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sabato 5 agosto 2023

Un vescovo parla

 


1969

DOPO IL CONCILIO: LA CHIESA DI FRONTE ALLA CRISI MORALE CONTEMPORANEA *


* Conferenza pronunziata alla Faculté Autonome d'Économie et de Droit di Parigi. Prima di mons. Lefèbvre aveva parlato il Decano della Facoltà, professor Dauphin-Meunier (N.d.E.). Signor Presidente, la ringrazio di darmi l'occasione di parlare davanti a questa assemblea, anche se mi mancherà l'eloquenza del professore di diritto che mi ha preceduto. Sono un missionario, poco abituato a parlare davanti a un uditorio così distinto, ma spero di farlo con la stessa fede e con lo stesso coraggio: sapete quanto ne occorra oggi per opporsi alle idee correnti. Se dirò cose che potrebbero suscitare la loro meraviglia, avrò cura di farle loro osservare affinché vi riflettano e sappiano fare le necessarie distinzioni. Mi è stato chiesto di parlare della situazione della Chiesa di fronte alla crisi morale contemporanea. Ritengo, e loro lo sanno quanto me, che questa crisi morale abbia radici molto profonde nella nostra storia. Occorre certamente risalire al momento in cui nella cristianità la prima crisi morale divenne pubblica (crisi morali personali ne abbiamo tutti), quella crisi cioè che distrusse la base stessa della morale sostituendo all'autorità di Dio la coscienza personale. Fu la nascita del protestantesimo che sostituì il libero arbitrio all'autorità di Dio, all'autorità della Chiesa. Questa crisi morale si manifestò al mondo per la seconda volta in modo ancora più drammatico, più tragico, quando a coloro che ci comandavano e ci guidavano nella vita civile in nome di Gesù Cristo, in nome di Dio, subentrarono coloro che ci guidavano in nome della dea Ragione. In una parola, il fondamento del diritto e del dovere morale, che è Dio, fu sostituito, si trattasse dell'individuo o della società, dalla coscienza e dagli uomini. Era la fine della società! E siamo ancora, più o meno, a quello stesso punto. Ci furono certamente reazioni. Ma dal momento in cui ci consegnarono nelle mani di uomini che non si riferivano più a Dio, siamo diventati schiavi di quegli uomini. Sa il cielo con quali conseguenze! Loro conoscono la storia di tutte le guerre che ne derivarono, di tutti i drammi vissuti dalla Francia da due secoli in qua, di tutto il sangue versato a causa di quella dimenticanza, di quella sostituzione di coscienza e ragione a Dio. Certo, in alcuni paesi, in alcuni casi particolari, la cristianità reagì. Ma quale fu l'atteggiamento della Chiesa davanti a quella ribellione a Dio e a se stessa? L'opposizione dei Papi, di molti vescovi, della maggior parte dei sacerdoti e dei fedeli fu risoluta. Dopo la Rivoluzione nacquero nuove congregazioni religiose, si potè assistere al ritorno di una certa autorità che si diceva ancora unita a Dio e, in alcuni paesi, al ritorno della monarchia cristiana. Ma non va taciuto che durante tutto il secolo XIX si ebbero cattolici (non parlo dei nemici della Chiesa, di coloro che volevano conservare a tutti i costi le loro conquiste) che credettero possibile raggiungere un compromesso, un'intesa con i princìpi della Rivoluzione, i princìpi del protestantesimo. È la storia del liberalismo cattolico. Esso fu affermato, forse, in buona fede, ma la Chiesa rimase sempre fedele ai suoi princìpi e lo condannò. Successori del liberalismo cattolico furono più tardi il Sillon 8 il modernismo e oggi il neomodernismo. Si deve purtroppo in parte ad essi il fallimento dei tentativi fatti dai Papi, da un buon numero di vescovi, da sacerdoti e fedeli di ricollocare Nostro Signore Gesù Cristo a fondamento della società e della nostra morale. Fino al Santo Padre Pio XII abbiamo udito affermare quelle verità in modo chiaro, solenne. Si può dire che Pio XII illuminò di una luce straordinaria tutti i difficili problemi della nostra epoca. Fu un papa eccezionale. Durante il Concilio avremmo potuto limitarci a consultare i suoi scritti inserendo nei nostri schemi le soluzioni da lui date a quei problemi, e il Concilio sarebbe stato infinitamente superiore a quello che è stato. Ai tempi di Pio XII - questo va detto - la Chiesa si trovava in una situazione relativamente fiorente, almeno in alcuni paesi. Pensiamo all'Olanda, i cui cattolici aumentavano con rapidità tale da diventare maggioranza; alla Svizzera, trasformatasi altrettanto rapidamente, per esempio nel cantone di Ginevra. Il Portogallo ritrovava, dopo la rivoluzione, la fede cristiana; la Spagna ritornava alla fede degli avi. Le conversioni erano numerosissime: centottantamila all'anno negli Stati Uniti, da cinquanta a ottantamila in Inghilterra. È incontestabile che i protestanti si stavano avvicinando alla Chiesa cattolica. Come si spiega che le forze sovversive siano riuscite a penetrare dappertutto, nei nostri seminari in particolare? Già vi circolavano, purtroppo, fogli clandestini; l'insegnamento della dottrina di san Tommaso era osteggiata, i professori cominciavano a tenervi corsi privati che sfuggivano a ogni controllo. La maggior parte dei vescovi non riusciva a sapere che cosa si insegnasse nei loro seminari. Lentamente ma sicuramente l'opera di distruzione cominciò fin dal tempo di Pio XII di venerata memoria. Ed eccoci alla vigilia del Concilio. Concilio che non ha ancora finito di far parlare di sé! Nella mia qualità di membro della commissione centrale preconciliare, di cui facevano parte ottanta cardinali, una ventina di arcivescovi, una decina di vescovi e quattro superiori generali di congregazioni religiose, potei constatare personalmente che il Concilio fu preparato con grande serietà e fedeltà alla Tradizione. Bisognerebbe poter pubblicare adesso tutti quegli schemi preparatori per constatare a che punto si trovasse la dottrina della Chiesa il giorno precedente l'apertura del Concilio. Ma ecco dove è il cuore del dramma (non sono il solo a pensarlo): Fin dai primi giorni il Concilio fu investito dalle forze progressiste. Noi ne avemmo la sensazione, ce ne rendemmo conto. E quando dico «noi» posso dire la maggioranza dei padri conciliari. Ci convincemmo che nel Concilio stava accadendo qualche cosa di anormale. Il modo di agire di coloro che, attaccando la Curia romana, volevano distogliere il Concilio dal suo fine e, attraverso la Curia, colpire Roma e il successore di Pietro, fu scandaloso. Quando il cardinale Ottaviani ci sottopose i nomi di coloro che avevano fatto parte delle commissioni preconciliari allo scopo di comporre le commissioni conciliari (cosa normalissima; infatti, essendo duemilaquattrocento, provenienti da tutte le parti del mondo, non ci conoscevamo), un grido di indignazione si levò da parte di «quelli delle rive del Reno», che insorsero contro la pressione esercitata da Roma per imporre i membri delle commissioni. Stupore generale! Ma il giorno dopo ci furono distribuite liste internazionali già predisposte, composte da nomi che non conoscevamo e che finirono con l'essere accettate. Chi le aveva compilate conosceva perfettamente quei vescovi, tutti (è superfluo dirlo) appartenenti alla stessa tendenza. Fu così che le commissioni furono formate per due terzi da membri progressisti. Ovviamente, i testi degli schemi che ci furono consegnati nel corso delle sessioni conciliari rispecchiavano chiaramente le idee della maggioranza dei membri delle commissioni. Ci trovammo quindi davanti a una situazione assolutamente inestricabile. Come cambiare completamente e in profondità quegli schemi del Concilio? È possibile modificare qualche frase, qualche proposizione, non l'essenziale. Le conseguenze di quella situazione sono pesanti. Ma ci viene affermato: Questo Concilio è infallibile, non avete il diritto di dubitarne; tutto quanto è stato approvato dal Papa e dai vescovi deve essere accettato tal quale senza discussione. Io penso che sia necessario distinguere e, per prima cosa, definire questo Concilio. Questo Concilio, infatti, è stato ripetutamente detto «pastorale», e quando volevamo che fosse precisato qualche termine, ci sentivamo rispondere: È inutile: non si tratta di un Concilio dogmatico, ma di un concilio pastorale. Le persone per cui parliamo non sono specialisti, e nemmeno teologi. Per concludere: si tratta di un testo di predicazione, e non di un testo scientifico. Ne avevamo, purtroppo, prove evidenti. Ammetteranno che non fa molto onore a un'assemblea di duemilaquattrocento vescovi compilare uno schema sulla Chiesa avente per scopo principale la collegialità e dovervi poi aggiungere una nota esplicativa per spiegare il significato di tale collegialità! Penso che se il testo fosse stato studiato a sufficienza e fosse stato a sufficienza esplicito non sarebbero occorse note esplicative. I concili furono sempre dogmatici. Certo, il Concilio Vaticano II è un concilio ecumenico per numero di vescovi partecipanti e perché convocato dal Papa, ma non è un concilio come gli altri. Giovanni XXIII si è espresso chiaramente in proposito. Il suo oggetto fu evidentemente diverso da quello degli altri concili. Per evitare l'ambiguità di un concilio pastorale eravamo intervenuti chiedendo due testi: uno dottrinale e uno di considerazioni pastorali. L'idea del testo dottrinale fu esclusa a favore del solo testo pastorale. Penso però che questo fatto abbia un'importanza capitale in quanto ci farà meglio comprendere la situazione in cui ci troviamo. Non so che cosa loro ne pensino, ma ci parlano continuamente dello «spirito postconciliare», causa di tutti i nostri mali, che provoca la ribellione dei chierici, solleva contestazioni, è all'origine dell'occupazione di cattedrali e di parrocchie e di tutte le stravaganze della liturgia e della nuova teologia. Questo «spirito postconciliare» non avrebbe davvero nulla a che fare con il Concilio? Sarebbe un fenomeno totalmente estraneo al Concilio? L'albero si giudica dai suoi frutti… Che fare allora? Qual è l'atteggiamento del Papa? Il Santo Padre ha reso pubblicamente una professione di fede. Ora, questo atto, dal punto di vista dogmatico, è più importante dell'intero Concilio. Sottolineo: dal punto di vista dogmatico. Quel Credo, compilato dal successore di Pietro per affermare la fede di Pietro, ha rivestito una solennità assolutamente straordinaria. Il Papa ha infatti manifestato la sua intenzione di farlo come successore di Pietro, e da solo, in quanto vicario di Cristo. Quando si è levato in piedi per proclamare il Credo, si sono alzati anche i cardinali, e l'intera folla ha voluto fare lo stesso. Ma il Papa ha fatto sedere tutti, volendo con quel gesto dimostrare che era lui solo a proclamare, in quanto vicario di Cristo, in quanto successore di Pietro, il suo Credo; e lo ha proclamato con le parole più solenni, nel nome della Santissima Trinità, al cospetto degli Angeli, al cospetto di tutta la Chiesa. Ha quindi compiuto un atto che impegna la fede della Chiesa. Consolazione e fiducia per noi: lo Spirito Santo non abbandona la Sua Chiesa! Di conseguenza, dato che gli altri concili sono stati concili dogmatici, e considerato che questa professione di fede è una professione di fede dogmatica, si può dire in verità che l'arca della fede, che già poggiava sul Concilio Vaticano I, trova adesso un nuovo punto di appoggio nella professione di fede di Paolo VI. Il Papa ha recentemente confermato il suo Credo intervenendo a proposito del catechismo olandese. I testi del Concilio, specialmente la costituzione Gaudium et spes e la dichiarazione sulla libertà religiosa, sono stati firmati dal Papa e dai vescovi, per cui non possiamo dubitare del loro contenuto. Equivarrebbe a disprezzare quello che ci è stato ripetuto costantemente sul fine e quindi sulla natura dei Concilio Vaticano II. E tuttavia, come interpretare, per esempio, la dichiarazione sulla libertà religiosa, che racchiude una certa contraddizione interna? All'inizio vi si afferma l'adesione totale alla Tradizione. Ma poi nel testo nulla vi corrisponde! Che cosa ci resta infine da fare? Lasciamo alla provvidenza e alla Chiesa la cura di pronunciarsi a suo tempo sul valore dei testi del Concilio Vaticano II. Ma è sulla Fede cattolica e romana riaffermata dal successore di Pietro che la cristianità dev'essere ricostruita. Occorre ricostruirla con i princìpi usati nel costruirla. Come disse molto giustamente il santo Papa Pio X, una civiltà cristiana è già esistita, per cui non occorre più inventarla. È esistita, basta farla rivivere. Non dobbiamo esitare a ricostruire la società su Nostro Signore Gesù Cristo, unico fondamento della nostra morale, della nostra vita personale, familiare e pubblica. È su questi stessi princìpi che oggi dobbiamo rifare una società cristiana. Non vi è motivo per cui non possano essere ricostruiti la società cristiana, la famiglia cristiana, la scuola cristiana, la corporazione cristiana, la professione e il mestiere cristiani, lo Stato cristiano. Rinunciarvi, significherebbe dubitare della nostra fede. Forse ne beneficieranno soltanto coloro che ci seguiranno. Poco importa! Dobbiamo adoperarci a quel fine. Penso che questa Facoltà Autonoma di Economia e Diritto da poco fondata a Parigi ne sarà un magnifico esempio. Ma, come abbiamo detto, occorre costruire con uno spirito di fede sostenuto dalla preghiera. Non dobbiamo accontentarci di mezze misure, né lasciarci indurre a compromessi. Se non edificheremo sulla roccia della cattolicità, sulla pietra angolare che è Nostro Signore Gesù Cristo, ricominceremo a tergiversare ritrovandoci di nuovo, infine, con il liberalismo e il neomodernismo, alle porte del comunismo. Abbiamo, grazie a Dio, motivi di fiducia perché c'è una gioventù che vuole tali soluzioni e si oppone al disordine. Non tutta la gioventù è corrotta, come vogliono farci credere. Molti hanno un ideale, molti sono alla ricerca di qualcuno che risolva i loro problemi. L'esempio della Cité Catholique, come quello di coloro che attraverso la stampa e le associazioni si sforzano di farne penetrare le idee nella mente dei giovani, è significativo. È degno di nota il fatto che a un congresso come quello tenuto l'anno scorso a Losanna abbiano partecipato ottocento giovani tra i venti e i trent'anni. Non mancano neppure le vocazioni di giovani seminaristi che chiedono di essere formati, ma non nei seminari da cui sono state bandite formazione e disciplina, bensì in istituti in cui sanno di potersi preparare al sacerdozio conforme alle sane tradizioni della Chiesa. Possiamo dunque contare sui giovani; con essi, un magnifico lavoro ci attende. Terminerò dicendo per quale ragione dobbiamo restituire a Nostro Signore Gesù Cristo il posto che gli compete, perché senza di lui non potremo far nulla. Egli è il fondamento del diritto, è il perché dei nostri doveri, è il fine della nostra vita, è il protettore dei deboli, è la misericordia verso i peccatori, è il giusto giudice dei nostri tribunali. Poco tempo fa, durante un processo che si svolgeva alla televisione italiana, osservai dietro il giudice il crocifisso e pensai: Per chi è condannato, la vista del crocifisso alle spalle del giudice significa la possibilità di appello. Egli, infatti, può dire al giudice: Forse ho agito male, ma colui che ci guarda sa di certo che anche lei non è senza peccato; sia indulgente con me! Quando il crocifisso è assente, siamo fra uomini, siamo abbandonati alla mercé dei nostri personali giudizi. La Rivoluzione, nel bandire il Cristo, ci ha, come ho detto, consegnati agli uomini. Oggi, anche certi chierici vorrebbero bandire il Cristo dalle nostre chiese affinché ci ritroviamo soltanto fra uomini. Quando ci ritroveremo soltanto fra uomini, in chiese prive della presenza reale di Gesù Cristo, prive di Dio, le stesse chiese diventeranno superflue! Tutti i martiri sono morti nel nome di Cristo. Nella nostra patria sono legione coloro che, come i martiri della Vandea, sono caduti per ricostruire una Francia cristiana! Seguiamoli, affinché la nostra vita abbia una ragion d'essere!

