Presentiamo qui la prima traduzione italiana di un testo apocalittico, risalente forse al VII secolo, pervenutaci in latino (probabilmente da un originale
greco), opera di un autore che si appoggia all'autorità di sant’Ephraem di Nisibi o di Edessa, noto padre orientale del IV secolo, famoso per i suoi Inni che gli valsero il soprannome di “arpa dello Spirito Santo”. Si tratta di un discorso che è sintomatico di una mentalità diffusa tra le é l i t e s cristiane altomedievali e che, nella sua brevità e semplicità, ci pare significativo in quanto riassume e condensa in poche pagine e con una
certa sobrietà molteplici tradizioni patristiche relative ai tempi ultimi. Le note — che vogliono esclusivamente introdurre a dette tradizioni senza alcuna pretesa di esaustività filologica anzi
senza propriamente volersi sostituire al lavoro proprio dei filologi sull’inquadramento storico dello scritto — faranno emergere anche i temi che secondo noi sono maggiormente degni di nota
(il katéchon; l’Anticristo “buono” etc.). Nel redigere il piccolo apparato di commento al testo sono risultati di grande aiuto i testi
curati da Fausto Sbaffoni (Testi sull’anticristo, 2 voll., Nardini, Firenze 1992) e da Gianluca Podestà e Marco Rizzi (L’Anticristo, il nemico dei tempi finali, vol. I, Mondadori-Fondazione Lorenzo Valla, Milano 2005) che segnalo a chiunque voglia approfondire l’argomento.
Cap. 1
Fratelli carissimi, credete allo Spirito Santo che parla in noi. Già prima abbiamo detto che la fine del mondo è molto vicina e il
compimento si approssima. Forse che la fede originaria non è venuta meno negli uomini? Quanto se ne vedono gli effetti nei fanciulli ... le azioni infamanti nei capi, le azioni ingannatrici nei sacerdoti, gli spergiuri
nei leviti, i malefìcii dei ministri, le passioni adultere nei vecchi, gli istinti lussuriosi nei giovani, lo sguardo menzognero nelle donne, le passioni lascive nelle giovani. E in mezzo tutte queste cose vi sono le
guerre dei Persiani, e il minacciare incombente di popoli diversi e l’insorgere di regno contro regno (Mt 24,7); e quando comincerà la distruzione militare dell’impero dei Romani, sarà imminente l’avvento
del male. Infatti nel compiersi del declino dell’impero romano è necessario che finisca questo mondo (1). In quei giorni saliranno al potere due fratelli (2), comanderanno senza dubbio con un solo proposito, ma
poiché uno prevaricherà l’altro, ci sarà dissidio fra loro. E così sarà liberato l’Avversario e inciterà l’odio tra il regno dei Persiani e quello dei Romani (3).
In quei giorni in molti si leveranno insieme contro l’impero romano, e suo avversario sarà il regno dei Giudei. Vi saranno movimenti di popoli e circoleranno storie malvagie e vi saranno pestilenze, carestie,
terremoti in vari luoghi (Mt 24,7) e saranno fatti dei prigionieri in tutte le popolazioni (Lc 21,24), vi saranno guerre e rumori di guerra (Mt 24, 6-8) molte cose distruggerà la spada da un confine all’altro
della terra. E ci saranno tempi troppo pericolosi che non consentiranno alla mente di pensare a cose migliori per la paura e il disordine, quando si avvicineranno le molte afflizioni e desolazioni delle terre.
