TRA LA TERZA E LA QUARTA SESSIONE DEL CONCILIO VATICANO II
Il concilio Vaticano II sarà stato in definitiva un beneficio per la Chiesa? Lo si vedrà all'atto pratico. Una cosa certa, della quale è impossibile dubitare senza dover attendere la fine del Concilio, è che esso avrà manifestato con evidenza incontestabile come la Chiesa in taluni dei suoi membri più elevati possa essere influenzata dal magistero dei tempi nuovi: l'opinione pubblica.
UN NUOVO MAGISTERO: L'OPINIONE PUBBLICA
Mai come in questa occasione si era potuto misurare la terribile potenza dei mezzi di comunicazione sociale e in particolare della stampa e della radio poste al servizio degli ispiratori dell'opinione pubblica. Non si sono forse udite e lette nei testi conciliari queste parole: «il mondo attende, il mondo desidera…, il mondo è impaziente…»? Quanti interventi sono stati fatti, anche inconsciamente, sotto questo influsso! Quanti padri hanno voluto farsi portavoce di questa «opinione pubblica», quanti altri hanno approvato tali interventi per timore di contraddire questo nuovo magistero. Ricercare i fini, i mezzi degli ispiratori della pubblica opinione sarebbe uno studio appassionante e molto istruttivo. Da parte mia mi contento di constatare i fatti, di ricercare le linee di forza di tali fatti e, raggruppandoli, di mostrare con certezza che non si tratta di manifestazioni occasionali, bensì di una delle fasi della battaglia del Principe di questo mondo contro la Chiesa di Nostro Signore. È impossibile infatti non paragonare ciò che ci hanno insegnato i nostri venerati maestri della Gregoriana e del Seminario francese, ciò che hanno insegnato i papi in questi ultimi decenni, con ciò che abbiamo inteso e con ciò che leggiamo in occasione del Concilio. Come non concludere che si tratta di un magistero altro da quello della Chiesa? I discorsi dei Papi a chiusura delle sessioni dei concili passati e i loro interventi non fanno che corroborare quest'affermazione. Numerosi sono i sacerdoti e più numerosi ancora i fedeli sconvolti da quanto leggono o sentono e che è, il più delle volte, solamente l'eco di questo nuovo magistero. No, la Chiesa, nella persona del successore di Pietro, non l'ha ancora sostituito al magistero tradizionale; né l'ha fatto la Chiesa di Roma, e questo conta ancor più. Infatti la Chiesa di Roma è, attraverso la unione con il suo vescovo, mater et caput omnium ecclesiarum. Ora, la maggioranza dei cardinali e specialmente i cardinali di Curia, la maggioranza degli arcivescovi della Curia e dunque della Chiesa di Roma, i teologi romani nel loro insieme non hanno parte in questo nuovo magistero. Ed è questo che costituisce la forza di tale minoranza, di cui l'opinione pubblica parla con una certa commiserazione. Fino a oggi essa si trova con Pietro e con la Chiesa romana: è una buona garanzia. Si può cercare di scoprire gli elementi principali del nuovo magistero? Un arretramento nel tempo faciliterebbe indubbiamente questa analisi. Ma poiché appuro certo che molti di quei princìpi sono stati ereditati dalle tendenze moderniste abbondantemente descritte dagli ultimi papi, è più agevole individuarli. Si può, mi pare, raggruppare le osservazioni attorno a due fatti o due punti nevralgici del Concilio: la collegialità giuridica e la libertà religiosa.