Marcel Lefèbvre


domenica 15 gennaio 2023

Un vescovo parla

 


L'AUTORITÀ NELLA FAMIGLIA E NELLA SOCIETÀ AL SERVIZIO DELLA NOSTRA SALVEZZA


In una recente allocuzione pubblica di questo mese di ottobre il Santo Padre Paolo VI metteva in guardia i fedeli contro l'interpretazione erronea di certe affermazioni del Concilio riguardanti la dignità della persona umana, interpretazione che condurrebbe al rifiuto dell'autorità e al disprezzo dell'obbedienza. I fatti così numerosi dei quali siamo testimoni in questa epoca post-conciliare e che rivelano le conseguenze di questa falsa interpretazione, giustificano i timori del Santo Padre. Non siamo forse sconvolti da queste aperte rivolte di certi gruppi di azione cattolica contro i vescovi, di seminaristi contro i loro superiori, di sacerdoti, di religiosi, di suore che manifestano un atteggiamento negativo nei confronti dell'autorità rendendone l'esercizio impossibile? La dignità umana, l'esaltazione della coscienza personale divenuta regola fondamentale della moralità, i carismi personali, sono i pretesti per ridurre l'autorità a un principio di unità senza alcun potere. Come non accostare questo fermento, preludio di ribellione, al libero esame che fu la fonte delle grandi calamità degli ultimi secoli? Ci sembra più opportuno che mai ristabilire la vera nozione dell'autorità, e a questo scopo mostrarne i benefici voluti dalla provvidenza nelle due società naturali di diritto divino che hanno quaggiù su ciascun individuo un influsso primordiale: la famiglia e la società civile. È bene qui ricordare che l'autorità è la causa formale della società. Essa ha dunque il fine di reggere, di dirigere tutto quello che è orientato verso la causa finale della società, che è un bene comune a tutti i suoi membri. Poiché i membri di una società sono esseri intelligenti, l'autorità dirigerà necessariamente la loro attività verso il fine comune mediante direttive o leggi, veglierà alla loro applicazione e detterà sanzioni contro coloro che si oppongono al bene comune. Il soggetto dell'autorità può essere designato in molteplici modi, ma il potere dell'autorità, vale a dire la facoltà di dirigere altri esseri umani, è una partecipazione all'autorità di Dio. Poiché esistono molti tipi di società, i regolamenti riguardanti l'autorità possono essere molto diversi ma non impediranno mai all'autorità di essere di origine divina: «Non esiste autorità che non venga da Dio» (Rom. 13, 1). «Non avresti alcun potere su di me se non ti fosse stato dato dall'alto», disse Nostro Signore a Pilato (Gv. 19, 11). Nel suo Traité de philosophie (t. IV, n. 384) Jolivet ci descrive così la fonte prima dell'autorità: «Dio solo ha il diritto assoluto di comandare, perché tale diritto, che consiste nel vincolare le volontà, può appartenere solamente a colui che dona l'essere e la vita. Per questo dicevamo che Dio è il "Diritto vivente" perché è il principio primo di tutto ciò che è. Ne consegue che qualsiasi autorità, in qualunque società, può esercitarsi esclusivamente a titolo di una delega di Dio, qualsiasi capo investito di un potere legittimo è il rappresentante di Dio». Poiché l'autorità ha come fine il bene comune dei membri, e i membri stessi desiderano il conseguimento di questo bene per propria determinazione, non vi dovrebbe mai essere conflitto tra l'autorità e i membri che perseguono lo stesso fine. Non dovrebbe esservi in sé opposizione tra il capo e il suddito, tra autorità e libertà. È quando l'autorità non ricerca più il vero bene comune o il suddito antepone il proprio bene personale al vero bene comune che vi è urto e disaccordo. Salvo evidenza contraria, l'autorità legittima e prudente è giudice del bene comune e i membri devono sottomettersi a priori a tale giudizio. L'anteporre il giudizio personale a quello dell'autorità legittima implica la distruzione della società. Sottomettersi alle direttive dell'autorità legittima significa esercitare la virtù dell'obbedienza, di cui Nostro Signore ci ha dato un esempio commovente, sacrificando la sua stessa vita per obbedienza: «…obbediente fino alla morte, e alla morte di croce» (Fil. 2, 8). San Pio X scrive nella sua lettera La nostra missione apostolica del 25 agosto 1910: «Ogni società di creature indipendenti e ineguali per natura non ha forse bisogno di un'autorità che diriga la loro attività verso il bene comune e imponga la sua legge?… Si può forse dire con un'ombra di ragione che vi è incompatibilità tra l'autorità e la libertà, senza ingannarsi gravemente circa il concetto di libertà? Si può insegnare che l'obbedienza è contraria alla dignità umana e che l'ideale sarebbe di sostituirla con "l'autorità consentita"? L'apostolo Paolo non pensava forse a tutte le possibili fasi della società umana quando prescriveva ai fedeli di essere sottomessi a ogni autorità? Lo stato religioso fondato sull'obbedienza sarebbe contrario all'ideale della natura umana? I santi, che sono stati i più obbedienti degli uomini, erano forse schiavi e degenerati?…». L'autorità è la chiave di volta di ogni società.


VANTAGGI DELL'AUTORITÀ NELLA SOCIETÀ FAMILIARE 

Se esiste un periodo della vita umana nel corso del quale l'autorità svolge una parte notevole, tale è certamente il periodo che va dalla nascita alla maggiore età. È veramente una meravigliosa istituzione divina quella della famiglia, nel cui seno l'uomo riceve l'esistenza, un'esistenza talmente limitata che gli occorrerà un lungo periodo di educazione, dispensata in primo luogo dai genitori, poi da coloro che concorreranno a tale educazione, generalmente in base alla scelta dei genitori. Il bambino riceve tutto dal padre e dalla madre: nutrimento corporeo, intellettuale, religioso, educazione morale, sociale. I genitori si fanno aiutare da maestri che nello spirito dei giovani condivideranno l'autorità dei genitori stessi. Sia comunicata per il tramite dei maestri o dei genitori, la quasi totalità della conoscenza acquisita nel corso dell'adolescenza è più una scienza appresa, ricevuta, accettata, che non una conoscenza acquistata attraverso l'intelligenza e l'evidenza dei giudizi, dei ragionamenti. Il giovane studente crede nei suoi genitori, nei suoi maestri e nei suoi libri, e così le sue conoscenze si estendono, si moltiplicano. La sua scienza propriamente detta, quella che può render conto delle sue conoscenze, è assai limitata. Se si pensa all'insieme dell'infanzia e della giovinezza nell'umanità e nella storia, si constata che la trasmissione delle conoscenze proviene per una parte notevole più dall'autorità che trasmette che dall'evidenza della scienza acquisita. Certamente, se si tratta di studi superiori, la gioventù acquisisce conoscenze più personali e si sforza di conoscere le discipline studiate nella maniera in cui le conoscono i suoi stessi maestri. Ma la mole delle conoscenze richieste permette oggi allo studente di approfondire esaurientemente le prove e gli esperimenti? D'altronde molte scienze come la storia, la geografia, l'archeologia, le arti, possono effettivamente riposare solamente sulla fede nei maestri e nei libri. Questo è tanto più vero quando si tratta di conoscenze religiose, della pratica della religione, dell'esercizio della morale conforme alla religione, alle tradizioni, ai costumi. Generalmente gli uomini vivono secondo la religione trasmessa loro dai genitori. La conversione a un'altra religione trova un enorme ostacolo nella rottura con la religione ancestrale. Un essere umano resta sempre sensibile al richiamo della religione materna. E diciamo subito quanto questa educazione che porta il segno della famiglia, dell'ambiente, dei maestri che completano l'educazione familiare, sia importante nella vita umana. In nulla persevera l'individuo quanto nelle sue tradizioni familiari. Questo è vero su tutta la superficie del globo. Questo straordinario influsso della famiglia e dell'ambiente educativo è provvidenziale. È voluto da Dio. È normale che i figli conservino la religione dei genitori, com'è normale che qualora si converta il capofamiglia si converta tutta la famiglia. Ne troviamo frequenti esempi nel Vangelo e negli Atti degli Apostoli. Dio ha voluto che i suoi benefici si trasmettessero agli uomini anzitutto tramite la famiglia. A tale scopo ha accordato al padre un'autorità che gli conferisce un immenso potere sulla società familiare, sulla moglie, sui figli. Più i beni da trasmettere sono grandi, più grande è l'autorità. Il bambino nasce in una tale debolezza, è così imperfetto, si potrebbe dire così incompleto, che da ciò si può valutare la necessità assoluta della stabilità del focolare, della sua indissolubilità. Voler esaltare la personalità e la coscienza personale del bambino a detrimento dell'autorità familiare significa fare l'infelicità dei figli, spingerli alla rivolta, al disprezzo dei genitori, mentre la longevità è promessa a coloro che li onorano. Certo san Paolo chiede ai padri di non provocare la collera dei loro figli, ma, aggiunge, educateli nella disciplina e nel timor di Dio (Ef. 6, 4). Ci si allontana dalla via segnata da Dio sostenendo che solo la verità per sua propria forza e luce deve indicare agli uomini la vera religione, mentre in realtà Dio ha previsto la trasmissione della religione attraverso i genitori e attraverso testimoni degni della fiducia di quelli che li ascoltano. Se bisognasse aspettare di avere l'intelligenza della verità religiosa per credere e convertirsi, ci sarebbero oggi ben pochi cristiani. Si crede alle verità religiose perché i testimoni sono degni di credito per la loro santità, il loro disinteresse, la loro carità. Si crede alla vera religione perché essa appaga i desideri profondi di un animo umano retto, in particolare dandogli una madre divina, Maria, un padre visibile, il Papa, un nutrimento celeste, l'Eucarestia. Nostro Signore non ha domandato a quelli che ha convertito se capivano, ma se credevano. In seguito la fede viva dà l'intelligenza, come dice sant'Agostino. È evidente, nel caso della società familiare, del primo periodo di ogni vita umana, che i benefici dell'autorità sono immensi, indispensabili, e rappresentano la via più sicura per una educazione completa che prepari alla vita nella società civile e nella Chiesa. Già la Chiesa concorre in maniera notevole nell'aiutare la famiglia e nel fornirle i mezzi indispensabili alla vita cristiana e sociale dei fedeli. Ma viene il momento in cui le due società, quella ecclesiastica e quella civile, devono succedere alla famiglia perché, seppure educato, l'essere umano è evidentemente incapace di vivere e di perseguire la sua vocazione sulla terra senza l'aiuto di queste due società. 