Cap.2
Dobbiamo pertanto, fratelli miei, comprendere che cosa si avvicina e incombe. Già si sono abbattute carestie e pestilenze, migrazioni di popoli,
e sono ormai compiuti i segni che erano stati predetti dal Signore, e non resta altro se non il sopraggiungere del male alla fine dell’impero romano. Perché dunque ci occupiamo di affari terreni e la nostra mente
è tutta intenta alle concupiscenze del mondo e alle preoccupazioni profane? Perché dunque non allontaniamo da noi tutte le preoccupazioni per le attività terrene e non prepariamo noi stessi all’incontro
con Cristo Signore affinché ci salvi dalla confusione che opprime il mondo intero? Credetemi, fratelli carissimi, perché la venuta del Signore è vicina, credetemi, perché la fine del mondo è
prossima, credetemi, perché i tempi sono gli ultimi. Oppure se non vedete con i vostri occhi non crederete (Gv 20, 25-27)? Badate che non si compia in voi la sentenza del profeta che dice: “Guai a quelli che desiderano
vedere il giorno del Signore”(Am 5,18) (4). Infatti tutti i santi e gli eletti di Dio, prima della tribolazione che verrà, si riuniranno e saranno accolti dal Signore affinché quando verrà affinché
non vedano la confusione che distruggerà il mondo intero a causa dei nostri peccati (5). E così, fratelli a me carissimi, è giunta l’ora undicesima (Mt 20, 1-16) e la fine di questo mondo verrà
per la mietitura, e gli angeli attrezzati e pronti, terranno le falci in mano, aspettando il comando del Signore. E noi per cieca infedeltà al mattino riteniamo che esiste un mondo che arriva alla sera. Si genereranno
agitazioni, incomberanno guerre fra genti diverse, battaglie e incursioni di barbari, le nostre terre si spopoleranno e noi saremo molto spaventati di non aver ascoltato e di non aver fatto penitenza in ogni modo: anche a
noi incuteranno timore, e neppure a tal punto vorremo essere convertiti, quando avremo particolarmente bisogno di penitenza per i nostri misfatti!
Cap. 3
Quando allora si avvicinerà la fine del mondo scoppieranno numerose guerre, ovunque agitazioni, orribili terremoti, sommovimenti di popoli,
tempeste in ogni dove, pestilenze, carestie, sete lungo i cammini, enormi pericoli per mare e per terra, frequenti persecuzioni, uccisioni e massacri ovunque, timore nelle case, paura nelle città, terrore durante i
viaggi, sospetti ad andar per mare, preoccupazioni nelle piazze. Nel deserto gli uomini diverranno insensibili, nelle città le anime si struggeranno. L’amico non si preoccuperà dell’amico, il fratello
per il fratello, i genitori per i figli, il servo fedele per il suo signore, ma una sola necessità occuperà tutti quanti e non potrà essere trovato in quel tempo alcuno che non sia tutto rivolto al pericolo,
ma tutti, costretti dalla paura, si logoreranno per il male incombente.
Cap. 4
E quando la terra sarà scossa da popoli bellicosi, gli uomini si nasconderanno sui monti e tra le rocce, in spelonche e caverne della terra,
in sepolcri e monumenti funebri, e lì, consumati dal terrore, spireranno perché non ci sarà ove fuggire ma sarà ovunque scompiglio e afflizione insopportabili (6). Chi è in Oriente fuggirà
in Occidente, chi invece in Occidente fuggirà in Oriente, e non vi sarà luogo abbastanza sicuro poiché il mondo sarà ricoperto da genti assai dissolute, il cui aspetto sembrerà essere più
quello di bestie che di uomini. Infatti quelle genti straordinariamente terribili, nemicissime di Dio e impure, che non rispettano né i vivi né i morti (spaventano i vivi e divorano i morti), mangeranno carne
di cadaveri, berranno il sangue delle giumente, profaneranno la terra, contamineranno tutte le cose e non vi sarà chi potrà resistere (7). In quei giorni non saranno seppelliti gli uomini, né cristiani
né eretici, né Giudei né pagani, perché, per paura e timore, non ci sarà chi li seppellirà; infatti, tutti intenti a mettere in salvo se stessi, li ignoreranno.
Cap. 5
E quando saranno compiuti i giorni dei tempi di quelle genti, dopo che avranno devastato la terra, si avrà una tregua; il regno dei romani
sarà ormai tolto di mezzo (8), e l’impero dei cristiani sarà consegnato a Dio e al Padre (9); e allora verrà la fine, quando verrà soppresso il regno dei Romani e saranno distrutti tutti i
principati e le potestà. Allora apparirà quel nefandissimo e abominevole serpente, quello stesso che Mosè indicò nel Deuteronomio dicendo: “Dan è un leoncello che si accuccia e si slancia
da Basan” (Dt 33,22). Infatti si accuccia per ghermire, distruggere e uccidere. Un giovane leone, in verità, non come il leone della tribù di Giuda, ma ruggente per l’ira e per divorare (10). Viceversa
da Basan si slancia in avanti. Basan certo va interpretato come confusione. Egli emerge dalla confusione della sua iniquità. E questi come una pernice, raccoglierà a sé i figli della confusione, e accrescerà
la sua azione, e chiamerà quelli che non ha generato, così come dice il profeta Geremia. Sebbene essi nell’ultimo giorno lo abbandoneranno lasciandolo confuso.