LA COLLEGIALITÀ GIURIDICA CONTRO LA GERARCHIA
Pare innegabile che uno dei primi obiettivi proposti da coloro che si facevano portavoce dell'opinione pubblica era la sostituzione del potere personale del Papa con un potere collegiale. I tempi cosiddetti moderni non consentendo più un'autorità personale come quella del Papa, esercitata da organismi interamente a sua discrezione, si renderebbe necessario sopprimere la Curia e affiancare al Papa un consiglio di vescovi con i quali egli governi la Chiesa, e in tal modo anche i vescovi godrebbero di una reale partecipazione al governo della Chiesa universale. Questa affermazione colpirebbe a un tempo il potere personale del Papa e il potere personale del vescovo. Bisognava dunque a qualsiasi costo provare che la collegialità giuridica ha fondamento nella Tradizione e di conseguenza nella teologia. La soppressione della distinzione tra il potere d'ordine e il potere di giurisdizione avrebbe facilitato la dimostrazione. Avendo il vescovo grazie alla sua consacrazione potere sulla Chiesa universale, il Papa non può governare la Chiesa universale senza fare appello ai vescovi. Allo stesso modo il Papa non può togliere o restringere troppo i poteri di giurisdizione dei vescovi poiché quei poteri derivano loro dalla consacrazione. La collegialità era dunque l'obiettivo da raggiungere. Una volta raggiunto quell'obiettivo, tutte le conclusioni sarebbero venute da sole, modificando radicalmente le strutture tradizionali della Chiesa. Ormai tanto a Roma quanto nelle varie nazioni la Chiesa sarebbe governata da assemblee e non più da un'autorità personale assolutamente contraria, secondo i novatori, a tutti i princìpi della società moderna. La collegialità si presentava dunque come il primo «cavallo di Troia» destinato a far crollare le strutture tradizionali. Di qui l'accanimento con il quale tutto fu messo in opera per assicurarne la riuscita. Bisogna confessare che umanamente, dato il numero di coloro che credevano dover approvare, dati i mezzi impiegati, il successo della nuova tesi era certo. Ma lo Spirito Santo vegliava, e occorre leggere attentamente la Nota esplicativa 2 per rendersi conto che questo messaggio è veramente sceso dal cielo, perché in primo luogo essa elimina la collegialità giuridica e di conseguenza sopprime qualsiasi diritto dei vescovi al governo della Chiesa universale; in secondo luogo sottomette la giurisdizione personale dei vescovi alla piena autorità del successore di Pietro; in terzo luogo riafferma che l'ufficio di Pastore della Chiesa universale appartiene al solo Papa; in quarto luogo dichiara apertamente che ai vescovi non è dato agire collegialmente se non per volontà esplicita del Papa. La struttura tradizionale della Chiesa è dunque salvaguardata, come il Papa stesso ha affermato nel suo discorso di chiusura, almeno nei testi. Bisogna confessare che dopo le angosce da noi sofferte nel corso della seconda sessione e all'inizio della terza, questa luce divina proiettata nuovamente sull'immutabile costituzione della Chiesa ci è parsa un segno strepitoso della divinità della Chiesa. Come d'altronde non collegare i due avvenimenti: l'eliminazione degli errori derivanti da una collegialità mal compresa e l'apparizione di Maria Madre della Chiesa,3 della Chiesa di Nostro Signore, della Chiesa cattolica romana, della Chiesa composta dal Papa, dai vescovi uniti e sottomessi al Papa e capi delle loro Chiese particolari, dai sacerdoti e particolarmente dai parroci collaboratori dei vescovi e infine dai fedeli, che attraverso questo sacerdozio gerarchico ricevono le grazie innumerevoli che permettono loro di santificarsi, di santificare la famiglia, la parrocchia, la comunità civile, la professione, la città, e così di sottomettere tutto all'ordine divino attraverso la pratica della virtù di giustizia: «Opus iustitiae pax»? La Chiesa è veramente eterna, e Maria, che da sola ha vinto tutte le eresie, continua a vegliare su di essa con materna sollecitudine.