VANTAGGI DELL'AUTORITÀ NELLA SOCIETÀ CIVILE 

Si può infatti affermare che l'uomo arrivato alla maggiore età non abbia più bisogno di aiuto per continuare a progredire nelle sue conoscenze, mantenersi nella virtù e svolgere la sua funzione nella società? Se la società familiare ha terminato il suo compito essenziale, è chiaro che la società civile e la Chiesa restano i mezzi normali per dare all'uomo, questa i mezzi spirituali, quella l'ambiente sociale favorevole a una vita virtuosa e orientata verso il fine ultimo al quale tutto quaggiù è ordinato dalla provvidenza divina. A questo proposito conviene ripetere con l'insegnamento tradizionale della Chiesa e con tutti i Papi del secolo scorso: allo Stato, alla società civile compete una parte notevole nell'aiutare e incoraggiare i cittadini nella fede e nella virtù. Non si tratta per nulla di costrizione nell'atto di fede, non si tratta cioè di forzare la coscienza della persona nei suoi atti interni e privati. Si tratta della funzione naturale della società civile, voluta da Dio affinché gli uomini siano aiutati a conseguire il loro fine supremo. «Non si può mettere in dubbio», dice il Papa Leone XIII nell'enciclica Libertas, «che la riunione degli uomini in società sia opera della volontà di Dio, e ciò sia che la si consideri nei suoi membri sia nella sua forma che è l'autorità, nella sua causa o nel numero e nell'importanza dei vantaggi che procura all'uomo…». Pio XI afferma a sua volta nell'enciclica Divini Redemptoris: «Dio destinò l'uomo a vivere in società come la natura lo richiede. Nel piano del Creatore la società è il mezzo naturale di cui l'uomo può e deve servirsi per raggiungere il suo fine». E nell'enciclica Ad salutem: «I prìncipi e i governanti, avendo ricevuto il potere da Dio affinché ciascuno, nei limiti della propria autorità, si sforzi di realizzare i disegni della divina provvidenza di cui diventa collaboratore… non solamente non devono far nulla che possa andare a detrimento delle leggi della giustizia e della carità cristiana, ma sono tenuti a facilitare ai loro sudditi la conoscenza e l'acquisizione dei beni imperituri». Pio XII nel discorso dell'11 giugno 1941 dice anch'egli: «Dalla conformità o difformità della società alle leggi divine dipende e deriva il bene o il male delle anime, vale a dire il fatto che gli uomini, chiamati tutti a essere vivificati dalla grazia del Cristo, respirino, nelle contingenze terrestri del corso della vita, l'aria sana e vivificante della verità e delle virtù morali o, al contrario, il microbo morboso e spesso mortale dell'errore e della depravazione». Jolivet nel Traité de philosophie (t. IV, n. 435) conchiude in maniera molto chiara il suo studio sull'origine del potere nella società civile: «Qualunque sia il punto di vista adottato circa la causa efficiente della realtà sociale, la dottrina dell'origine naturale della società implica il principio essenziale che la società politica, riunendo in modo permanente i raggruppamenti particolari di famiglie e di individui in vista del bene comune temporale, è un'istituzione voluta da Dio, autore della natura; in altri termini, che essa è di diritto divino naturale. Ne consegue immediatamente che il potere di governare è anch'esso di diritto divino naturale». L'autore completa questo studio esponendo il fine della società civile o dello Stato: «Farsi della felicità temporale un'idea del tutto materialista significa diminuire grandemente la funzione generale dello Stato. La felicità temporale dipende in grande parte dalle virtù intellettuali e morali dei cittadini, dalla moralità pubblica, cioè dal felice sbocciare di tutte le attività morali e spirituali dell'uomo e in primo luogo della vita religiosa della nazione». «Quindi fa parte del dovere dello Stato, senza che trascuri, beninteso, la sua funzione economica, sforzarsi di creare le condizioni più favorevoli alla prosperità morale e spirituale della nazione». «Questo compito ha un aspetto negativo e uno positivo…». Dobbiamo insistere su questo legame intimo della religione con la funzione temporale dello Stato. Qui, infatti, si trova la chiave di numerosi problemi che preoccupano oggi i governanti e la stessa Chiesa: problemi di giustizia sociale, problemi della fame, problemi della pace, problemi della regolazione delle nascite, eccetera. Trattare questi problemi al di fuori di una concezione cattolica della convivenza civile è illusorio: ci si dedicherà a rimediare temporaneamente a certi disordini, si risolveranno taluni problemi locali, ma non si attaccherà mai la radice delle piaghe dell'umanità. Bisogna dire e ripetere quanto la Chiesa ha sempre proclamato: la soluzione dei problemi sociali viene dal regno sociale di Nostro Signore Gesù Cristo, secondo la concezione e l'insegnamento della Chiesa cattolica. Nell'enumerare le piaghe attuali delle società ci si accorgerà immediatamente che le loro origini risalgono al disordine e all'errore dei governanti e spesso di numerosi membri della società. Voler instaurare una giustizia sociale tra i dipendenti e i datori di lavoro al di fuori dei princìpi della giustizia cristiana significa andare o verso il capitalismo totalitario, l'egemonia finanziaria e tecnocratica mondiale, o verso il totalitarismo comunista. Fare del benessere materiale il solo scopo della società civile e dell'attività sociale significa andare rapidamente verso la decadenza, conseguenza dell'immoralità, dell'edonismo. In merito al matrimonio e a tutto quello che lo riguarda, solo la dottrina cattolica preserva realmente questa istituzione che è il fondamento stesso della società civile e che di conseguenza l'interessa in grado estremo: divorzio, limitazione delle nascite, contraccezione, omosessualità, aborto, poligamia, sono piaghe mortali per lo Stato. Solo la Chiesa vi porta i veri rimedi. Le relazioni sociali tra funzionari e amministrati, tra lo Stato e i cittadini, l'autentico amor di patria, le relazioni internazionali, sono intimamente e profondamente legati alla religione e solo la religione cattolica porta in questi campi i princìpi di giustizia, di equità, di coscienza professionale, di dignità umana, conformi alla vita sociale quale Dio l'ha voluta e sempre la vuole. L'educazione e i mezzi di comunicazione sociale, che oggi completano e continuano l'educazione, hanno legami molto intimi con l'onestà dei costumi, con la virtù e il vizio, e di conseguenza con la religione, quella cattolica in particolare. Non voler constatare che tutte le religioni eccetto la vera, la religione cattolica, trascinano con sé un corteo di tare sociali che sono la vergogna dell'umanità significa dar prova di grande ignoranza, vera o simulata; basti pensare al divorzio, alla poligamia, alla contraccezione, alla libera unione, per quanto riguarda la famiglia; basti pensare, anche nel campo della stessa esistenza della società, alle due tendenze che la rovinano: una tendenza rivoluzionaria, distruttiva dell'autorità, demagogica, fermento di continui disordini, frutto del libero esame, o una tendenza totalitaria e tirannica dovuta all'identificazione della religione con lo Stato o di un'ideologia con lo Stato. La storia degli ultimi secoli è un'illustrazione impressionante di questa realtà. È dunque inconcepibile che i governi cattolici si disinteressino della religione o che ammettano per principio la libertà religiosa nella sfera pubblica. Significherebbe disconoscere e il fine della società e l'estrema importanza della religione in campo sociale e la differenza fondamentale tra la vera religione e le altre nel campo della moralità, elemento fondamentale per il conseguimento del fine temporale dello Stato. Tale è la dottrina insegnata da sempre dalla Chiesa. Essa assegna alla società una parte fondamentale nell'esercizio della virtù dei cittadini, dunque, indirettamente, nel conseguimento della loro salvezza eterna. Ora, la fede è la virtù basilare che condiziona le altre. Rientra dunque nel dovere dei governanti cattolici proteggere e mantenere la fede, favorendola soprattutto nel campo dell'educazione. Non si insisterà mai troppo sulla funzione provvidenziale dell'autorità dello Stato nell'aiutare e sostenere i cittadini nel conseguimento della loro salvezza eterna. Ogni creatura è stata e rimane ordinata a tale fine, quaggiù. Le società: famiglia, Stato, Chiesa, ciascuna al suo posto, sono state create da Dio a questo scopo. Non si può negare che, difatti, l'esperienza della storia delle nazioni cattoliche, la storia della Chiesa, la storia della conversione alla fede cattolica, manifestino la funzione provvidenziale dello Stato a un punto tale da dover legittimamente affermare che la sua parte nel conseguimento della salvezza eterna dell'umanità è capitale se non preponderante. L'uomo è debole, il cristiano vacillante. Se tutto l'apparato e il condizionamento sociale dello Stato sono laici, atei, areligiosi, ancor più se perseguitano la Chiesa, chi oserà dire che sarà agevole per i non cattolici convertirsi e per i cattolici rimanere fedeli? I mezzi moderni di comunicazione sociale, le relazioni sociali che si moltiplicano, assegnano allo Stato un influsso sempre maggiore sul comportamento dei cittadini e sulla loro vita interiore ed esteriore, di conseguenza sul loro atteggiamento morale e in ultima analisi sul loro destino eterno. Sarebbe criminale incoraggiare gli stati cattolici a laicizzarsi, a disinteressarsi della religione, a permettere che l'errore e l'immoralità si diffondano indiscriminatamente e, sotto il falso pretesto della dignità umana introdurre un fermento dissolvente della società concedendo una libertà religiosa esagerata, esaltando la coscienza individuale a spese del bene comune come nella legittimità dell'obiezione di coscienza. Il papa Pio XII diceva nell'enciclica Summi Pontificatus: «La sovranità civile fu voluta dal Creatore… al fine di rendere più agevole alla persona umana, nell'ordine temporale, il conseguimento della perfezione fisica, intellettuale e morale, nonché di aiutarla a raggiungere il suo fine soprannaturale». Così, si tratti dell'autorità nella famiglia, dell'autorità dello Stato o di quella della Chiesa, si può soltanto ammirare il disegno della provvidenza, della paternità divina che ci dona l'esistenza, la vita soprannaturale, l'esercizio della virtù e in definitiva la perfezione o la santità eterna per mezzo di queste autorità. L'autorità è in ultima analisi una partecipazione all'Amore divino che si espande e si diffonde. L'autorità ha come unica ragion d'essere quella di espandere questa carità divina che è vita e salvezza. Ma, al pari dell'amore di Dio, essa è, per sua stessa natura, esigente. In effetti, l'Amore divino può volere soltanto il bene, e il bene supremo che è Dio. Dio, dandoci la vita che è una partecipazione al suo amore, ce la orienta inflessibilmente, la punta verso il bene che egli ci indica sia attraverso la nostra natura sia, e soprattutto, attraverso i suoi portavoce e i suoi intermediari nelle leggi positive. Egli ci obbliga, ci lega, mediante il suo amore, al bene e alla virtù. Ci dà l'orientamento del suo amore attraverso le sue leggi, ce ne ordina il compimento e ci minaccia se rifiutiamo il suo amore che è il nostro bene. La stessa cosa vale per le autorità. Ogni legislazione legittima è veicolo dell'amore divino, ogni applicazione della legislazione altro non è che l'espressione dell'amore di Dio nei fatti, negli atti, e dunque un'acquisizione di virtù. Queste leggi si rivolgono alla nostra intelligenza e alla nostra volontà che, purtroppo, possono rifiutare di essere veicoli dell'amore di Dio. Le sanzioni ricadranno su coloro che oppongono in tal modo ostacoli all'amore, alla vita, al bene, e in definitiva a Dio. Non si può infatti concepire l'autorità senza i poteri di legislazione, di governo e di giustizia. Queste tre manifestazioni si riassumono e trovano la loro sintesi nell'Amore divino che in se stesso porta la propria manifestazione, il proprio esercizio e la propria sanzione. Facciamo nostri, a conclusione di questo colpo d'occhio molto incompleto sulla grandezza dell'autorità nei disegni di Dio, i sentimenti di san Paolo, dicendo con lui (Ef. 3, 14 s.): «Piego le ginocchia al Padre di Nostro Signore Gesù Cristo, dal quale procede ogni paternità in cielo e sulla terra». 4 ottobre 1968.