Cap. 6
Dunque, quando sarà venuta la fine del mondo, quel bugiardo e assassino nascerà della tribù di Dan. Sarà concepito dal
seme di un uomo e di una vergine immonda e turpissima, seme misto a uno spirito malvagio e assai iniquo. Ma quello scellerato, seduttore più di anime che di corpi, da giovane, prima di prendere il potere, sembrerà,
subdolo serpente, dimorare sotto un’aura di giustizia. Scaltramente sarà mite con tutti, dal momento che non accetterà doni, non farà preferenza per alcuno, sarà amabile con tutti, pacifico
verso tutti quanti, non chiederà regali, apparendo cortese verso i vicini, al punto che gli uomini lo magnificheranno dicendo: “Questo è un uomo giusto”, non sapendo che in lui si sarebbe nascosto
un lupo sotto le sembianze di un agnello e un uccello rapace dentro la pelle di una pecora (11).
Cap. 7
Ma quando inizierà ad avvicinarsi il tempo del suo abominio e della sua desolazione, reso legittimo, assumerà il potere e, come si
dice nel salmo: “Sono venuti in aiuto ai figli di Loth” (Sal 82,9), a lui accorreranno per primi i Moabiti e gli Ammoniti (12) quasi come al loro re. Quindi quando avrà preso il regno, ordinerà loro
di riedificare il tempio di Dio che è in Gerusalemme; e questi, una volta entrato lì, vi si sederà come Dio e ordinerà di essere adorato da tutte le genti pur essendo carnale e immondo e un impasto
di spirito iniquo e carne. Allora si adempirà quella parola del profeta Daniele che dice: “Egli non si darà alcun pensiero del dio dei padri suoi, né conoscerà i desideri del dio amato delle
donne” (Dan 11,37). Infatti egli, serpente tutto iniquo, rivolgerà a sé ogni culto. Inoltre proporrà un editto perché gli uomini siano circoncisi secondo il rito dell’antica legge. Allora
si congratuleranno con lui i Giudei, giacché da lui sarà restituita loro la consuetudine dell’Antico Testamento; allora tutti da ogni parte accorreranno a lui nella città di Gerusalemme e la città
santa sarà calpestata dai popoli per 42 mesi, come dice il Santo Apostolo nell’Apocalisse, i quali saranno tre anni e mezzo, cioè 1.260 giorni (13).
Cap. 8
In questi tre anni e mezzo il cielo tratterrà le sue gocce; infatti non vi sarà pioggia sulla terra e le nubi cesseranno di solcare
il cielo e le stelle difficilmente saranno viste in cielo prima della straordinaria siccità, che accadrà nel tempo del ferocissimo serpente. Si prosciugheranno infatti tutti i grandi fiumi e le fonti d’acqua
più importanti che zampillano da sé, i torrenti lasceranno inaridire le loro vene d’acqua a causa di un calore intollerabile, e ci saranno grandi tribolazioni di entità tale quale non vi fu da quando
gli uomini cominciarono ad abitare la terra, e vi saranno fame e sete insopportabili. I figli verranno meno nel seno delle loro madri e le mogli sopra le ginocchia dei loro uomini, non avendo cibo da consumare. Infatti in
quei giorni ci sarà penuria di pane e di acqua e nessuno potrà vendere o comprare il frumento del tempo della caducità, se non colui che porterà in mano o in fronte il sigillo del serpente (14).
Allora nelle piazze giaceranno in rovina oro e argento, indumenti preziosi e pietre di grande valore e ogni genere di perla per le strade e i vicoli delle città e non vi sarà chi allungherà la mano e prenderà
o desidererà prendere ma ogni cosa sarà considerata un nulla per la straordinaria siccità e della mancanza di pane, perché la terra non sarà alimentata dalle piogge del cielo, né vi
sarà più sulla terra rugiada né umidità di venti. Ma quelli, che vagheranno per i deserti, fuggendo dall’immagine del serpente, piegheranno le loro ginocchia a Dio, a quello stesso modo che
è degli agnelli al seno delle madri, camminando nella salvezza di Dio, errando per luoghi deserti, mangeranno erba.