LA LIBERTÀ RELIGIOSA CONTRO IL MAGISTERO
Fin dall'inizio del Concilio gli attacchi contro il magistero della Chiesa e contro i suoi organi essenziali hanno assunto una virulenza tale da far apparire evidente che uno degli obiettivi da raggiungere era una modificazione profonda del magistero tradizionale. Il magistero del Papa, il Sant'Uffizio, uno degli organi principali del suo magistero, la Sacra Congregazione di Propaganda, tutto ciò che forma il fondamento tradizionale del magistero della Chiesa: la Scrittura, la Tradizione, l'insegnamento di san Tommaso d'Aquino, le istituzioni dell'insegnamento della Chiesa come le scuole cattoliche, lo zelo per le conversioni cioè il proselitismo, tutto questo complesso è stato aggredito sistematicamente. Mi sembra che il «cavallo di Troia» destinato a mandare a effetto questa operazione contro il magistero tradizionale della Chiesa si identifichi con l'inconcepibile schema sulla «libertà religiosa». Ammessa questa, tutto il vigore e tutto il valore del magistero della Chiesa sono colpiti a morte in maniera radicale, perché il magistero contrasta per sua natura con la libertà religiosa. Il magistero impone la sua Verità, obbliga moralmente il suddito ad accettarla, lo priva dunque della sua libertà morale. Senza dubbio la sua libertà psicologica rimane ma la sua possibilità di rifiutare l'insegnamento non gliene dà per questo il diritto. Deve credere sotto pena di condanna. Non è questa una coercizione contraria alla libertà? Il magistero deve imporsi ai bambini e ai minori attraverso coloro cui essi sono affidati e che credono. L'autorità credente deve proteggere il magistero e salvaguardare la fede di quelli dei quali ha la cura. Tutti attacchi, questi, a quella «libertà religiosa» che dà a ciascuna coscienza la libera scelta della sua religione. Così si spiegano meglio le constatazioni che seguono. Il magistero del Papa sarà fortemente attaccato, la sua infallibilità presentata come l'espressione dell'infallibilità della Chiesa presa nel suo insieme e non come un'infallibilità personale. I documenti del magistero ordinario dei Papi saranno esclusi dalla redazione degli schemi come indegni di un testo conciliare. Sappiamo anche troppo bene in quale maniera è stato trattato il Sant'Uffizio e il suo ammirevole segretario. 4 Questo metodo di gettare il discredito sulla persona per screditare la funzione è abominevole e dimostra da solo da quale spirito sono animati coloro che lo impiegano. Neppure la Congregazione di Propaganda è stata risparmiata. Anch'essa è essenzialmente al servizio del magistero: può esservi propagazione della fede senza magistero, senza proselitismo, senza zelo per l'insegnamento in tutte le sue forme? Ora, questo non è conforme alla concezione di una libertà religiosa che, se può accettare il dialogo da eguale a eguale e la testimonianza, non ammette però l'ardente predicazione sulla necessità della conversione per essere salvati e sulla minaccia di condanna eterna che pesa su coloro che rifiutano di credere e rimangono nei loro peccati. Bisognerebbe modificare il nome della congregazione: certuni suggeriscono persino di sopprimerla poiché la sua esistenza è offensiva per la libertà religiosa, in quanto la propagazione della fede ha un aspetto di coercizione morale che bisogna assolutamente evitare. Il magistero si manifesta in maniera troppo categorica e autoritaria nei seminari e nelle scuole cattoliche. Sarà necessario apportare in questi istituti riforme profonde, forse anche sopprimerli, assimilando i seminaristi agli studenti universitari e abolendo le scuole cattoliche là dove esistono scuole di Stato.