Marcel Lefèbvre


venerdì 9 settembre 2022

Un vescovo parla

 


PER UN VERO RINNOVAMENTO DELLA CHIESA *

*Un comunicato dell'A.F.P. del 30 settembre 1968 dalla Città del Vaticano aveva confermato la decisione dell'Arcivescovo Marcel Lefèbvre di rassegnare le dimissioni da Superiore generale dei Padri dello Spirito Santo «allo scopo di lasciare piena libertà al capitolo di procedere all'"aggiornamento" della congregazione nello spirito del Concilio» (N.d.E.). 


La Chiesa compirà in tempo il suo vero rinnovamento? Lo può ancora? Se la Chiesa fosse una società puramente umana dovremmo rispondere no, perché la corruzione delle idee, delle istituzioni, della disciplina è tale che nessuna speranza di ravvedimento sarebbe possibile. Tuttavia, da quando Dio veglia sull'umanità perché la fede non sparisca, non si contano più gli esempi di una situazione disperata dal punto di vista umano che diviene all'improvviso occasione di una straordinaria risurrezione: l'intervento più inatteso e più sublime che Dio abbia trovato nella sua saggezza e nella sua misericordia infinite è la promessa del Messia per il tramite di Maria dopo che l'uomo, con il suo peccato, aveva meritato la dannazione. Da quella promessa fino ai giorni nostri la storia della misericordia di Dio verso l'umanità è la storia dell'antico e del nuovo Testamento e pertanto tutta la storia della Chiesa. Lo Spirito soffia dove vuole e si sceglie, per venire in soccorso alla Chiesa in pericolo, pontefici e umili fedeli, principi e pastorelle. I nomi sono sulle labbra di tutti coloro che conoscono almeno un poco la vera storia della Chiesa. Ma se lo Spirito Santo soffia dove vuole, il suo soffio ha sempre la medesima origine, gli stessi mezzi fondamentali e lo stesso fine. Lo Spirito Santo non può fare se non quel che Nostro Signore ha detto di lui: «Non parlerà per suo conto, ma dirà quello che ascolta… Mi glorificherà perché prenderà del mio per comunicarvelo» (Gv. 16, 13 s.). In altre parole, lo Spirito Santo non potrà che far eco a Nostro Signore. Per questo, seppure con modalità esteriori diverse, coloro che egli ha scelto hanno ripetuto e fatto le medesime cose, si sono nutriti alle stesse fonti per rendere vitalità alla Chiesa. Sant'Ilario, san Benedetto, sant'Agostino, sant'Elisabetta, san Luigi, santa Giovanna d'Arco, san Francesco d'Assisi, sant'Ignazio, il santo curato d'Ars, santa Teresa del Bambino Gesù, hanno tutti insegnato la stessa spiritualità nei suoi princìpi fondamentali di penitenza, di preghiera, di devozione totale a Nostro Signore e alla Santa Vergine; di obbedienza senza limite alla volontà di Dio, di rispetto verso coloro che la interpretano, dai genitori fino alle autorità civili legittime e alle autorità religiose. Tutti tennero in grande stima i sacramenti e particolarmente l'Eucarestia e il santo sacrificio della Messa. Tutti manifestarono il distacco dai beni di questo mondo e lo zelo per la salvezza dei peccatori. Non avevano nulla di più caro che la gloria di Dio, di Nostro Signore Gesù Cristo, l'onore della sua unica Chiesa. La Sacra Scrittura era loro familiare e veneravano la Tradizione della Chiesa espressa nelle professioni di fede, nei concili e nei catechismi dove si trova l'autentica dottrina trasmessa dagli Apostoli. A queste fonti essi attinsero una grazia, una comunicazione particolare dello Spirito Santo, che fece di loro testimoni straordinari della fede e della santità del Vangelo.


RINNOVAMENTI SI IMPONGONO, MA… 

Tali constatazioni storiche dell'azione dello Spirito Santo ci consentono di credere che la Chiesa possa sempre rinnovarsi attraverso la santificazione dei suoi membri. Dio non ha mai abbandonato la sua Chiesa. Non l'abbandonerà oggi, ma le prove, le apparenze di trionfo dello spirito malvagio, del Principe di questo mondo, possono essere oggetto di scandalo, cioè di caduta e di abbandono della fede per molti. Hanno torto coloro che si lasciano sviare dai falsi profeti, i quali predicano che il loro tempo non rassomiglia in nulla ai tempi andati e che il Vangelo di ieri non può più essere il Vangelo di oggi. Il Cristo è di tutti i tempi: «Jesus Christus heri, hodie et in saecula», Gesù Cristo ieri, oggi e per tutti i secoli. È san Paolo a insegnarcelo. Purtroppo, bisogna confessarlo, il Concilio Vaticano II doveva, avrebbe dovuto essere il concilio del rinnovamento attraverso un ritorno alle fonti, com'è di regola nella Chiesa. In effetti, a mano a mano che la Chiesa militante cammina, può accadere che il messaggio si attenui, che i nemici della Chiesa riescano a soffocare la buona semente, che la negligenza dei pastori attenui la fede, che i costumi si corrompano, che la cristianità presti un orecchio benevolo alle critiche ironiche di questo mondo perverso. Allora i rinnovamenti si impongono, ma sull'esempio di Nostro Signore che è l'eco del Padre, dello Spirito Santo che è l'eco del Figlio, gli Apostoli non hanno mai cessato di ripetere ai loro discepoli: ricordate ciò che vi è stato detto, rimanete nella dottrina che vi è stata insegnata, conservate il deposito della fede, non vi lasciate raggirare dai falsi profeti, mentitori, figli di perdizione, destinati al fuoco eterno con tutti coloro che li seguono. Rileggiamo le epistole di san Paolo a Timoteo e a Tito, le epistole di san Pietro, di san Giacomo, di san Giovanni. Se si cerca in san Giovanni Crisostomo, in sant'Ilario, in sant'Agostino il loro criterio di giudizio sugli errori del loro tempo, si osserva che essi ritornano sempre a ciò che hanno insegnato coloro che avevano udito parlare gli Apostoli o i loro testimoni diretti, e specialmente a ciò che avevano insegnato coloro che si erano succeduti sulle cattedre degli Apostoli, in particolare sulla cattedra di Pietro. Più tardi si farà appello più specialmente ai concili e ai Padri della Chiesa, testimoni della dottrina degli antichi. Tutto l'insegnamento dei seminari si sforzerà di essere l'eco fedele di questa tradizione della Rivelazione, che è un fatto del passato ma pur sempre fonte di vita per tutti i tempi fino alla consumazione dei secoli.


L'ORGOGLIO DEL NOSTRO TEMPO 

Come spiegarsi che da qualche anno è parso che questa regola d'oro della Chiesa sia stata abbandonata, fino al giorno benedetto del 30 giugno scorso che ci ha reso la fede di Pietro, eco di questa tradizione immutabile e feconda per tutti i tempi? Non si può spiegarlo che attraverso l'orgoglio dei nostri tempi che si credono tempi nuovi, «tempi in cui l'uomo ha finalmente compreso la propria dignità, in cui ha preso una maggior coscienza di se stesso… Possiamo a questo punto parlare di una vera metamorfosi sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche nella vita religiosa… Ne segue un'accelerazione della storia tale da poter essere difficilmente seguita dai singoli uomini… Il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell'ordine delle cose a una concezione più dinamica ed evolutiva; da ciò deriva un'immensa nuova problematica che stimola ad analisi e sintesi nuove…». Con premesse come queste ci si può attendere tutto, meno che il ritorno allo spirito evangelico, poiché esso era indubbiamente di ordine statico. Esso è dunque radicalmente condannato. D'altronde, molti altri testi lo confermeranno: «Si diffonde gradatamente il tipo di società industriale che trasforma radicalmente le concezioni della vita socievole. Si afferma ciò che ci si augura avvenga: una nuova concezione della società, che non avrà nulla a vedere con la concezione cristiana secondo la dottrina sociale della Chiesa. A tempi nuovi, nuovo Vangelo, nuova religione. Parlando di noi cattolici, o piuttosto dei credenti, si scrive: «Vivano dunque in strettissima unione con gli uomini del loro tempo e si sforzino di comprenderne perfettamente il modo di pensare e di sentire, di cui la cultura è espressione (singolari consigli che fanno eco al Vangelo che ci chiede di evitare le dottrine perverse)… Sappiano sposare la conoscenza delle nuove scienze, delle nuove dottrine e delle più recenti scoperte con la morale e il pensiero cristiano, affinché la pratica della religione e rettitudine morale procedano in essi di pari passo con la conoscenza scientifica e con gli incessanti progressi della tecnica, in modo che possano giudicare e interpretare tutte le cose con sensibilità integralmente cristiana…». Per parte mia, penso che questi credenti perderanno semplicemente la fede cristiana. Ecco la conclusione del fatto affermato, confermato e riaffermato senza posa: i nostri sono tempi nuovi con i quali bisogna armonizzare il Vangelo e la Tradizione. La regola d'oro della Chiesa è completamente invertita dall'orgoglio degli uomini del nostro tempo. Non si sta più in ascolto della parola sempre viva e feconda di Nostro Signore, ma occorre «sposare» le teorie nuove con i costumi e l'insegnamento della dottrina cristiana.7 Questo «aggiornamento» si condanna da solo. Sarebbe inconcepibile che queste parole uscissero dalla bocca del Divino Maestro. La radice del disordine attuale sta in questo spirito moderno o piuttosto modernista che rifiuta di riconoscere il Credo, i comandamenti di Dio e della Chiesa, i sacramenti, la morale cristiana, come solo fondamento e sorgente di rinnovamento per tutti i tempi fino alla fine del mondo. In definitiva, è il rigetto di Nostro Signore Gesù Cristo perché incompatibile con i nostri tempi che sono, a quanto pare, tempi che Nostro Signore non poteva prevedere e di conseguenza tempi ai quali il suo messaggio non poteva adeguarsi… 