Cap. 9
Allora, quando questa necessità avrà costretto tutti, giusti e empi, i giusti per essere giudicati dal loro Signore, al contrario gli
empi per essere dannati in eterno con il loro diavolo istigatore, Dio vedendo il genere umano in pericolo e sconvolto dal soffio dell’orribile dragone, manderà loro una predicazione di conforto attraverso i suoi
sacerdoti, i profeti Enoch ed Elia (15), i quali, non assaporando ancora la morte, saranno stati preservati per proclamare la seconda venuta di Cristo e accusare il nemico.
NOTE
(1) Qui vi è un accenno esplicito al tema, molto diffuso nella letteratura patristica, dell’impero romano come katéchon, cioè come quella forza al tempo stesso personale e impersonale che viene evocata da san Paolo (2 Tess 2, 6-8) quale soggetto che trattiene (katéchein) la manifestazione dell’Anticristo e dunque il precipitare degli eventi verso la fine escatologica di questo mondo: “Non ricordate quando ero ancora tra
voi e venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce [tò katéchon] la sua manifestazione [dell’Anticristo, ndr.] che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora
lo trattiene [o katéchon]. Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca...”.
Tra gli autori che hanno proposto l’identificazione di questa misteriosa figura (di cui Agostino ammetteva la sostanziale impossibilità di una spiegazione certa e incontrovertibile) con l’impero e/o l’imperatore
si annoverano Tertulliano (Apologeticum, XXXII e XXXIX), Lattanzio (Divinae Institutiones VII, 15), Gerolamo (Ad Algasiam, 11,9 ss.) Giovanni Crisostomo (In II epistolam ad Thessalonicenses homilia IV ). Tale visione dell’impero convive in epoca patristica con quella che vede nello stesso impero una forza anticristica, sulla base soprattutto di Daniele e dell’Apocalisse. Nel medioevo romano-germanico
i ruoli si chiarificheranno: Roma-katéchon avrà una connotazione esclusivamente positiva e l’Anticristo assumerà di volta in volta
le sembianze dell’eretico, del giudeo, del pagano, del nemico di turno della Chiesa cattolica. Per una rassegna delle interpretazioni antiche, medievali e moderne delle pericope paolina mi permetto di rinviare a M. Maraviglia, La penultima guerra. Il concetto di katéchon nella dottrina dell’ordine politico di Carl Schmitt, Università degli Studi di Milano, 2002-2003, pp. 138-179. La questione del katéchon è stata ripresa nella nostra contemporaneità ed è uscita dal ristretto ambito degli studi biblici e patristici, diventando il concetto di “forza che trattiene” una categoria
importante della filosofia politica e della storia (cfr., per esempio, oltre al citato C. Schmitt, M. Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990, pp. 621-638).
(2) Singolare questa citazione di due fratelli, dai quali sarebbe emerso l’Avversario. Forse per simmetria con la nascita di Roma e con il mito di
Romolo e Remo, l’Autore vuole porre alla fine dell’arco storico della città imperiale due fratelli in dissidio tra loro. Commodiano (Carmen, 805-985) riporta la vicenda di una coppia di Anticristi, formata da Nerone redivivo e da un condottiero orientale parimenti in lotta fra loro, e dai quali emerge vittorioso
l’Anticristo venuto da Oriente alla testa di Medi, Persiani, Caldei e Babilonesi. Non si può tuttavia porre una relazione tra il nostro testo e il poema commodianeo se non a livello di pura suggestione. Non è
stato peraltro possibile esaminare i trattati escatologici di sant'Ephraem di Edessa che forse in questo e in altri casi sarebbero stati d'aiuto.