L'insegnamento dovrà svolgersi più mediante convegni che mediante corsi, più su consultazioni in biblioteca che sul commento di un manuale; d'altronde, sarebbe preferibile partire dall'apostolato pratico per arrivare all'insegnamento della teologia. L'insegnamento tomista dev'essere presentato come una soluzione possibile e non come l'insegnamento della Chiesa. Le scuole cattoliche dovranno, in qualsiasi circostanza, mostrarsi rispettose di tutte le religioni e ammettere indistintamente i candidati. D'altra parte, è inopportuno che le scuole siano dichiarate cattoliche perché questo carattere presenta un certo aspetto di intolleranza religiosa che non si conviene più alla nostra epoca. Ma le riforme desiderate non si applicano solo agli organismi e alle istituzioni del magistero della Chiesa ma alle fonti stesse di questo magistero. Le Scritture devono ammettere un'interpretazione molto diversa secondo i generi letterari e anche secondo la teoria delle forme. L'inerranza sarà dunque diversa secondo la diversità dei generi. Si potranno così ammettere dubbi legittimi su numerosi passi della Scrittura. Quanto alla Tradizione, occorre necessariamente considerarla in funzione del tempo e delle circostanze. Per cui è evidentemente inutile produrre documenti della Tradizione contrari a quanto desidera affermare il Concilio attuale. Dire che l'enciclica Libertas praestantissimum di Leone XIII si oppone al concetto di libertà religiosa che il Concilio desidera affermare conformemente all'opinione pubblica, non ha senso: Leone XIII ha parlato per il suo tempo e non per il 1965. Ci sarebbero molte altre affermazioni formulate dal «nuovo magistero», ma mi sembra che la precedente enumerazione sia sufficientemente ampia per provare che gli interventi che appaiono dispersi hanno una convergenza incredibile. È chiaro che il magistero della Chiesa infastidisce gli adepti del magistero dell'opinione pubblica. Bisogna dunque sminuirlo in tutti i modi. Il mezzo propizio sarà la «libertà religiosa». Queste parole magiche, ambigue, sono piacevoli come la mela per Eva. Che formidabile vittoria contro la Chiesa militante, «trionfalista», se fosse ammessa questa libertà! Quante conclusioni se ne potrebbero trarre! Fin dove si potrebbe condurre la Chiesa che accogliesse nel suo seno gli argomenti che debbono distruggerla! Il magistero della Chiesa è la sua ragione d'essere e la ragione d'essere del magistero è la certezza di possedere la verità. Ora, la verità è di per sé intollerante nei riguardi dell'errore come la salute è opposta alla malattia. Il magistero non può ammettere il diritto alla libertà religiosa, anche se la tollera. Dio infatti non ha concesso all'uomo il diritto di scegliere la sua religione ma gliene ha lasciato soltanto la sventurata possibilità, che è una debolezza della libertà umana. Si rimprovera alla Chiesa di pretendere la libertà religiosa quando è in minoranza e di rifiutarla quando è in maggioranza. La risposta è facile. La verità è fonte del bene, della virtù, della giustizia, della pace; là dov'è la verità, questi benefici si manifestano nella società. La Chiesa chiede che si riconosca che essa apporta agli Stati questi beni preziosi e che di conseguenza le si accordi la libertà di dispensarli. Gli uomini di Stato assennati e pensosi del bene dei loro concittadini ammettono volentieri il valore dei benefici culturali e sociali portati dalla Chiesa cattolica e le accordano facilmente una libertà che rifiutano talvolta agli altri. La Chiesa ha il diritto di chiedere questa libertà di esistenza e di azione perché essa porta e dispensa i doni preziosi che procedono dalla verità di cui è sola detentrice in maniera totale. Tutta la storia contemporanea delle missioni dimostra che là dove la Chiesa cattolica gode di una posizione privilegiata fioriscono nei suoi membri le virtù familiari e sociali. Per questo, Stati a maggioranza non cristiana scelgono come loro capi o pongono in cariche importanti quei cattolici che per la dignità della loro vita, la loro probità, la loro coscienza, portano la testimonianza fulgida della verità della Chiesa cattolica. Non è quello che diceva già san Cipriano all'imperatore per chiedergli di risparmiare i cristiani e lasciare loro la libertà?