RITORNARE ALLA REGOLA D'ORO DI TUTTA LA TRADIZIONE 

Bisogna dunque ritornare alla regola d'oro di tutta la Tradizione, come ha fatto Papa Paolo VI il 30 giugno e il 25 luglio, sia per la fede sia per i costumi, pei quali non può esservi in vista nessun nuovo sposalizio. Bisognerà ritornare alla Tradizione: nell'autorità del Pontefice romano devono nuovamente apparire i suoi poteri significati dalla tiara; un tribunale protettore della fede e dei costumi sieda di nuovo in permanenza, i vescovi ritrovino i loro poteri e la loro iniziativa personale e i problemi comuni siano risolti in veri concili regionali sotto l'autorità del Pastore supremo. Bisognerà bene, un giorno, sciogliere il vero lavoro apostolico di una diocesi da tutte le pastoie con le quali lo si è oggi paralizzato e che, con le migliori intenzioni, fanno sparire l'essenziale del messaggio: la gloria di Dio e di Nostro Signore, la santificazione delle anime attraverso Gesù Cristo, l'insegnamento e l'educazione veramente cristiani dispensati dal sacerdote, dai religiosi, il riordinamento della società cristiana dove il vescovo e il sacerdote abbiano il posto ufficiale dovuto al sacerdozio in tutte le società. Ridare ai seminari la loro vera funzione, cioè la formazione di santi sacerdoti pieni di fede, di scienza e di zelo per la gloria di Nostro Signore e la salvezza delle anime. Ricreare congregazioni religiose, vivai di anime sante e generose che manifestino al mondo la presenza dello Spirito Santo nella Chiesa e nelle anime attraverso l'esercizio di una carità eroica in tutti i campi e in tutti i paesi. Ripristinare le scuole e le università cattoliche senza preoccuparsi dei programmi di Stato che laicizzano quelle scuole. Rendere alle famiglie cristiane il senso della vera fede e della società cristiana, mettendole in guardia contro le seduzioni del mondo. Organizzare associazioni o terz'ordini di famiglie decise a essere cristiane in tutto il loro comportamento nei confronti della corrotta società moderna. Sostenere le organizzazioni padronali e operaie decise a collaborare fraternamente nel rispetto dei doveri e dei diritti di tutti, che rinuncino al flagello sociale dello sciopero che altro non è se non una guerra civile fredda e instaurino organismi di dialogo e di intesa così come tribunali paritetici che dirimano in ultima istanza le liti. Infine, promuovere una legislazione civile conforme alle leggi della Chiesa e favorire la designazione di rappresentanti cattolici decisi a orientare la società verso un riconoscimento ufficiale della regalità sociale di Nostro Signore. Tale sembra dover essere il vero rinnovamento della Chiesa, desiderato dai veri fedeli, poiché quello che ci si attendeva dal Concilio fu viziato dall'introduzione dello spirito moderno e del suo orgoglio anticristiano nel Concilio stesso e soprattutto in seguito. 


UNA GIOVENTÙ VISIBILMENTE ISPIRATA DALLO SPIRITO SANTO 

Ora, per la consolazione di coloro che soffrono, vorremmo essi sapessero che se lo Spirito Santo li ha consolati negli ultimi atti del Santo Padre in modo ineffabile, lo stesso Spirito si manifesta nella nascita di una gioventù visibilmente ispirata da lui: gioventù generosa, vigorosa, assetata di verità, d'amore per Nostro Signore, per la Vergine, per la Chiesa. Gioventù dai costumi puri e sani, decisa a non lasciarsi sedurre dai miraggi di questo mondo, che reagisce alla sovversione ed è pronta a realizzare grandi e belle iniziative. E questa gioventù sorge come per generazione spontanea in tutti i paesi, sotto tutti i paralleli. È la stessa ovunque, con lo stesso orientamento, gli stessi desideri, gli stessi entusiasmi, segno evidente che è lo stesso Spirito Santo che la anima. Coloro che sono stati a Losanna e hanno avvicinato gli ottocento giovani venuti al congresso, ne hanno tratto un'immensa speranza. Ormai, giovani universitari, giovani impiegati riflettono, si istruiscono e illuminano la loro fede, pregano con fervore, hanno grande devozione per la Vergine, vogliono ritrovare i princìpi e la grazia che edificarono la cristianità d'altri tempi, al fine di costruire una società cristiana del loro tempo sugli stessi perenni fondamenti. Scoprono allora il vero posto di Nostro Signore e della Chiesa nella società familiare, economica, politica. E da tali gruppi, ovviamente, escono numerose e sante vocazioni. Si degni il Signore di far sorgere da questa gioventù nuovi Francesco d'Assisi, Domenico, Ignazio, Vincenzo de' Paoli, Jean Marie Vianney, don Bosco! A noi, con le nostre preghiere, con la nostra generosità, con i nostri incoraggiamenti, tocca aiutare in tutti i modi questa gioventù a costruire la città cristiana, cioè a edificare il corpo del Cristo, al fine di portare agli uomini, nella pace e nella giustizia, la salvezza eterna delle loro anime. 

Roma, 12 settembre 1968

Marcel Lefèbvre


domenica 22 maggio 2022

Un Vescovo parla - I. UN PO' DI LUCE SULLA CRISI ATTUALE DELLA CHIESA

 


I. UN PO' DI LUCE SULLA CRISI ATTUALE DELLA CHIESA

Mi si chiede di definire e descrivere in maniera più esplicita il male che si va introducendo nella Chiesa ai tempi nostri. Capisco benissimo questo desiderio di numerosi cattolici o non cattolici che rimangono stupefatti, sdegnati o costernati nel veder diffondersi nell'interno della Chiesa - e per opera dei suoi ministri - dottrine che mettono in dubbio le verità fin qui considerate fondamenti immutabili della fede cattolica. Mentre l'intelligenza di questi pastori indegni si ribella all'autorità del magistero infallibile della Chiesa, la loro volontà si ribella contro coloro che nella Chiesa detengono l'autorità. 

Se è vero che ogni autorità quale che sia è una partecipazione all'autorità di Dio, ciò è ancora più evidente quando si tratta dell'autorità che è stata conferita a Pietro e agli Apostoli. Il Signore lo ha detto: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv. 16, 15). E così è sempre stato nella Chiesa. Sebbene la designazione del successore di Pietro si faccia per via di elezione, non per questo la sua autorità dipende dai suoi elettori. 

Ogni autorità ha, in certa misura, i tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. I vescovi posseggono questi tre poteri in funzione della loro carica o del loro servizio, vale a dire per predicare, santificare e governare. 

La struttura della Chiesa è un'istituzione mirabile, veramente divina, tanto risponde al tempo stesso all'accentramento, all'unità necessaria, e al decentramento con una grande possibilità e libertà d'azione. Inoltre, con tutti gli organismi di consultazione, di reciproco aiuto fraterno fra i vescovi - e fra i vescovi e il Papa - previsti dal diritto canonico, la divina istituzione della Chiesa ha traversato i secoli rimanendo la stessa, adattandosi a tutti i luoghi e a tutte le circostanze con un realismo e un'unità notevoli. È questa unità nella molteplicità che permette al suo magistero, alla sua parola, di estendersi a tutti i tempi e a tutti i luoghi con una continuità dottrinale stupefacente. Rami interi si sono separati dal tronco ma senza ledere né la struttura né la sostanza dottrinale. È parso a volte che gravi errori ed eresie mettessero la Chiesa in pericolo, ma, con il soccorso dello Spirito Santo, l'istituzione e la parola non sono mutate. 

È precisamente quanto dispiace sommamente non soltanto ai nemici tradizionali della Chiesa ispirati dal Principe di questo mondo, ma, diciamolo, alla natura umana decaduta, che ritrova sempre in sé un sobbalzo miserabile di ribellione contro l'autorità, cioè contro Dio. Il Non serviam è ancora in tutte le nostre anime, anche dopo il battesimo. Quando gli assalti degli avversari di Nostro Signore e dell'obbedienza a lui trovano eco nelle file dei fedeli e dei pastori della Chiesa, allora si prepara nella Chiesa una nuova lacerazione, una nuova eresia, un nuovo scisma.

Garaudy l'ha pur detto, qualche anno fa, a Lovanio, parlando agli studenti universitari: «Potremo veramente collaborare solo quando la Chiesa avrà modificato il suo magistero e il suo genere di autorità». Non poteva esprimersi meglio. E quando si sa che agli occhi di coloro che cercano di dominare il mondo, i comunisti e i tecnocrati della finanza internazionale, il solo vero ostacolo all'asservimento dell'umanità è la Chiesa cattolica e romana, non sorprenderanno gli sforzi congiunti dei comunisti e dei frammassoni per modificare e il magistero e la struttura gerarchica della Chiesa. 

Conquistare una vittoria nel Medio o nell'Estremo Oriente è cosa apprezzabile, ma paralizzare il magistero della Chiesa e modificare la sua costituzione rappresenterebbe una vittoria senza precedenti, perché non basta conquistare i popoli per sradicare la loro religione; a volte, anzi, essa mette più profonde radici. Ma rovinare la fede corrompendo il magistero della Chiesa, soffocare l'autorità personale rendendola dipendente da organismi pluralistici nei quali è molto più agevole infiltrarsi influenzandoli, questo farà apparire possibile la fine della religione cattolica. Attraverso questo magistero assembleare si potranno introdurre dubbi su tutti i problemi della fede e il magistero decentrato paralizzerà il magistero romano. 

È facile vedere che questi attacchi sapienti, sostenuti da una stampa mondiale anche cattolica, permetteranno di diffondere in tutto il mondo campagne di opinione che turberanno gli spiriti; tutte le verità del Credo saranno scosse, tutti i comandamenti di Dio, i sacramenti… cioè tutto il catechismo, sconvolti. Ne abbiamo esempi clamorosi. Il magistero decentrato perde il controllo immediato della fede; le multiple commissioni teologiche delle assemblee episcopali tardano a pronunciarsi, perché i loro membri sono divisi nelle opinioni e nei metodi.

 Dieci anni fa - e a più forte ragione vent'anni fa - il magistero personale del Papa e dei vescovi avrebbe reagito immediatamente, anche se, tra i vescovi e i teologi, alcuni non fossero stati consenzienti. Oggi il magistero si trova sottomesso a delle maggioranze. È la paralisi che impedisce l'intervento immediato o lo rende debole e inefficace per voler contentare tutti i membri delle commissioni o delle assemblee. 

Questo spirito di democratizzazione del magistero della Chiesa è un pericolo mortale, se non per la Chiesa, che Dio proteggerà sempre, per milioni di anime smarrite e intossicate, alle quali i medici non vengono in aiuto. 

Basta leggere i resoconti delle assemblee a tutti i livelli per riconoscere che quella che si può chiamare la «collegialità del magistero» equivale alla paralisi del magistero stesso. Nostro Signore ha chiesto di pascere il suo gregge a singole persone, non a una collettività; gli Apostoli hanno obbedito agli ordini del Maestro e così è stato fino al secolo ventesimo. Si è dovuti arrivare al nostro tempo per sentir parlare della Chiesa in stato di concilio permanente, della Chiesa in continua collegialità. I risultati non si sono fatti attendere a lungo. Tutto è sottosopra: la fede, i costumi, la disciplina. Si potrebbero moltiplicare gli esempi all'infinito. 

Paralisi del magistero e insipidimento del magistero: quest'ultimo aspetto si manifesta nell'assenza di definizione delle nozioni e dei termini impiegati, nell'assenza delle precisazioni, delle distinzioni necessarie, in tal misura che non si sa più quel che si dice: si pensi alle parole dignità umana, libertà, giustizia sociale, pace, coscienza… Si può ormai, nella stessa Chiesa, dare a queste parole un senso marxista o un senso cristiano con la stessa convinzione. 