(3) Questa fase del racconto è un po’ confusa. Prima il regno dei Persiani è incitato all’odio per i Romani da uno dei fratelli
(forse è ancora ravvisabile una suggestione commodianea, laddove nel Carmen, 910-926, il secondo Anticristo muove guerra a Roma e la distrugge), poi sono i Giudei ad essere, fra i molti nemici dell’impero, l’avversario principale di quest’ultimo. Probabilmente la citazione
dei Persiani e l’allusione ad un loro ruolo nei tempi escatologici hanno a che fare con i grandi problemi che nel terzo secolo questo popolo guidato da re Sapor I diede ai Romani, giungendo fino a prendere prigioniero
l’imperatore Valeriano e a rappresentare la maggiore minaccia per la compagine imperiale. Il diacono Ephraem, con cui il nostro autore si identifica e del quale probabilmente conosce alcuni scritti, nel secolo IV conobbe
da vicino le lotte tra i Romani e gli eserciti persiani di Sapor II per la conquista di Nisibi, sua città natia, le vicende della quale sono riportate nei suoi Carmina nisibena. Nella leggenda del Nero redivivus (che ha origini pagane: Tacito, Historiae I,2; Svetonio, Nero, 40-47, ma che è stata poi variamente ripresa, attraverso gli Oracula sibyllina VIII 139-159, dai Padri, tra cui Cirillo di Gerusalemme, Vittorino di Pettau, In Apocalypsim, 17, 9-16; Commodiano, Carmen, 825 ss.; Instructiones I, 41,7 e Lattanzio) secondo la quale, come si è visto nella nota precedente, l’imperatore Nerone sarebbe
ricomparso alla fine del mondo nelle vesti dell’Anticristo stesso, i Persiani hanno un ruolo specifico: o sono coloro presso quali l’imperatore malvagio sarebbe stato ospitato prima di ricomparire fra i vivi, oppure,
come in Commodiano, sono gli avversari crudeli e potenti del primo Anticristo, Nerone, il quale sarà appunto soppiantato dal loro condottiero, che si proclamerà immortale e si proporrà agli stessi Giudei
come Messia, tendendo loro una trappola mortale. La menzione dei Persiani ha anche una funzione importante per la datazione del testo (cfr. infra, nota 5).
(4) Nel testo biblico si allude ai peccatori per il quale la giustizia divina comporterà l’allontanamento definitivo da Dio: “Guai a
coloro che attendono il giorno del Signore. Che sarà per voi il giorno del Signore? Sarà tenebre e non luce” (Am 5, 18). Il “voi”, qui sottointeso, si riferisce in Amos al popolo di Israele
che insiste nel suo peccato. Così il significato della citazione risulta intelligibile, dato che in generale l’attesa del giorno del Signore rappresenta una delle basi fondamentali della fede prima giudaica e
poi cristiana e riguarda normalmente un evento fausto, anzi, di più, l’ingresso nell’assoluta beatitudine del Regno.
(5) V’è qui uno strano prologo in cielo delle vicende escatologiche in cui, alimentando un dibattito a noi abbastanza estraneo, alcuni autori
americani hanno voluto vedere la testimonianza di una sorta di pre-tribulational rapture dei cristiani, affinché non restino partecipi delle vicende più dolorose dei tempi penultimi (cfr. Grant R. Jeffrey, Final Warning, Frontier Research Publications, Toronto 1995; Timothy Demy e Thomas Ice, The Rapture and an Early Medieval Citation, “Bibliotheca Sacra” 152 (1995), pp. 300-311; Grant R. Jeffrey, A Pretribulational Rapture Statement in the Early Medieval Church, in Thomas Ice e TimothyDemy (eds.), When the Trumpet Sounds: Today’s Foremost Authorities Speak Out on End-Time Controversies, Harvest House, Eugene (Or) 1995; Tim Warner, Pseudo-Pseudo Ephraem. Grant Jeffry II, The Sequel, 2001, www.lasttrumpet.com: quest’ultimo articolo contiene anche la traduzione integrale in inglese del nostro
testo). L’idea mi sembra un po’ complicata e contraddice le numerosissime e sostanzialmente universali (cioè ravvisabili in tutte le aree geo-culturali e in tutte le epoche della cristianità) paure
dei fedeli riguardo alle immagini cupe che descrivono, nella letteratura biblica e presso i più autorevoli padri della Chiesa, i tempi immediatamente precedenti la parusia di Cristo (paure che seguendo l’interpretazione pre-tribulational non avrebbero ragione di essere). Il nostro testo, peraltro, afferma, da un lato, che nel tempo della desolazione sia i cristiani, sia i pagani o gli
eretici non saranno seppelliti, e così dà per scontato che anche i cristiani vivranno e morranno durante questo periodo. Dall’altro lato sostiene che alla fine sia i giusti sia gli ingiusti “saranno
costretti” a subire le angustie dei tempi penultimi, prima che il Signore salvi gli uni e danni gli altri. Tenendo conto anche solo di questi due elementi narrativi (tra gli altri che si possono intravvedere) si può
escludere con buona sicurezza questa sorta di scorciatoia dei credenti verso la salvezza, che eviterebbe loro di vivere la tribolazione. In ambito anglosassone si è occupato dello Ps. Ephraem anche P-J. Alexander, The Byzantine Apocalyptic Tradition, University of California Press, Berkeley 1985.