Quando la Chiesa è in situazione maggioritaria, la verità e il bene dei popoli le impongono di dispensare la buona dottrina, di effondere tutti i benefici che derivano dalla verità sui cittadini, mettendoli al riparo dall'errore e dai vizi che l'accompagnano. Ragionare della verità senza fare allusione al bene che le è inseparabilmente unito, allo stesso modo che il male e il vizio sono inseparabilmente uniti nell'errore, significa vivere nell'astrazione, nell'irrealtà. È più facile riconoscere che solo il bene ha diritti e che il male non ne ha. Ora, quel che si afferma del bene deve dirsi ugualmente della verità. «Ens, verum et bonum convertuntur», ciò che si afferma dell'Essere può dirsi del Vero e può dirsi del Bene e, inversamente, queste tre realtà non sono che una e medesima cosa. Prima di abbozzare proposte di rimedi ai mali che affliggono la Chiesa, mi sembra necessario insistere sul pericolo che minaccia la Chiesa mostrando quanto gli obiettivi desiderati dagli innovatori servano esattamente alle tesi sostenute dai protestanti e dai comunisti. Basti accennare a quel che sostengono pastori come Richard-Molard nei suoi articoli sul «Figaro», basti ascoltare Garaudy all'incontro di Lovanio: questi signori, che evidentemente attingono le loro idee a una fonte diversa da quella della Chiesa romana, si rallegrano nel constatare che finalmente una grande parte dei cattolici comprendono che due caratteri della Chiesa cattolica romana sono inammissibili: il suo magistero e il suo genere di autorità. Il magistero è intollerabile perché si impone e si attribuisce la verità nei campi della fede e dei costumi, vale a dire nella vita sociale e nei princìpi morali che dirigono la politica, l'economia, la tecnica. Bisogna finirla con questo magistero, sostituirlo con un dialogo, bisogna che la Chiesa scenda dalla cattedra, si mescoli al popolo su un piede d'eguaglianza con tutte le confessioni. Dialoghi pure, ma non insegni più con autorità; sia la prima ad accordare la «libertà religiosa». Si spiega così l'immenso interesse che i comunisti e i protestanti dimostrano per questo tema della «libertà religiosa». Di più, come dice Garaudy a Lovanio, «finiamola con le classi nella società». Quindi, nella Chiesa, finiamola con l'«Ordine», che è precisamente un sacramento che istituisce classi fra le persone, le une superiori, le altre inferiori. Finiamola con la giurisdizione che, anch'essa, crea classi. La distinzione tra sacerdoti e laici, tra vescovi e sacerdoti, tra Papa e vescovi si smorzi: tutti fratelli, uguali in tutti i campi. Bisogna sopprimere i segni esteriori di queste differenze d'ordine e di giurisdizione, ed ecco trovata la parola magica: «trionfalismo», che servirà mirabilmente a distruggere tutti i segni di rispetto verso l'autorità votata al livellamento. Sono indubbiamente pochi i padri conciliari che si attendevano dai protestanti e dai comunisti applausi ai loro interventi in questo senso. Ma la realtà è oggi lampante: tali affermazioni sono numerose, nemici tradizionali della Chiesa si rallegrano che membri eminenti della Chiesa abbondino delle idee che essi hanno sempre difeso. Ma costoro sbagliano, la Chiesa non aderisce alle loro idee. Né la collegialità, né la libertà religiosa, malintese, contrarie come sono alla dottrina della Chiesa, passeranno; è ormai un fatto per la prima tesi, lo sarà ben presto per la seconda.
LITURGIA
In mezzo alle opposizioni, alle esagerazioni, alle discussioni che caratterizzano questo periodo di adattamento della liturgia, è possibile abbozzare alcune riflessioni? A vedere la rapidità, insolita per la Chiesa, con la quale in tutti i paesi sono state applicate le decisioni conciliari, non si può non temere che certe misure trascinino con sé risultati imprevisti e infelici. Tale è il caso della devozione al Santissimo Sacramento, alla Vergine e ai Santi, le cui statue sono state rimosse da parecchie chiese, senza alcuna preoccupazione per la più elementare pastorale e catechesi, per il bello e buon ordinamento della casa di Dio, che è diventata una casa di uomini più che una casa di Dio, per la bellezza veramente divina dei canti latini, soppressi e non ancora sostituiti da melodie equivalenti. Tuttavia, da queste constatazioni dobbiamo concludere che bisognava conservare tutte queste cose senza mutamento? Con misura e prudenza il Concilio ha risposto negativamente. Qualche cosa era da ritoccare e da riscoprire. La Madonna veglia sul magistero e sull'autorità nella sua Chiesa cattolica e romana.
