirituale, santificante di un retto esame di sé, di un umile riconoscimento della propria miseria, di un serio proposito di fare meglio nella prossima settimana.
Voi direte: "E se poi si torna a cadere in peccato?".
Ma che direste voi di un bambino, che per essere caduto non volesse più fare un passo per non tornare a cadere? Che è uno stolto. Che non si deve vergognare di essere incerto nel passo, perché tutti lo fummo quando eravamo piccini e non per questo il padre nostro non ci amò...
Chi non ricorda come le nostre cadute hanno fatto piovere su noi una pioggia di baci materni e di carezze paterne?
Lo stesso fa il Padre dolcissimo che è nei Cieli. Egli si china sul suo piccolo che piange al suolo e gli dice:
"Non piangere. Io ti rialzo. Starai più attento un'altra volta.
Ora vieni nelle mie braccia. Qui passerà ogni tuo male e poi tornerai via irrobustito, risanato, felice".
Questo dice il Padre nostro che è nei Cieli. Questo Io vi dico.
Se riusciste ad avere fede nel Padre, tutto vi riuscirebbe.
Una fede, fate attenzione, come quella di un pargolo. Il pargolo crede tutto possibile. Non si chiede se e come può avvenire un fatto. Non misura la profondità di esso. Crede in chi gli ispira fiducia e fa ciò che costui gli dice. Siate come i pargoli presso l'Altissimo. Come li ama questi sperduti angeli che sono la bellezza della Terra!
Ugualmente ama le anime che si fanno semplici, buone, pure come è il bambino. Volete vedere la fede di un bambino per imparare ad avere fede?
Osservate. Tutti voi avete compassionato il piccolino che Io tengo sul petto e che, contrariamente a ciò che i medici e la madre dicevano, non ha pianto nello stare seduto nel mio grembo. Vedete? Lui, che da molto tempo non faceva che piangere notte e giorno senza trovare riposo, qui non ha pianto e si è addormentato placido sul mio cuore. Gli ho chiesto: "Vuoi venire in braccio a Me?", e lui ha risposto: "sì" senza ragionare sul suo misero stato, sul probabile dolore che avrebbe potuto sentire, sulle conseguenze di essere mosso. Ha visto nel mio volto amore e ha detto: "sì" ed è venuto. E non ha sentito dolore.
Ha goduto di esser qui in alto e vedere, lui inchiodato su quella piatta tavola, ha goduto di essere messo sul morbido di una carne e non sul duro di un legno, ha sorriso, ha giocato e si è addormentato con ancora una ciocca dei miei capelli fra le piccole mani.
Ora lo sveglio, con un bacio...», e Gesù bacia sui capellucci castani il bambino, finché si sveglia con un sorriso.
«Come ti chiami?».
«Giovanni».
«Ascolta, Giovanni. Vuoi camminare? Andare dalla mamma e dirle: "Il Messia ti benedice per la tua fede"?».
«Sì! sì!»; e il piccolo batte le manine, poi chiede:
«Tu mi fai andare? Sui prati? Più la brutta tavola dura? Più i medici che fanno male?».
«Più, mai più».
«Ah! come ti voglio bene!», e getta le braccine intorno al collo di Gesù e lo bacia, e per baciarlo meglio salta in ginocchio sui ginocchi di Gesù, e una grandine di baci innocenti scende sulla fronte, sugli occhi, sulle guance di Gesù.
Il bambino nella sua gioia neppure si accorge di essersi potuto muovere, lui fino allora spezzato.
Ma l'urlo della madre e della folla lo riscuote e lo fa volgere stupito. I suoi occhioni innocenti nel volto smagrito guardano interrogativamente. Sempre in ginocchio, col braccino destro intorno al collo di Gesù, gli chiede confidenzialmente accennando alla gente in tumulto, alla madre che nel fondo lo chiama unendo il suo nome a quello di Gesù: «Giovanni! Gesù!
Giovanni! Gesù» -: «Perché urla la folla e la mamma? Che hanno? Sei Tu Gesù?».
«Sono Io. La gente grida perché è contenta che tu possa camminare. Addio, piccolo Giovanni (Gesù lo bacia e benedice).
Vai dalla mamma e sii buono».
Il bambino scende sicuro dai ginocchi di Gesù, da questi in terra, e corre dalla sua mamma, le salta al collo e dice:
«Gesù ti benedice. Perché piangi allora?».
Quando la gente è un poco più zitta, Gesù tuona:
«Fate come il piccolo Giovanni, voi che cadete in peccato e vi ferite. Abbiate fede nell'amore di Dio. La pace sia con voi».
E mentre il gridio della folla osannante si mescola al felice pianto della madre, Gesù, protetto dai suoi, esce dallo stanzone e tutto ha fine. […].
a cura del Team Neval
Riflessioni di Giovanna Busolini