(6) Questo passo corrisponde ad uno dello Pseudo-Metodio, Sermo de Regnum cantium et in novissimis temporibus certa demonstratio, 13, in E. Sackur, Sibillinische Texte und Forschungen, Max Niemeyer, Halle 1898, pp. 91-92: «Tunc reserabuntur portae aquilonis et egredientur virtutes gentium illarum, quas conclusis intus Alexander et concutietur omnis terra a conspectu eorum et expaviscent homines et fugientes conterriti abscondent
se in montibus et speluncis et in monumentis et mortificabuntur a timore et corrumpentur prae pavore quamplurimi et non erit qui corpora sepeliat». Stabilire quale sia il rapporto tra il nostro testo e lo Ps. Metodio è questione complessa da lasciare ai filologi. Io rilevo soltanto che il Sackur (ivi, p. 93 n. 3 e p. 95 n. 2 in cui usa il verbo schöpfen=attingere) sostiene che lo Ps. Ephraem abbia attinto in diversi punti allo Ps. Metodio, e ciò implicherebbe una datazione del primo posteriore
al secondo, quindi verso la fine del sec. VII o l’inizio dell’VIII (lo Ps. Metodio è datato nella seconda metà del sec. VII). Al contrario
il primo editore del Sermo de fine mundi, Carl Paul Caspari, Briefe, Abhandlungen und Predigten, Malling, Christania 1890, sostiene che l’originale greco del testo sia stato abbozzato tra il 565 e il 628, cioè anteriormente alla vittoria definitiva dell’imperatore Eraclio sui Persiani guidati da Cosroe II e Kawad e alle invasioni arabe (le prime avrebbero reso poco plausibile la citazione dei Persiani come nemici dei tempi finali, mentre le seconde — con le loro conseguenze catastrofiche per il cristianesimo orientale — difficilmente sarebbero potute passare sotto silenzio) e di conseguenza anche allo scritto dello Ps. Metodio. In ciò sostanzialmente concorda l’Alexander (op. cit., p. 145), che ritiene comunque inaccettabile una datazione posteriore all’avvento dell'Islam.. Bousset (Der Antichrist in der Überlieferung des Jundentums, des Neuen Testaments und der Alten Kirche, Göttingen 1895) ritiene invece che il Sermo sia databile attorno al 375, con argomenti che, secondo quanto afferma il Migne stesso, sono “aliquo modo flaccidis” (PL supplementum, IV, col. 606). La datazione del codice Barberinus 671 (XIV, 44) da cui è stato tratto il testo (presente anche in un più tardo codice Sangallensis 108), è indubbiamente collocata da Wilmart nel sec. VIII (che concorda su questo argomento con Caspari e con Migne). Questi afferma anche di conoscerne un altro manoscritto antico: Paris. BN 13348. s. VIII, f. 89r-93v: cfr. D.A. Wilmart, Le discours de saint Basile sur l’ascèse en latin, “Revue Bénédectine” XXVII (1910), pp. 226-233, qui pp. 226-227.