Alla democratizzazione del magistero segue naturalmente la democratizzazione del governo. Le idee moderne su questo punto sono tali che è stato ancora più agevole giungere a questo risultato. Esse si sono tradotte nella Chiesa con il famoso slogan della «collegialità». Bisognava rendere collegiale il governo: quello del Papa o quello dei vescovi con un collegio presbiteriale, quello del parroco con un collegio pastorale di laici, il tutto fiancheggiato da commissioni, consigli, sessioni, eccetera, prima che le autorità potessero risolversi a dare ordini e direttive. 

La lotta per la collegialità, appoggiata da tutta la stampa comunista, protestante, progressista, resterà famosa negli annali del Concilio. Si può dire che è fallita? Sarebbe esagerato affermarlo. È riuscita pienamente, secondo i desideri dei suoi autori? Non si oserebbe dire nemmeno questo quando si sia constatato lo scontento che essi hanno manifestato in occasione della famosa «Nota esplicativa» aggiunta alla costituzione dogmatica sulla Chiesa, e ultimamente all'epoca del sinodo episcopale che essi volevano deliberativo e non consultivo. 

Ma se il Papa personalmente ha conservato una certa libertà di governo, come non constatare che le conferenze episcopali la limitano singolarmente? Si possono citare in questi ultimi anni svariati casi ben precisi nei quali il Santo Padre è ritornato su una decisione perché sollecitato dalle pressioni di una conferenza episcopale. Ora, il suo governo si estende non solamente ai pastori ma ai fedeli. Solo il Papa ha un potere di giurisdizione che si estende a tutto il mondo. 

Conseguenza molto più evidente del governo collegiale è la paralisi del governo di ciascun vescovo nella sua diocesi. Quante riflessioni istruttive fatte dai vescovi stessi a questo proposito! Teoricamente il vescovo può, in numerosi casi, agire contro un desiderio dell'assemblea, talvolta persino contro una maggioranza se il voto non è stato sottoposto alla Santa Sede; ma in pratica ciò si rivela impossibile. Subito dopo la fine dell'assemblea, i vescovi pubblicano le decisioni, che sono così conosciute da tutti i sacerdoti e i fedeli. Quale vescovo potrà opporsi di fatto a tali decisioni senza mostrare il suo disaccordo con l'assemblea e trovarsi immediatamente di fronte alcuni spiriti rivoluzionari che si appelleranno all'assemblea contro di lui? Il vescovo è prigioniero di questa collegialità che avrebbe dovuto limitarsi a essere un organismo di consultazione, di vicendevole consiglio, non un organismo deliberativo.5 

Certo, san Pio X aveva già approvato alcune conferenze episcopali ma aveva dato di esse una definizione precisa che giustificava perfettamente tali assemblee: «Siamo persuasi che queste assemblee di vescovi hanno grandissima importanza al fine di mantenere e sviluppare il regno di Dio in tutte le regioni e province. Quando i vescovi, custodi delle cose sante, mettono così le loro ispirazioni in comune, ne risulta non solo una visione migliore dei bisogni delle loro popolazioni ai fini della scelta dei rimedi più opportuni, ma anche un rafforzamento dei legami che già fra di loro li univano».6 

Il nuovo collegialismo si applica anche all'interno delle diocesi, delle parrocchie, delle congregazioni religiose, di tutte le comunità della Chiesa così che l'esercizio del governo diviene impossibile: l'autorità è continuamente sconfitta. 

Chi dice elezioni dice partiti e, di conseguenza, divisioni. Quando il governo abituale, nel suo esercizio normale, è sottoposto a voti consultivi, è reso inefficace. E allora chi ne soffre è la collettività, perché il bene comune non può più essere perseguito con efficacia ed energia. 

L'introduzione del collegialismo nella Chiesa è un indebolimento notevole della sua efficacia, tanto più che lo Spirito Santo è meno facilmente contristato e contrariato in una persona che in un'assemblea. Quando le persone sono responsabili, agiscono, parlano, anche se talune tacciono. Nell'assemblea è il numero che decide, mentre nel concilio è il Papa che decide, anche contro la maggioranza se lo ritiene prudente. Il numero non fa la verità. 

Così, tramite il collegialismo o la democratizzazione, si introduce nella Chiesa la dialettica e, di conseguenza, la divisione, il disagio, la mancanza di unità e di carità. Gli avversari della Chiesa possono ben rallegrarsi di questo indebolimento del magistero e del governo resi collegiali. È una vittoria parziale. Certamente la auspicavano più completa, ma già gli effetti a loro favore si fanno sentire: la potenza di resistenza della Chiesa al comunismo, all'eresia, all'immoralità, è notevolmente diminuita. 

Tali sono i fatti che possiamo constatare e che provocano nella Chiesa una crisi gravissima. 

Ma già gli effetti funesti di questa situazione provocano sane reazioni. La conferenza episcopale spagnola ha appena restituito la responsabilità dell'Azione cattolica ai vescovi delle diocesi, sopprimendo i poteri direttivi dell'organismo nazionale che è così ricondotto alla sua giusta funzione, cioè quella di collegamento e di punto d'incontro. 

Il realismo, il buonsenso e soprattutto la grazia dello Spirito Santo aiuteranno a restituire alla Chiesa ciò che ha sempre costituito il suo vigore e la sua capacità di adattamento: apostoli con magistero e governo personali, che agiscono secondo le norme della santa prudenza e del dono del consiglio. È così che hanno potuto salvare la Chiesa Agostino, Atanasio, Ilario e tanti altri. 

7 marzo 1968

 Marcel Lefèbvre

venerdì 10 dicembre 2021

Un Vescovo parla

 


TRA LA TERZA E LA QUARTA SESSIONE DEL CONCILIO VATICANO II

 Il concilio Vaticano II sarà stato in definitiva un beneficio per la Chiesa? Lo si vedrà all'atto pratico. Una cosa certa, della quale è impossibile dubitare senza dover attendere la fine del Concilio, è che esso avrà manifestato con evidenza incontestabile come la Chiesa in taluni dei suoi membri più elevati possa essere influenzata dal magistero dei tempi nuovi: l'opinione pubblica. 

UN NUOVO MAGISTERO: L'OPINIONE PUBBLICA 

Mai come in questa occasione si era potuto misurare la terribile potenza dei mezzi di comunicazione sociale e in particolare della stampa e della radio poste al servizio degli ispiratori dell'opinione pubblica. Non si sono forse udite e lette nei testi conciliari queste parole: «il mondo attende, il mondo desidera…, il mondo è impaziente…»? Quanti interventi sono stati fatti, anche inconsciamente, sotto questo influsso! Quanti padri hanno voluto farsi portavoce di questa «opinione pubblica», quanti altri hanno approvato tali interventi per timore di contraddire questo nuovo magistero. Ricercare i fini, i mezzi degli ispiratori della pubblica opinione sarebbe uno studio appassionante e molto istruttivo. Da parte mia mi contento di constatare i fatti, di ricercare le linee di forza di tali fatti e, raggruppandoli, di mostrare con certezza che non si tratta di manifestazioni occasionali, bensì di una delle fasi della battaglia del Principe di questo mondo contro la Chiesa di Nostro Signore. È impossibile infatti non paragonare ciò che ci hanno insegnato i nostri venerati maestri della Gregoriana e del Seminario francese, ciò che hanno insegnato i papi in questi ultimi decenni, con ciò che abbiamo inteso e con ciò che leggiamo in occasione del Concilio. Come non concludere che si tratta di un magistero altro da quello della Chiesa? I discorsi dei Papi a chiusura delle sessioni dei concili passati e i loro interventi non fanno che corroborare quest'affermazione. Numerosi sono i sacerdoti e più numerosi ancora i fedeli sconvolti da quanto leggono o sentono e che è, il più delle volte, solamente l'eco di questo nuovo magistero. No, la Chiesa, nella persona del successore di Pietro, non l'ha ancora sostituito al magistero tradizionale; né l'ha fatto la Chiesa di Roma, e questo conta ancor più. Infatti la Chiesa di Roma è, attraverso la unione con il suo vescovo, mater et caput omnium ecclesiarum. Ora, la maggioranza dei cardinali e specialmente i cardinali di Curia, la maggioranza degli arcivescovi della Curia e dunque della Chiesa di Roma, i teologi romani nel loro insieme non hanno parte in questo nuovo magistero. Ed è questo che costituisce la forza di tale minoranza, di cui l'opinione pubblica parla con una certa commiserazione. Fino a oggi essa si trova con Pietro e con la Chiesa romana: è una buona garanzia. Si può cercare di scoprire gli elementi principali del nuovo magistero? Un arretramento nel tempo faciliterebbe indubbiamente questa analisi. Ma poiché appuro certo che molti di quei princìpi sono stati ereditati dalle tendenze moderniste abbondantemente descritte dagli ultimi papi, è più agevole individuarli. Si può, mi pare, raggruppare le osservazioni attorno a due fatti o due punti nevralgici del Concilio: la collegialità giuridica e la libertà religiosa.


LA COLLEGIALITÀ GIURIDICA CONTRO LA GERARCHIA 

Pare innegabile che uno dei primi obiettivi proposti da coloro che si facevano portavoce dell'opinione pubblica era la sostituzione del potere personale del Papa con un potere collegiale. I tempi cosiddetti moderni non consentendo più un'autorità personale come quella del Papa, esercitata da organismi interamente a sua discrezione, si renderebbe necessario sopprimere la Curia e affiancare al Papa un consiglio di vescovi con i quali egli governi la Chiesa, e in tal modo anche i vescovi godrebbero di una reale partecipazione al governo della Chiesa universale. Questa affermazione colpirebbe a un tempo il potere personale del Papa e il potere personale del vescovo. Bisognava dunque a qualsiasi costo provare che la collegialità giuridica ha fondamento nella Tradizione e di conseguenza nella teologia. La soppressione della distinzione tra il potere d'ordine e il potere di giurisdizione avrebbe facilitato la dimostrazione. Avendo il vescovo grazie alla sua consacrazione potere sulla Chiesa universale, il Papa non può governare la Chiesa universale senza fare appello ai vescovi. Allo stesso modo il Papa non può togliere o restringere troppo i poteri di giurisdizione dei vescovi poiché quei poteri derivano loro dalla consacrazione. La collegialità era dunque l'obiettivo da raggiungere. Una volta raggiunto quell'obiettivo, tutte le conclusioni sarebbero venute da sole, modificando radicalmente le strutture tradizionali della Chiesa. Ormai tanto a Roma quanto nelle varie nazioni la Chiesa sarebbe governata da assemblee e non più da un'autorità personale assolutamente contraria, secondo i novatori, a tutti i princìpi della società moderna. La collegialità si presentava dunque come il primo «cavallo di Troia» destinato a far crollare le strutture tradizionali. Di qui l'accanimento con il quale tutto fu messo in opera per assicurarne la riuscita. Bisogna confessare che umanamente, dato il numero di coloro che credevano dover approvare, dati i mezzi impiegati, il successo della nuova tesi era certo. Ma lo Spirito Santo vegliava, e occorre leggere attentamente la Nota esplicativa 2 per rendersi conto che questo messaggio è veramente sceso dal cielo, perché in primo luogo essa elimina la collegialità giuridica e di conseguenza sopprime qualsiasi diritto dei vescovi al governo della Chiesa universale; in secondo luogo sottomette la giurisdizione personale dei vescovi alla piena autorità del successore di Pietro; in terzo luogo riafferma che l'ufficio di Pastore della Chiesa universale appartiene al solo Papa; in quarto luogo dichiara apertamente che ai vescovi non è dato agire collegialmente se non per volontà esplicita del Papa. La struttura tradizionale della Chiesa è dunque salvaguardata, come il Papa stesso ha affermato nel suo discorso di chiusura, almeno nei testi. Bisogna confessare che dopo le angosce da noi sofferte nel corso della seconda sessione e all'inizio della terza, questa luce divina proiettata nuovamente sull'immutabile costituzione della Chiesa ci è parsa un segno strepitoso della divinità della Chiesa. Come d'altronde non collegare i due avvenimenti: l'eliminazione degli errori derivanti da una collegialità mal compresa e l'apparizione di Maria Madre della Chiesa,3 della Chiesa di Nostro Signore, della Chiesa cattolica romana, della Chiesa composta dal Papa, dai vescovi uniti e sottomessi al Papa e capi delle loro Chiese particolari, dai sacerdoti e particolarmente dai parroci collaboratori dei vescovi e infine dai fedeli, che attraverso questo sacerdozio gerarchico ricevono le grazie innumerevoli che permettono loro di santificarsi, di santificare la famiglia, la parrocchia, la comunità civile, la professione, la città, e così di sottomettere tutto all'ordine divino attraverso la pratica della virtù di giustizia: «Opus iustitiae pax»? La Chiesa è veramente eterna, e Maria, che da sola ha vinto tutte le eresie, continua a vegliare su di essa con materna sollecitudine.