SUGGERIMENTI PER L'AVVENIRE
Nonostante una certa confusione di idee nell'ora presente, si possono discernere i chiarori della nuova aurora che il Concilio farà sorgere sul mondo? Fra qualche anno sarà indubbiamente più facile scoprire tali prospettive. Ma non è auspicabile che coloro che hanno vissuto la vita del Concilio si sforzino, in perfetta sottomissione al successore di Pietro, di determinarle al fine di suscitare le iniziative vere e generose scaturite dalla più pura tradizione della Chiesa, nascenti veramente dallo Spirito di Dio sempre vivo nella sua Sposa? È chiaro che la prima parte della Messa, destinata a istruire i fedeli e a far loro esprimere la loro fede, aveva bisogno di raggiungere questi fini in maniera più netta e in certa misura più intelligibile. A tale scopo, secondo il mio umile parere, sembrerebbe utile ritoccare in primo luogo i riti di questa prima parte e introdurre qualche traduzione in lingua parlata. Fare in modo che il sacerdote si accosti ai fedeli, comunichi con loro, preghi e canti con loro, si tenga pertanto all'ambone, legga nella loro lingua l'Epistola e il Vangelo; che il sacerdote canti con i fedeli il Kyrie, il Gloria e il Credo nelle divine melodie tradizionali. Tutte riforme felici che restituiscono a questa parte della Messa il suo vero scopo. L'ordinamento di questa parte istruttiva si faccia anzitutto in funzione della Messa cantata della domenica, in modo che questa Messa sia il modello al quale adeguare i riti di altre Messe: ecco altrettanti aspetti di rinnovamento che appaiono eccellenti. Aggiungiamo soprattutto le direttive necessarie a una predicazione vera, semplice, toccante, forte nella sua fede e determinante nelle risoluzioni. Questo è uno dei punti più importanti da ottenere nel rinnovamento liturgico di questa parte della Messa. Per i sacramenti e i sacramentali, l'uso della lingua dei fedeli nelle parti didattiche ed esortative può essere utile, visto che li riguardano più direttamente e più personalmente, ma non così per gli esorcismi, preghiere e benedizioni. Ma gli argomenti in favore della conservazione del latino nelle parti della Messa che si svolgono all'altare sono tali da poter sperare che in un giorno prossimo saranno posti limiti all'invasione della lingua parlata in questo tesoro di unità, di universalità, in questo mistero che nessuna lingua umana può esprimere e descrivere. Quanto dobbiamo augurarci che l'anima dei fedeli si unisca spiritualmente, personalmente, a Nostro Signore presente nell'Eucarestia e al suo divino Spirito, così che sia assolutamente proscritto tutto ciò che può nuocere a questo scopo, come un'esagerazione di preghiere vocali e di riti, una diminuzione di rispetto per l'Eucarestia, una volgarità sconveniente ai misteri divini! Una riforma in questo campo non può essere buona se non assicura in modo più che certo i fini essenziali dei misteri divini stabiliti da Nostro Signore e trasmessi dalla Tradizione.