(7) Chi sono questi “popoli bellicosi” e “genti dissolute”? L’ipotesi che l’Autore si riferisca alla tradizione biblica
di Gog e Magog mi è confermata dal confronto con lo Ps. Metodio che tra i popoli “immondi e dall’aspetto orribile” (Sermo cit., 8, p. 72) “rinchiusi da Alessandro” (cfr. citaz dello Ps. Metodio nella nota precedente) e di nuovo liberi di compiere le loro malefatte negli ultimi
tempi, include le genti di Gog e Magog (ivi, 74) secondo ciò cui allude appunto il testo del Sermo citato nella nota precedente. Questa tradizione ha inizio con Ezechiele (38,2 ss.) che indica nelle genti capeggiate da Gog nella regione di Magog (un coacervo di popoli
tenuti assieme dalla ferocia e dalla volontà di conquista) i più pericolosi nemici della teocrazia d’Israele; essi, dice Jahwe, nella profezia saliranno “contro il mio popolo Israele come nube che
copre la regione” (Ez, 38-16) ma Dio interverrà in soccorso del suo popolo, ne abbatterà le schiere e darà in pasto i soldati nemici agli uccelli rapaci (cfr. Ez, 39,1-5). Il tema sarà ripreso
in Ap 20, 7-10 — in cui le genti di Magog guidate da Gog diventeranno le nazioni di “Gog e Magog” — e di qui verrà la sua rilevanza escatologica.
(8) Riferimento letterale a 2 Tess 2, 6, laddove si parla del katéchon che deve essere “tolto di mezzo” (ek mésou gènetai) prima della manifestazione del “mistero dell’iniquità” (cfr. nota 1).
(9) Come in Paolo [1 Cor 15,24] Cristo “rimetterà il regno a Dio, il Padre, dopo aver distrutto ogni principato e ogni dominazione e potenza”,
così l’imperatore, in una situazione ben diversa, cioè consapevole della sconfitta delle forze umane di fronte alla preponderanza degli eserciti del male, riconsegnerà il suo regno mondano, che fino
ad allora aveva avuto un fondamentale ruolo katéchontico, a Dio e al Padre, aspettando solo la finale parusia del Cristo che, solo, può distruggere
l’iniquità dilagante. Tale episodio è riportato con maggiore dovizia di particolari dallo Ps. Metodio: «Et cum apparuerit filius perditionis, ascendit rex Romanorum sursum in Golgotha, in quo confixum est lignum sanctae crucis. In quo loco pro nobis Dominum mortem sustenuit, et tollit rex coronam de capite suo et
ponet eam super crucem, et expandit manus suas in caelum et tradit regnum christianorum Deo et patri» (ps. Metodio, Sermo, 14 cit., in E. Sakur, Sibillinische, cit., p. 93). A tale fonte attingerà in epoca altomedievale anche Adso di Montier en Der, Epistola ad Gerbergam reginam de ortu et tempore Antichristi, ivi, p. 110: «Et ipse erit maximum et omnium regum ultimus. Qui postquam regnum feliciter gubernaverit, ad ultimum Ierosolimam veniet et in monte Oliveti sceptrum et coronam suam deponet. Hic erit finis et consummatio Romanorum
christianorumque imperii».
(10) Ireneo di Lione (Adversus haereses 30.2) è il primo tenere conto di una tradizione del giudaismo che in base a Gdc 18, 30-31, 1 Re 12,29-30; Am 8.14 e altri testi apocrifi, considerava il cedimento della tribù di Dan all’idolatria
una sorta di marchio d’infamia. Questo sarebbe stato il motivo principale del fatto che in Ap 5,8 tale tribù non fosse contemplata tra le tribù di Israele e, conseguentemente, del ruolo negativo che tutta
l’apocalittica successiva avrebbe attribuito a Dan: cfr. Ippolito, Benedizioni di Giacomo, 22; Benedizioni di Mosé; Benedizione di Dan in PO 27, coll. 183-185; Gerolamo, In Danielem, XI; Ambrogio, De benedictionibus Patriarcharum; Agostino, Quaestio 22 in Josuè.
(11) In Ap 13,11 si dice che la seconda bestia “aveva due corna simili a quelle di un agnello, e parlava come un dragone”. Già qui è
delineata una caratteristica tipica dell’Anticristo che questo passo inquadra con grande lucidità: colui che agisce in nome di Satana tende a presentarsi come un agnello, ossia come Cristo, sebbene parli propriamente
come un dragone, ossia come un diavolo. Lo ps. Ephraem dà qui una magistrale descrizione di questa duplice veste dell’Anticristo e dell’inganno che vi è sotteso, descrizione che avrà successo
nel Novecento, dopo che Carl Schmitt — a sua volta indirizzato verso un tema simile dalla letteratura di Soloviev e Benson — ne avrà ripreso i termini nel suo commento al Nordlicht del poeta Theodor Daubler (cfr. Carl Schmitt, Aurora Boreale, trad. it . di V. Bazzicalupo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, p. 89). L’applicazione di questa tradizione all’umanitarismo ateistico dei nostri
tempi costituisce il naturale sbocco di una riflessione sulla secolarizzazione da un punto di vista cristiano, la quale ha buon gioco nell’individuare le conseguenze estremamente negative di un’ideologia politica
che, ponendosi sotto le insegne di una generica e universalistica bontà, persegue fini di potenza facilmente assimilabili a quanto il Cristianesimo e i suoi interpreti attribuiscono al progetto di dominio secolare dell’Anticristo.