LA LIBERTÀ RELIGIOSA CONTRO IL MAGISTERO 

Fin dall'inizio del Concilio gli attacchi contro il magistero della Chiesa e contro i suoi organi essenziali hanno assunto una virulenza tale da far apparire evidente che uno degli obiettivi da raggiungere era una modificazione profonda del magistero tradizionale. Il magistero del Papa, il Sant'Uffizio, uno degli organi principali del suo magistero, la Sacra Congregazione di Propaganda, tutto ciò che forma il fondamento tradizionale del magistero della Chiesa: la Scrittura, la Tradizione, l'insegnamento di san Tommaso d'Aquino, le istituzioni dell'insegnamento della Chiesa come le scuole cattoliche, lo zelo per le conversioni cioè il proselitismo, tutto questo complesso è stato aggredito sistematicamente. Mi sembra che il «cavallo di Troia» destinato a mandare a effetto questa operazione contro il magistero tradizionale della Chiesa si identifichi con l'inconcepibile schema sulla «libertà religiosa». Ammessa questa, tutto il vigore e tutto il valore del magistero della Chiesa sono colpiti a morte in maniera radicale, perché il magistero contrasta per sua natura con la libertà religiosa. Il magistero impone la sua Verità, obbliga moralmente il suddito ad accettarla, lo priva dunque della sua libertà morale. Senza dubbio la sua libertà psicologica rimane ma la sua possibilità di rifiutare l'insegnamento non gliene dà per questo il diritto. Deve credere sotto pena di condanna. Non è questa una coercizione contraria alla libertà? Il magistero deve imporsi ai bambini e ai minori attraverso coloro cui essi sono affidati e che credono. L'autorità credente deve proteggere il magistero e salvaguardare la fede di quelli dei quali ha la cura. Tutti attacchi, questi, a quella «libertà religiosa» che dà a ciascuna coscienza la libera scelta della sua religione. Così si spiegano meglio le constatazioni che seguono. Il magistero del Papa sarà fortemente attaccato, la sua infallibilità presentata come l'espressione dell'infallibilità della Chiesa presa nel suo insieme e non come un'infallibilità personale. I documenti del magistero ordinario dei Papi saranno esclusi dalla redazione degli schemi come indegni di un testo conciliare. Sappiamo anche troppo bene in quale maniera è stato trattato il Sant'Uffizio e il suo ammirevole segretario. 4 Questo metodo di gettare il discredito sulla persona per screditare la funzione è abominevole e dimostra da solo da quale spirito sono animati coloro che lo impiegano. Neppure la Congregazione di Propaganda è stata risparmiata. Anch'essa è essenzialmente al servizio del magistero: può esservi propagazione della fede senza magistero, senza proselitismo, senza zelo per l'insegnamento in tutte le sue forme? Ora, questo non è conforme alla concezione di una libertà religiosa che, se può accettare il dialogo da eguale a eguale e la testimonianza, non ammette però l'ardente predicazione sulla necessità della conversione per essere salvati e sulla minaccia di condanna eterna che pesa su coloro che rifiutano di credere e rimangono nei loro peccati. Bisognerebbe modificare il nome della congregazione: certuni suggeriscono persino di sopprimerla poiché la sua esistenza è offensiva per la libertà religiosa, in quanto la propagazione della fede ha un aspetto di coercizione morale che bisogna assolutamente evitare. Il magistero si manifesta in maniera troppo categorica e autoritaria nei seminari e nelle scuole cattoliche. Sarà necessario apportare in questi istituti riforme profonde, forse anche sopprimerli, assimilando i seminaristi agli studenti universitari e abolendo le scuole cattoliche là dove esistono scuole di Stato.

L'insegnamento dovrà svolgersi più mediante convegni che mediante corsi, più su consultazioni in biblioteca che sul commento di un manuale; d'altronde, sarebbe preferibile partire dall'apostolato pratico per arrivare all'insegnamento della teologia. L'insegnamento tomista dev'essere presentato come una soluzione possibile e non come l'insegnamento della Chiesa. Le scuole cattoliche dovranno, in qualsiasi circostanza, mostrarsi rispettose di tutte le religioni e ammettere indistintamente i candidati. D'altra parte, è inopportuno che le scuole siano dichiarate cattoliche perché questo carattere presenta un certo aspetto di intolleranza religiosa che non si conviene più alla nostra epoca. Ma le riforme desiderate non si applicano solo agli organismi e alle istituzioni del magistero della Chiesa ma alle fonti stesse di questo magistero. Le Scritture devono ammettere un'interpretazione molto diversa secondo i generi letterari e anche secondo la teoria delle forme. L'inerranza sarà dunque diversa secondo la diversità dei generi. Si potranno così ammettere dubbi legittimi su numerosi passi della Scrittura. Quanto alla Tradizione, occorre necessariamente considerarla in funzione del tempo e delle circostanze. Per cui è evidentemente inutile produrre documenti della Tradizione contrari a quanto desidera affermare il Concilio attuale. Dire che l'enciclica Libertas praestantissimum di Leone XIII si oppone al concetto di libertà religiosa che il Concilio desidera affermare conformemente all'opinione pubblica, non ha senso: Leone XIII ha parlato per il suo tempo e non per il 1965. Ci sarebbero molte altre affermazioni formulate dal «nuovo magistero», ma mi sembra che la precedente enumerazione sia sufficientemente ampia per provare che gli interventi che appaiono dispersi hanno una convergenza incredibile. È chiaro che il magistero della Chiesa infastidisce gli adepti del magistero dell'opinione pubblica. Bisogna dunque sminuirlo in tutti i modi. Il mezzo propizio sarà la «libertà religiosa». Queste parole magiche, ambigue, sono piacevoli come la mela per Eva. Che formidabile vittoria contro la Chiesa militante, «trionfalista», se fosse ammessa questa libertà! Quante conclusioni se ne potrebbero trarre! Fin dove si potrebbe condurre la Chiesa che accogliesse nel suo seno gli argomenti che debbono distruggerla! Il magistero della Chiesa è la sua ragione d'essere e la ragione d'essere del magistero è la certezza di possedere la verità. Ora, la verità è di per sé intollerante nei riguardi dell'errore come la salute è opposta alla malattia. Il magistero non può ammettere il diritto alla libertà religiosa, anche se la tollera. Dio infatti non ha concesso all'uomo il diritto di scegliere la sua religione ma gliene ha lasciato soltanto la sventurata possibilità, che è una debolezza della libertà umana. Si rimprovera alla Chiesa di pretendere la libertà religiosa quando è in minoranza e di rifiutarla quando è in maggioranza. La risposta è facile. La verità è fonte del bene, della virtù, della giustizia, della pace; là dov'è la verità, questi benefici si manifestano nella società. La Chiesa chiede che si riconosca che essa apporta agli Stati questi beni preziosi e che di conseguenza le si accordi la libertà di dispensarli. Gli uomini di Stato assennati e pensosi del bene dei loro concittadini ammettono volentieri il valore dei benefici culturali e sociali portati dalla Chiesa cattolica e le accordano facilmente una libertà che rifiutano talvolta agli altri. La Chiesa ha il diritto di chiedere questa libertà di esistenza e di azione perché essa porta e dispensa i doni preziosi che procedono dalla verità di cui è sola detentrice in maniera totale. Tutta la storia contemporanea delle missioni dimostra che là dove la Chiesa cattolica gode di una posizione privilegiata fioriscono nei suoi membri le virtù familiari e sociali. Per questo, Stati a maggioranza non cristiana scelgono come loro capi o pongono in cariche importanti quei cattolici che per la dignità della loro vita, la loro probità, la loro coscienza, portano la testimonianza fulgida della verità della Chiesa cattolica. Non è quello che diceva già san Cipriano all'imperatore per chiedergli di risparmiare i cristiani e lasciare loro la libertà?

Quando la Chiesa è in situazione maggioritaria, la verità e il bene dei popoli le impongono di dispensare la buona dottrina, di effondere tutti i benefici che derivano dalla verità sui cittadini, mettendoli al riparo dall'errore e dai vizi che l'accompagnano. Ragionare della verità senza fare allusione al bene che le è inseparabilmente unito, allo stesso modo che il male e il vizio sono inseparabilmente uniti nell'errore, significa vivere nell'astrazione, nell'irrealtà. È più facile riconoscere che solo il bene ha diritti e che il male non ne ha. Ora, quel che si afferma del bene deve dirsi ugualmente della verità. «Ens, verum et bonum convertuntur», ciò che si afferma dell'Essere può dirsi del Vero e può dirsi del Bene e, inversamente, queste tre realtà non sono che una e medesima cosa. Prima di abbozzare proposte di rimedi ai mali che affliggono la Chiesa, mi sembra necessario insistere sul pericolo che minaccia la Chiesa mostrando quanto gli obiettivi desiderati dagli innovatori servano esattamente alle tesi sostenute dai protestanti e dai comunisti. Basti accennare a quel che sostengono pastori come Richard-Molard nei suoi articoli sul «Figaro», basti ascoltare Garaudy all'incontro di Lovanio: questi signori, che evidentemente attingono le loro idee a una fonte diversa da quella della Chiesa romana, si rallegrano nel constatare che finalmente una grande parte dei cattolici comprendono che due caratteri della Chiesa cattolica romana sono inammissibili: il suo magistero e il suo genere di autorità. Il magistero è intollerabile perché si impone e si attribuisce la verità nei campi della fede e dei costumi, vale a dire nella vita sociale e nei princìpi morali che dirigono la politica, l'economia, la tecnica. Bisogna finirla con questo magistero, sostituirlo con un dialogo, bisogna che la Chiesa scenda dalla cattedra, si mescoli al popolo su un piede d'eguaglianza con tutte le confessioni. Dialoghi pure, ma non insegni più con autorità; sia la prima ad accordare la «libertà religiosa». Si spiega così l'immenso interesse che i comunisti e i protestanti dimostrano per questo tema della «libertà religiosa». Di più, come dice Garaudy a Lovanio, «finiamola con le classi nella società». Quindi, nella Chiesa, finiamola con l'«Ordine», che è precisamente un sacramento che istituisce classi fra le persone, le une superiori, le altre inferiori. Finiamola con la giurisdizione che, anch'essa, crea classi. La distinzione tra sacerdoti e laici, tra vescovi e sacerdoti, tra Papa e vescovi si smorzi: tutti fratelli, uguali in tutti i campi. Bisogna sopprimere i segni esteriori di queste differenze d'ordine e di giurisdizione, ed ecco trovata la parola magica: «trionfalismo», che servirà mirabilmente a distruggere tutti i segni di rispetto verso l'autorità votata al livellamento. Sono indubbiamente pochi i padri conciliari che si attendevano dai protestanti e dai comunisti applausi ai loro interventi in questo senso. Ma la realtà è oggi lampante: tali affermazioni sono numerose, nemici tradizionali della Chiesa si rallegrano che membri eminenti della Chiesa abbondino delle idee che essi hanno sempre difeso. Ma costoro sbagliano, la Chiesa non aderisce alle loro idee. Né la collegialità, né la libertà religiosa, malintese, contrarie come sono alla dottrina della Chiesa, passeranno; è ormai un fatto per la prima tesi, lo sarà ben presto per la seconda.