LA COSTITUZIONE DELLA CHIESA
Ma ecco un argomento forse più delicato a trattarsi e che sembra tuttavia procedere gradualmente verso forme più precise: è il problema che è stato occasione del dibattito sulla collegialità. Viviamo in un'epoca di proliferazione estrema dei mezzi di comunicazione sociale. In sé, tale moltiplicazione potrebbe, e dovrebbe, avere effetti eccellenti. Pare dunque normale che la comunicazione dei pensieri, lo scambio delle idee, siano più frequenti, più ricchi. Ora, secondo il trattato sulla prudenza di san Tommaso, l'autorità, il capo, prima di esprimere un giudizio, di prendere una decisione, deve, nella sua saggezza, consigliarsi con persone che giudica idonee a consigliarlo. Oggi pare quindi normale, grazie a queste possibilità, consigliarsi con persone adatte ma che non si potevano facilmente raggiungere solo qualche decennio fa, e che il capo della Chiesa universale, il Papa, si circondi di consiglieri che in altri tempi non poteva avere. Che questa possibilità, di cui solo il capo è giudice, porti talune modificazioni nella Curia romana, vale a dire in quell'organismo che forma il consiglio abituale del Santo Padre e al quale egli affida una parte della sua responsabilità, è possibile e verosimile. Ma il prendere pretesto da questa occasione per far dire ai padri conciliari che hanno un diritto di governo con il Papa, fu un'impresa insensata. È inconcepibile mutare ciò che esiste da quando la volontà di Nostro Signore si è espressa chiaramente e a cui la Tradizione ispirata ha dato realtà pratica: quel governo che ha d'altronde dato prova della sua origine divina con la sua stabilità e, in definitiva, con il suo perfetto adattamento a tutti i tempi. Non si cambierà mai il fatto che il Papa e lui solo ha, come vicario di Gesù Cristo, un potere che si estende alla Chiesa universale. Ma questo non ha mai impedito ai Papi di adattare i loro organismi alle necessità del tempo. E questo rimane il campo proprio del successore di Pietro. Nemmeno come padri conciliari i vescovi possono avanzare altro che suggerimenti rispettosi e discreti. Tuttavia questo dibattuto problema del governo della Chiesa universale ha ripercussioni gravi in un campo che tocca da vicino i vescovi e il loro potere nelle loro diocesi. Anche qui sono probabili direttive nuove; ma è proprio necessario intaccare quanto vi è di più bello, di più sacro, di più efficace nella Chiesa dopo il potere pastorale del Papa, vale a dire il potere pastorale e paterno del vescovo, assorbendolo in un potere collettivo? In questi due poteri risiede tutto il vigore dell'apostolato della Chiesa. Appunto grazie a questi due poteri disposti gerarchicamente per quanto riguarda la giurisdizione, ma molto ben ripartiti e che danno un'autorità considerevole ai vescovi nelle diocesi, la Chiesa è un'organizzazione di apostolato notevolmente viva, agile, che si adatta ai luoghi e alle popolazioni con una saggezza e una vitalità che non esistono in alcun governo del mondo. Così questo potere è, e non può essere, che intangibile. Qualsiasi restrizione che non venisse direttamente dal Papa sarebbe profondamente nociva all'apostolato e paralizzerebbe lo zelo e l'iniziativa episcopali, che sono la virtù dell'apostolato stesso. Tuttavia, certe condizioni sociali attuali richiedono senza alcun dubbio che i vescovi di una regione o di una nazione o di parecchie nazioni si incontrino, scambino le loro preoccupazioni in funzione di certe difficoltà che possono essere similari, instaurino insieme determinati servizi di informazione, di stampa e persino di apostolato, ma tutto questo a condizioni estremamente precise, soprattutto per ciò che riguarda direttamente l'apostolato. Parrebbe potersi dire: anzitutto che è pericoloso creare organi direttivi, ma che è utile sviluppare servizi ai quali i vescovi possano rivolgersi; e inoltre che è desiderabile che si possa raggiungere una certa unanimità su alcuni problemi importanti come quello dell'insegnamento, per esempio, purché tutti i vescovi