mercoledì 13 maggio 2020

Santi Martiri del I – II e III Secolo



Dalla Gerarchia Cardinalizia di  Carlo Bartolomeo Piazza 
e dalle Rivelazioni Private della mistica 
 Maria Valtorta 


Martirio e morte del piccolo Castulo e S. Messa  di S. Paolo al Tullianum. 


29 febbraio 1944 
Vedo un buio stanzone39. Lo dico stanzone tanto per dire  ambiente vasto e in muratura. Ma è un sotterraneo nel quale la  luce entra a malapena da due feritoie a livello del suolo che servono anche per l’areazione. Molto insufficiente, d’altronde,  rispetto alla quantità di gente che è nell’ambiente e all’umidità dello stesso che trasuda dalle muraglie fatte di blocchi quasi  quadrati di pietra connessa con calcina, ma senza alcun  intonaco, e dal suolo di terreno battuto. 
So che è il carcere Tullianum. Me lo dice il mio indicatore.  So anche, per la stessa fonte, che quella folla accatastata in così  poco spazio è data da cristiani imprigionati per la loro fede e in attesa d’esser martirizzati. È tempo di persecuzione, e precisamente una delle prime persecuzioni, perché sento parlare  di Pietro e Paolo e so che questi sono stati uccisi sotto Nerone. 
Non può credere con che vivezza di particolari io “veda” questo carcere e chi vi è accolto. Potrei di ogni singolo  descrivere età, fisionomia e vestito. Ma allora non la finirei  più. Mi limito perciò a dire le cose, i punti e i personaggi che più  mi colpiscono. 
Vi sono persone di tutte le età e condizione sociale. Dai  vecchi che sarebbe pietoso lasciar spegnere dalla morte, ai  bambini di pochi anni che sarebbe giusto lasciar liberi e  giocondi ai loro giuochi innocenti e che invece languono, poveri  fiori che non vedranno mai più i fiori della terra, nella  penombra malsana di questa carcere. 
Vi sono i ricchi dalle vesti curate ed i poveri dalle povere  vesti. E anche il linguaggio ha variazioni di pronuncia e di stile a  seconda che esce da labbra istruite di signori o da bocche di  popolani. Si sentono anche, mescolate al latino di Roma, parole  e pronunce straniere di greci, di iberi, di traci, ecc. ecc. Ma se diversi sono gli abiti e gli eloqui, uguale è lo spirito guidato da  carità. Essi si amano senza distinzione di razza e di censo. Si amano e cercano d’esser l’un l’altro di aiuto. 
I più forti cedono i posti più asciutti e più comodi - se  comodo si può chiamare qualche pietrone sparso qua e là a far  da sedile e guanciale - ai più deboli. E riparano questi con le  loro vesti, rimanendo senza altra cosa che una tunica per la  pudicizia, usando toghe e mantelli a far da materasso e  guanciale e da coperta ai malati che tremano di febbre o ai feriti  da già subìte torture. I più sani sovvengono i più malati dando loro da bere con amore: un poco d’acqua mesciuta da un orcio in un rustico recipiente, intridendo, nella stessa, strisce di tela  strappate alle loro vesti per fare da bende sulle membra slogate  o lacerate e alle fronti arse da febbre. 
E cantano dentro per dentro40  Un canto soave che è certo  un salmo o più salmi, perché si alternano. Non sento il bel  canto che accompagnò la sepoltura di Agnese41. Questi sono  salmi. Li riconosco. 
Uno di essi incomincia così: “Amo, perché il Signore ascolta  la voce della mia preghiera” (S. 94)42. 
Un altro dice: “O Dio, Dio mio, per Te veglio dalla prima  luce. Ha sete di Te l’anima mia e molto più la mia carne. In una  terra deserta, impraticabile e senz’acqua...” (S. 62). 
Un bambino geme nella semi oscurità.  
Il canto sospende. 
“Chi piange?” si chiede. 
“È Castulo” si risponde. “La febbre e la bruciatura non gli  dànno tregua. Ha sete e non può bere perché l’acqua brucia sulle sue labbra arse dal fuoco”. 
“Qui vi è una madre che non può più dare il latte al suo  piccino” dice una imponente matrona dall’aspetto signorile. “Mi  si porti Castulo. Il latte brucia meno dell’acqua”. 
“Castulo a Plautina” si ordina. 
Si avanza uno che dalla veste giudicherei o un servo di  famiglia cristiana, che condivide la sorte dei padroni, o un  lavoratore del popolo. È tarchiato, bruno, robusto, coi capelli  quasi rasati e una corta veste scura stretta alla vita da una  cinghia. Porta con cura sulle braccia, come su una barellina, un  povero bambino di sì e no otto anni. Le sue vesti, per quanto  ormai sporche di terra e di macchie, sono ricche, di lana bianca  e fina, e ornate al collo, alle maniche e al fondo, da una ricca  greca ricamata. Anche i sandali sono ricchi e belli. 
Plautina si siede su un sasso che un vecchio le cede. Plautina  pure è tutta vestita di lana bianca. Non ricordo il nome delle  vesti romane con esattezza, ma mi pare che questa lunga veste  si chiami clamide e il manto palla. Però non garantisco della mia  memoria. So che questa di Plautina è molto bella e ampia e l’avvolge con grazia facendo di lei una bellissima statua viva. 
Ella si siede sul masso addossato alla muraglia. Vedo  distintamente i pietroni che la sovrastano, sui quali ella spicca  col suo volto lievemente olivastro, dagli occhi grandi e neri e  dalle trecce corvine, e con la sua candida veste. 
“Dàmmi, Restituto, e che Dio ti compensi” ella dice al pietoso portatore del piccolo martire. E divarica un poco le  ginocchia per accogliere, come su un letto, il bambino.
Quando Restituto lo posa, vedo uno scempio che mi fa  raccapricciare. Il viso del povero bambino è tutto una  bruciatura. Sarà stato bello forse. Ora è mostruoso. Non più  che pochi capelli sul dietro del capo; davanti la cute è nuda e  mangiata dal fuoco. Non più fronte né guance né naso come  noi li pensiamo, ma una tumefazione rosso-viva, rósa dalla  vampa come da un acido. Al posto degli occhi, due piaghe da  cui colano rare lacrime che devono essere tormento alle sue carni bruciate. Al posto delle labbra, un’altra piaga orrenda a vedersi. Si direbbe che lo hanno tenuto curvo sulla fiamma col solo viso, perché l’arsione cessa sotto il mento. 
Plautina si apre la tunica e, parlando con amore di vera  madre, spreme la sua tonda mammella piena di latte e ne fa  stillare le gocce fra le labbra del bambino, che non può  sorridere, ma che le carezza la mano per mostrarle il suo  sollievo. E poi, dopo averlo dissetato, fa cadere altro latte sul  povero viso per medicarlo con questo balsamo, che è un sangue  di madre divenuto nutrimento e che è amore di una senza più  figli per uno senza più mamma. 
Il bambino non geme più. Dissetato, calmato nel suo spasimo, ninnato dalla matrona, si assopisce respirando  affannosamente. 
Plautina sembra una madre dei dolori per la posa e per l’espressione. Guarda il poverino e certo vede in lui la sua creatura o le sue creature, e delle lacrime rotolano sulle sue  guance, e lei getta indietro il capo per impedire che cadano sulle  piaghe del piccolo. 

A cura di Mario Ignoffo

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