 LITURGIA 

In mezzo alle opposizioni, alle esagerazioni, alle discussioni che caratterizzano questo periodo di adattamento della liturgia, è possibile abbozzare alcune riflessioni? A vedere la rapidità, insolita per la Chiesa, con la quale in tutti i paesi sono state applicate le decisioni conciliari, non si può non temere che certe misure trascinino con sé risultati imprevisti e infelici. Tale è il caso della devozione al Santissimo Sacramento, alla Vergine e ai Santi, le cui statue sono state rimosse da parecchie chiese, senza alcuna preoccupazione per la più elementare pastorale e catechesi, per il bello e buon ordinamento della casa di Dio, che è diventata una casa di uomini più che una casa di Dio, per la bellezza veramente divina dei canti latini, soppressi e non ancora sostituiti da melodie equivalenti. Tuttavia, da queste constatazioni dobbiamo concludere che bisognava conservare tutte queste cose senza mutamento? Con misura e prudenza il Concilio ha risposto negativamente. Qualche cosa era da ritoccare e da riscoprire. La Madonna veglia sul magistero e sull'autorità nella sua Chiesa cattolica e romana.


SUGGERIMENTI PER L'AVVENIRE 

Nonostante una certa confusione di idee nell'ora presente, si possono discernere i chiarori della nuova aurora che il Concilio farà sorgere sul mondo? Fra qualche anno sarà indubbiamente più facile scoprire tali prospettive. Ma non è auspicabile che coloro che hanno vissuto la vita del Concilio si sforzino, in perfetta sottomissione al successore di Pietro, di determinarle al fine di suscitare le iniziative vere e generose scaturite dalla più pura tradizione della Chiesa, nascenti veramente dallo Spirito di Dio sempre vivo nella sua Sposa? È chiaro che la prima parte della Messa, destinata a istruire i fedeli e a far loro esprimere la loro fede, aveva bisogno di raggiungere questi fini in maniera più netta e in certa misura più intelligibile. A tale scopo, secondo il mio umile parere, sembrerebbe utile ritoccare in primo luogo i riti di questa prima parte e introdurre qualche traduzione in lingua parlata. Fare in modo che il sacerdote si accosti ai fedeli, comunichi con loro, preghi e canti con loro, si tenga pertanto all'ambone, legga nella loro lingua l'Epistola e il Vangelo; che il sacerdote canti con i fedeli il Kyrie, il Gloria e il Credo nelle divine melodie tradizionali. Tutte riforme felici che restituiscono a questa parte della Messa il suo vero scopo. L'ordinamento di questa parte istruttiva si faccia anzitutto in funzione della Messa cantata della domenica, in modo che questa Messa sia il modello al quale adeguare i riti di altre Messe: ecco altrettanti aspetti di rinnovamento che appaiono eccellenti. Aggiungiamo soprattutto le direttive necessarie a una predicazione vera, semplice, toccante, forte nella sua fede e determinante nelle risoluzioni. Questo è uno dei punti più importanti da ottenere nel rinnovamento liturgico di questa parte della Messa. Per i sacramenti e i sacramentali, l'uso della lingua dei fedeli nelle parti didattiche ed esortative può essere utile, visto che li riguardano più direttamente e più personalmente, ma non così per gli esorcismi, preghiere e benedizioni. Ma gli argomenti in favore della conservazione del latino nelle parti della Messa che si svolgono all'altare sono tali da poter sperare che in un giorno prossimo saranno posti limiti all'invasione della lingua parlata in questo tesoro di unità, di universalità, in questo mistero che nessuna lingua umana può esprimere e descrivere. Quanto dobbiamo augurarci che l'anima dei fedeli si unisca spiritualmente, personalmente, a Nostro Signore presente nell'Eucarestia e al suo divino Spirito, così che sia assolutamente proscritto tutto ciò che può nuocere a questo scopo, come un'esagerazione di preghiere vocali e di riti, una diminuzione di rispetto per l'Eucarestia, una volgarità sconveniente ai misteri divini! Una riforma in questo campo non può essere buona se non assicura in modo più che certo i fini essenziali dei misteri divini stabiliti da Nostro Signore e trasmessi dalla Tradizione. 


LA COSTITUZIONE DELLA CHIESA

Ma ecco un argomento forse più delicato a trattarsi e che sembra tuttavia procedere gradualmente verso forme più precise: è il problema che è stato occasione del dibattito sulla collegialità. Viviamo in un'epoca di proliferazione estrema dei mezzi di comunicazione sociale. In sé, tale moltiplicazione potrebbe, e dovrebbe, avere effetti eccellenti. Pare dunque normale che la comunicazione dei pensieri, lo scambio delle idee, siano più frequenti, più ricchi. Ora, secondo il trattato sulla prudenza di san Tommaso, l'autorità, il capo, prima di esprimere un giudizio, di prendere una decisione, deve, nella sua saggezza, consigliarsi con persone che giudica idonee a consigliarlo. Oggi pare quindi normale, grazie a queste possibilità, consigliarsi con persone adatte ma che non si potevano facilmente raggiungere solo qualche decennio fa, e che il capo della Chiesa universale, il Papa, si circondi di consiglieri che in altri tempi non poteva avere. Che questa possibilità, di cui solo il capo è giudice, porti talune modificazioni nella Curia romana, vale a dire in quell'organismo che forma il consiglio abituale del Santo Padre e al quale egli affida una parte della sua responsabilità, è possibile e verosimile. Ma il prendere pretesto da questa occasione per far dire ai padri conciliari che hanno un diritto di governo con il Papa, fu un'impresa insensata. È inconcepibile mutare ciò che esiste da quando la volontà di Nostro Signore si è espressa chiaramente e a cui la Tradizione ispirata ha dato realtà pratica: quel governo che ha d'altronde dato prova della sua origine divina con la sua stabilità e, in definitiva, con il suo perfetto adattamento a tutti i tempi. Non si cambierà mai il fatto che il Papa e lui solo ha, come vicario di Gesù Cristo, un potere che si estende alla Chiesa universale. Ma questo non ha mai impedito ai Papi di adattare i loro organismi alle necessità del tempo. E questo rimane il campo proprio del successore di Pietro. Nemmeno come padri conciliari i vescovi possono avanzare altro che suggerimenti rispettosi e discreti. Tuttavia questo dibattuto problema del governo della Chiesa universale ha ripercussioni gravi in un campo che tocca da vicino i vescovi e il loro potere nelle loro diocesi. Anche qui sono probabili direttive nuove; ma è proprio necessario intaccare quanto vi è di più bello, di più sacro, di più efficace nella Chiesa dopo il potere pastorale del Papa, vale a dire il potere pastorale e paterno del vescovo, assorbendolo in un potere collettivo? In questi due poteri risiede tutto il vigore dell'apostolato della Chiesa. Appunto grazie a questi due poteri disposti gerarchicamente per quanto riguarda la giurisdizione, ma molto ben ripartiti e che danno un'autorità considerevole ai vescovi nelle diocesi, la Chiesa è un'organizzazione di apostolato notevolmente viva, agile, che si adatta ai luoghi e alle popolazioni con una saggezza e una vitalità che non esistono in alcun governo del mondo. Così questo potere è, e non può essere, che intangibile. Qualsiasi restrizione che non venisse direttamente dal Papa sarebbe profondamente nociva all'apostolato e paralizzerebbe lo zelo e l'iniziativa episcopali, che sono la virtù dell'apostolato stesso. Tuttavia, certe condizioni sociali attuali richiedono senza alcun dubbio che i vescovi di una regione o di una nazione o di parecchie nazioni si incontrino, scambino le loro preoccupazioni in funzione di certe difficoltà che possono essere similari, instaurino insieme determinati servizi di informazione, di stampa e persino di apostolato, ma tutto questo a condizioni estremamente precise, soprattutto per ciò che riguarda direttamente l'apostolato. Parrebbe potersi dire: anzitutto che è pericoloso creare organi direttivi, ma che è utile sviluppare servizi ai quali i vescovi possano rivolgersi; e inoltre che è desiderabile che si possa raggiungere una certa unanimità su alcuni problemi importanti come quello dell'insegnamento, per esempio, purché tutti i vescovi rimangano liberi e giudici dell'applicazioni di tali misure nelle rispettive diocesi, a meno che la questione non sia sottoposta alla Santa Sede che giudicherà ciò che va fatto. È inconcepibile che una maggioranza si imponga a una minoranza attraverso il semplice gioco dei voti. Sarebbe la fine dell'autorità episcopale. È di primaria importanza che il vescovo sia considerato nella sua diocesi come il solo responsabile dell'apostolato dopo e alle dipendenze del Papa. Ogni autorità intermedia sarebbe intollerabile e rovinerebbe qualsiasi iniziativa episcopale. Sarebbe manifestamente contraria a tutta la storia della Chiesa. Tuttavia chi negherà che incontri episcopali fraterni, che taluni servizi comuni possano essere utili e benèfici? Si pensi al Secours Catholique, a Misereor, alle Pontificie Opere Missionarie, alla Mutuelle sacerdotale. Quanti servizi si possono rendere attraverso queste associazioni! Ma qualsiasi organizzazione che abbia una ripercussione sull'apostolato può essere solo un servizio e non una direzione. Nella sua diocesi il vescovo deve rimanere interamente libero, se non vuol essere soltanto un funzionario e, diciamolo, un minorenne. Tanto sono incoraggianti e feconde le assemblee condotte secondo le norme ammesse fin qui dalla Santa Sede, altrettanto diverrebbero soffocanti e intollerabili, perché contrarie alla natura stessa del potere episcopale, se si ispirassero al principio di una continua limitazione del potere personale del vescovo. Sembra così giusto richiamare qui tutto ciò che può significare per il governo episcopale una felice applicazione di quel che suggerisce il diritto canonico: i sinodi, le conferenze sacerdotali, i consultori diocesani. Quanti felici scambi possono esservi tra il vescovo e i sacerdoti suoi consiglieri, responsabili dell'apostolato immediato. Ciò che importa è il rispetto dell'autorità episcopale che decide in ultima istanza; i suggerimenti saranno tanto più franchi e fraterni quanto più grande sarà il rispetto del vescovo. Beato quel vescovo che vive fraternamente con i suoi sacerdoti, li ama, li comprende, li visita personalmente, li incoraggia, li edifica. Tutto si può sperare da una diocesi nella quale i sacerdoti sono veramente i cooperatori del vescovo e in cui ciascun sacerdote adempie la funzione che gli è assegnata guardandosi bene dal distruggere l'autorità degli altri e in particolare quella del parroco, pastore direttamente responsabile delle anime che gli sono affidate. Quando i poteri sono bene ordinati fra i parroci, i sacerdoti incaricati dell'azione cattolica, i cappellani delle scuole, sotto l'occhio paterno del vescovo, i risultati possono essere mirabili. Solo il vescovo della diocesi può creare quest'ordine e conferirgli vita ed efficacia. Se l'organizzazione viene imposta alla diocesi dall'esterno, prescindendo dall'autorità personale del vescovo del luogo, si introduce nella diocesi stessa il disordine. Lo stesso accade per la parrocchia quando il parroco ignora quel che vi si fa e che riguarda il suo apostolato. «Omnia in ordine fiant»! Numerosi sono i problemi studiati dal Concilio, ma ve ne sono taluni di cui è difficile determinare le conclusioni, dato che i testi non sono ancora definitivi: in particolare, quelli che riguardano il magistero, la libertà religiosa, le missioni, lo schema sulla Chiesa nel mondo, la Rivelazione, le scuole, i seminari… Si può tuttavia sperare in verità che il Concilio porterà frutti abbondanti, tanto attraverso il fermo mantenimento delle verità tradizionali quanto attraverso le nuove prospettive che permette di intravedere. In definitiva, gli sforzi per ottenere un falso «aggiornamento» avranno contribuito a definire esattamente quello vero, quale la Chiesa lo desidera. Perseveriamo quindi nella preghiera con Maria e gli Apostoli perché lo Spirito di Nostro Signore scenda sovrabbondante nelle anime di tutti i pastori e di tutti i fedeli. Festa della Pentecoste, 6 giugno 1965

Marcel Lefèbvre