rimangano liberi e giudici dell'applicazioni di tali misure nelle rispettive diocesi, a meno che la questione non sia sottoposta alla Santa Sede che giudicherà ciò che va fatto. È inconcepibile che una maggioranza si imponga a una minoranza attraverso il semplice gioco dei voti. Sarebbe la fine dell'autorità episcopale. È di primaria importanza che il vescovo sia considerato nella sua diocesi come il solo responsabile dell'apostolato dopo e alle dipendenze del Papa. Ogni autorità intermedia sarebbe intollerabile e rovinerebbe qualsiasi iniziativa episcopale. Sarebbe manifestamente contraria a tutta la storia della Chiesa. Tuttavia chi negherà che incontri episcopali fraterni, che taluni servizi comuni possano essere utili e benèfici? Si pensi al Secours Catholique, a Misereor, alle Pontificie Opere Missionarie, alla Mutuelle sacerdotale. Quanti servizi si possono rendere attraverso queste associazioni! Ma qualsiasi organizzazione che abbia una ripercussione sull'apostolato può essere solo un servizio e non una direzione. Nella sua diocesi il vescovo deve rimanere interamente libero, se non vuol essere soltanto un funzionario e, diciamolo, un minorenne. Tanto sono incoraggianti e feconde le assemblee condotte secondo le norme ammesse fin qui dalla Santa Sede, altrettanto diverrebbero soffocanti e intollerabili, perché contrarie alla natura stessa del potere episcopale, se si ispirassero al principio di una continua limitazione del potere personale del vescovo. Sembra così giusto richiamare qui tutto ciò che può significare per il governo episcopale una felice applicazione di quel che suggerisce il diritto canonico: i sinodi, le conferenze sacerdotali, i consultori diocesani. Quanti felici scambi possono esservi tra il vescovo e i sacerdoti suoi consiglieri, responsabili dell'apostolato immediato. Ciò che importa è il rispetto dell'autorità episcopale che decide in ultima istanza; i suggerimenti saranno tanto più franchi e fraterni quanto più grande sarà il rispetto del vescovo. Beato quel vescovo che vive fraternamente con i suoi sacerdoti, li ama, li comprende, li visita personalmente, li incoraggia, li edifica. Tutto si può sperare da una diocesi nella quale i sacerdoti sono veramente i cooperatori del vescovo e in cui ciascun sacerdote adempie la funzione che gli è assegnata guardandosi bene dal distruggere l'autorità degli altri e in particolare quella del parroco, pastore direttamente responsabile delle anime che gli sono affidate. Quando i poteri sono bene ordinati fra i parroci, i sacerdoti incaricati dell'azione cattolica, i cappellani delle scuole, sotto l'occhio paterno del vescovo, i risultati possono essere mirabili. Solo il vescovo della diocesi può creare quest'ordine e conferirgli vita ed efficacia. Se l'organizzazione viene imposta alla diocesi dall'esterno, prescindendo dall'autorità personale del vescovo del luogo, si introduce nella diocesi stessa il disordine. Lo stesso accade per la parrocchia quando il parroco ignora quel che vi si fa e che riguarda il suo apostolato. «Omnia in ordine fiant»! Numerosi sono i problemi studiati dal Concilio, ma ve ne sono taluni di cui è difficile determinare le conclusioni, dato che i testi non sono ancora definitivi: in particolare, quelli che riguardano il magistero, la libertà religiosa, le missioni, lo schema sulla Chiesa nel mondo, la Rivelazione, le scuole, i seminari… Si può tuttavia sperare in verità che il Concilio porterà frutti abbondanti, tanto attraverso il fermo mantenimento delle verità tradizionali quanto attraverso le nuove prospettive che permette di intravedere. In definitiva, gli sforzi per ottenere un falso «aggiornamento» avranno contribuito a definire esattamente quello vero, quale la Chiesa lo desidera. Perseveriamo quindi nella preghiera con Maria e gli Apostoli perché lo Spirito di Nostro Signore scenda sovrabbondante nelle anime di tutti i pastori e di tutti i fedeli. Festa della Pentecoste, 6 giugno 1965
Marcel Lefèbvre
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