Dalla Gerarchia Cardinalizia di Carlo Bartolomeo Piazza
e dalle Rivelazioni Private della mistica
Maria Valtorta
Martirio e morte del piccolo Castulo e S. Messa di S. Paolo al Tullianum.
29 febbraio 1944
Vedo un buio stanzone39. Lo dico stanzone tanto per dire ambiente vasto e in muratura. Ma è un sotterraneo nel quale la luce entra a malapena da due feritoie a livello del suolo che servono anche per l’areazione. Molto insufficiente, d’altronde, rispetto alla quantità di gente che è nell’ambiente e all’umidità dello stesso che trasuda dalle muraglie fatte di blocchi quasi quadrati di pietra connessa con calcina, ma senza alcun intonaco, e dal suolo di terreno battuto.
So che è il carcere Tullianum. Me lo dice il mio indicatore. So anche, per la stessa fonte, che quella folla accatastata in così poco spazio è data da cristiani imprigionati per la loro fede e in attesa d’esser martirizzati. È tempo di persecuzione, e precisamente una delle prime persecuzioni, perché sento parlare di Pietro e Paolo e so che questi sono stati uccisi sotto Nerone.
Non può credere con che vivezza di particolari io “veda” questo carcere e chi vi è accolto. Potrei di ogni singolo descrivere età, fisionomia e vestito. Ma allora non la finirei più. Mi limito perciò a dire le cose, i punti e i personaggi che più mi colpiscono.
Vi sono persone di tutte le età e condizione sociale. Dai vecchi che sarebbe pietoso lasciar spegnere dalla morte, ai bambini di pochi anni che sarebbe giusto lasciar liberi e giocondi ai loro giuochi innocenti e che invece languono, poveri fiori che non vedranno mai più i fiori della terra, nella penombra malsana di questa carcere.
Vi sono i ricchi dalle vesti curate ed i poveri dalle povere vesti. E anche il linguaggio ha variazioni di pronuncia e di stile a seconda che esce da labbra istruite di signori o da bocche di popolani. Si sentono anche, mescolate al latino di Roma, parole e pronunce straniere di greci, di iberi, di traci, ecc. ecc. Ma se diversi sono gli abiti e gli eloqui, uguale è lo spirito guidato da carità. Essi si amano senza distinzione di razza e di censo. Si amano e cercano d’esser l’un l’altro di aiuto.
I più forti cedono i posti più asciutti e più comodi - se comodo si può chiamare qualche pietrone sparso qua e là a far da sedile e guanciale - ai più deboli. E riparano questi con le loro vesti, rimanendo senza altra cosa che una tunica per la pudicizia, usando toghe e mantelli a far da materasso e guanciale e da coperta ai malati che tremano di febbre o ai feriti da già subìte torture. I più sani sovvengono i più malati dando loro da bere con amore: un poco d’acqua mesciuta da un orcio in un rustico recipiente, intridendo, nella stessa, strisce di tela strappate alle loro vesti per fare da bende sulle membra slogate o lacerate e alle fronti arse da febbre.
E cantano dentro per dentro40 Un canto soave che è certo un salmo o più salmi, perché si alternano. Non sento il bel canto che accompagnò la sepoltura di Agnese41. Questi sono salmi. Li riconosco.
Uno di essi incomincia così: “Amo, perché il Signore ascolta la voce della mia preghiera” (S. 94)42.
Un altro dice: “O Dio, Dio mio, per Te veglio dalla prima luce. Ha sete di Te l’anima mia e molto più la mia carne. In una terra deserta, impraticabile e senz’acqua...” (S. 62).
Un bambino geme nella semi oscurità.
Il canto sospende.
“Chi piange?” si chiede.
“È Castulo” si risponde. “La febbre e la bruciatura non gli dànno tregua. Ha sete e non può bere perché l’acqua brucia sulle sue labbra arse dal fuoco”.
“Qui vi è una madre che non può più dare il latte al suo piccino” dice una imponente matrona dall’aspetto signorile. “Mi si porti Castulo. Il latte brucia meno dell’acqua”.
“Castulo a Plautina” si ordina.
Si avanza uno che dalla veste giudicherei o un servo di famiglia cristiana, che condivide la sorte dei padroni, o un lavoratore del popolo. È tarchiato, bruno, robusto, coi capelli quasi rasati e una corta veste scura stretta alla vita da una cinghia. Porta con cura sulle braccia, come su una barellina, un povero bambino di sì e no otto anni. Le sue vesti, per quanto ormai sporche di terra e di macchie, sono ricche, di lana bianca e fina, e ornate al collo, alle maniche e al fondo, da una ricca greca ricamata. Anche i sandali sono ricchi e belli.
Plautina si siede su un sasso che un vecchio le cede. Plautina pure è tutta vestita di lana bianca. Non ricordo il nome delle vesti romane con esattezza, ma mi pare che questa lunga veste si chiami clamide e il manto palla. Però non garantisco della mia memoria. So che questa di Plautina è molto bella e ampia e l’avvolge con grazia facendo di lei una bellissima statua viva.
Ella si siede sul masso addossato alla muraglia. Vedo distintamente i pietroni che la sovrastano, sui quali ella spicca col suo volto lievemente olivastro, dagli occhi grandi e neri e dalle trecce corvine, e con la sua candida veste.
“Dàmmi, Restituto, e che Dio ti compensi” ella dice al pietoso portatore del piccolo martire. E divarica un poco le ginocchia per accogliere, come su un letto, il bambino.
Quando Restituto lo posa, vedo uno scempio che mi fa raccapricciare. Il viso del povero bambino è tutto una bruciatura. Sarà stato bello forse. Ora è mostruoso. Non più che pochi capelli sul dietro del capo; davanti la cute è nuda e mangiata dal fuoco. Non più fronte né guance né naso come noi li pensiamo, ma una tumefazione rosso-viva, rósa dalla vampa come da un acido. Al posto degli occhi, due piaghe da cui colano rare lacrime che devono essere tormento alle sue carni bruciate. Al posto delle labbra, un’altra piaga orrenda a vedersi. Si direbbe che lo hanno tenuto curvo sulla fiamma col solo viso, perché l’arsione cessa sotto il mento.
Plautina si apre la tunica e, parlando con amore di vera madre, spreme la sua tonda mammella piena di latte e ne fa stillare le gocce fra le labbra del bambino, che non può sorridere, ma che le carezza la mano per mostrarle il suo sollievo. E poi, dopo averlo dissetato, fa cadere altro latte sul povero viso per medicarlo con questo balsamo, che è un sangue di madre divenuto nutrimento e che è amore di una senza più figli per uno senza più mamma.
Il bambino non geme più. Dissetato, calmato nel suo spasimo, ninnato dalla matrona, si assopisce respirando affannosamente.
Plautina sembra una madre dei dolori per la posa e per l’espressione. Guarda il poverino e certo vede in lui la sua creatura o le sue creature, e delle lacrime rotolano sulle sue guance, e lei getta indietro il capo per impedire che cadano sulle piaghe del piccolo.
A cura di Mario Ignoffo