(12) I Moabiti sono gli abitanti di Moab, a oriente del Mar Morto, il cui capostipite, secondo la Bibbia, nacque da un incesto di una figlia di Loth con
suo padre (Gen 29,37; me’ abha significa “dal padre mio”). Storicamente parlando, il popolo era di stirpe assai affine agli Ebrei e con
essi si trovò spesso in relazioni conflittuali. Dopo l’esilio babilonese non si hanno più notizie del popolo moabita, probabilmente distrutto e deportato da Nabucodonosor poco dopo la distruzione di Gerusalemme.
Gli Ammoniti invece erano stanziati ad est del corso inferiore del Giordano e nella parte settentrionale del Mar Morto. Secondo il racconto biblico essi derivarono da un incesto della figlia minore di Loth con il padre (Gen
29,38) – Ben-‘Amma significa “figlio del mio parente”. Noti per la loro crudeltà (Am 1,13), adoravano, come i Moabiti, il
dio Melek, e come questi ultimi ebbero notevoli e durevoli contrasti con il popolo ebraico. Di qui la cattiva fama biblica di entrambi, e il ruolo negativo attribuito loro dal nostro Autore nei tempi escatologici.
(13) Cfr. Dn 7, 25; 9, 27; 12,7; 12,11 e Ap 11,3 e 13,5. A partire da Daniele quella di 1.260 giorni o 42 mesi o tre anni e mezzo è divenuta una
costante che indica la durata “canonica” della persecuzione escatologica.
(14) Tradizione risalente ad Ap 13,16-17, ove si allude ad un marchio che la seconda Bestia — lo pseudoprofeta per antonomasia di cui l’idea
di un Anticristo personale è naturale esito — fa imprimere sulla fronte o sulla mano destra di tutti, marchio che rappresenta il “nome della fiera o il numero del suo nome”.
(15) Cfr. Enoc ed Elia sono i nomi che l’autore, seguendo una consolidata tradizione, attribuisce ai due testimoni del Signore di Ap 11, 3-13 mandati
predicare l’estrema resistenza all’Anticristo nei tempi ultimi: «Ma farò in modo che i miei due Testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni. Questi
sono i due olivi e le due lampade che stanno davanti al Signore della terra. Se qualcuno pensasse di far loro del male, uscirà dalla bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque
pensi di far loro del male. Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada la pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche il potere di cambiar l’acqua in sangue e di colpire la
terra con ogni sorta di flagelli tutte le volte che lo vorranno. E quando poi avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà
[...]. Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita procedente da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. Allora udirono un grido possente dal cielo: “Salite
quassù” e salirono al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici». L’identificazione di questi due testimoni con i profeti Enoc ed Elia si appoggia a testi molto autorevoli come per esempio
l’Apocalisse di Pietro, cap. 2; Ippolito, De Antichristo, 46-47, In Danielem, IV, 35; Tertulliano, De Resurrectione carnis, XXII, 2, 10, De anima, L, 4-5; Commodiano, Carmen 833 ss.: Elia, con allusione ad Enoc in 856 (in F. Sbaffoni, Testi sull’Anticristo, vol. I [secc. I-II], Nardini, Firenze 1992, pp. 200-201) e costituisce, direi, un topos della letteratura apocalittica di epoca patristica e medievale.
Ephraem latinus, DISCORSO SULLA FINE DEL MONDO (Sermo de fine mundi) [cfr. Migne PL 4 supplementum coll 608-613] Traduzione italiana di F. Cucchi e S. Lucchesi. Note a cura di Massimo Maraviglia