Caratteri dello spirito divino circa i movimenti o atti della volontà .
§. I.
93. Se tanto importa conoscere da qual principio prendano il loro nascimento le cognizioni della mente, se da Dio o dal demonio; molto più è necessario discernere da quale spirito procedano gli atti della volontà, in cui consiste ogni bene morale che adorna l'anima, ed ogni male morale che la deforma. Gli atti stessi dell'intelletto benché abbiano da sé stessi l'esser veri o l'esser falsi, l'essere però moralmente buoni o cattivi, lo desumono dalla volontà, in quanto in essi trasfonde o il balsamo della virtù o il veleno del vizio.
Per questa ragione dice egregiamente il cardinal Bona, che dobbiamo noi penetrare con sagace accorgimento nell'intimo dei cuori per indagarne ogni affetto, ogni moto più recondito; pesarlo sulle bilance del santuario, e con la dottrina di Cristo e dei suoi santi, quasi con pietra di paragone esaminarne le qualità buone o ree (Card. Bona De discret. spirit. cap. I, num. 4.). Proseguendo dunque l'ordine intrapreso, esporrò prima i caratteri che porta seco lo spirito di Dio circa i movimenti della volontà, e poi i caratteri diametralmente opposti con i quali procede io spirito diabolico: onde gli uni posti al paragone degli altri riescano più discernibili. E questi saranno la bilancia e la pietra di paragone che metterò in mano al lettore, per fare dell'uno e dell'altro un ottimo discernimento.
§. II
94. Primo carattere' dello spirito divino circa gli atti della volontà si è la pace che Iddio movendo la volontà vi lascia impressa. Questo è uno dei caratteri più propri dello spirito di Dio. Basti dire ch'egli è chiamato nelle sacre scritture per antonomasia il Dio della pace: Deus autem pacis sit cum omnibus vobis (Rom.15,33). E poco dopo: “Il Dio della pace stritolerà ben presto satana sotto i vostri piedi. La grazia del Signor nostro Gesù Cristo sia con voi” (Rom.16,20). Ed altrove: “Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!” (Fil.4,9). Anzi Gesù Cristo chiama di propria bocca la pace carattere suo proprio: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore” (Gv.14,27): vi do la mia pace, cioè quella pace intima e sincera ch'è propria solo di me, e non già quella pace fallace che il mondo dona (Gv.14,27). Aggiunge il profeta reale che parlando Iddio alle anime sante che si raccolgono interiormente nel loro cuore, dice loro parole di pace: “Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: egli annunzia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con tutto il cuore (Psalm. 84, 9): e che non discende il Signore ad abitare se non che in quei cuori, che sono pieni di pace: Factus est in pace locus ejus (Psalm. 75,3).
95. Si osservi, che volendo l'apostolo annunziare ai popoli a cui indirizzava le sue epistole, l'abbondanza della divina grazia, unisce sempre con la grazia la pace. Così scrivendo ai Romani, dice: “grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo” (Rom.1, 7). Lo stesso annunzio fa ai Corinti, lo stesso ai Galati, agli Efesini, ai filippesi, ai Colossesi, ai Tessalonicesi, a Tito, a Filemone. Tanto è inseparabile la pace da quella grazia, per cui opera in noi lo spirito del Signore. E più chiaramente, parlando di quei preziosi frutti di cui lo spirito divino arricchisce le anime pure, dice, che uno di quelli è la pace: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal.5,22). Lo stesso afferma l'apostolo S. Giacomo, dicendo nella sua epistola cattolica che i frutti di ogni bontà hanno nella pace la loro semenza - Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace -. (Gc.3,18). Insomma tanti sono i testi della sacra scrittura in cui si dice che Iddio operando nell'anima vi porta pace, che non può negarsi questo carattere allo spirito divino senza incorrere la nota di grande temerità. Se dunque esaminando il direttore qualche anima favorita da Dio, troverà, che dopo le comunicazioni che riceve nelle sue orazioni, le rimane impressa una pace intima, serena, sincera e stabile, avrà un gran contrassegno di esser ella visitata da quel Signore che visitando gli apostoli dopo la sua risurrezione portava loro la pace: pax vobis (Lc. 24,36. - Gv.20, 19-21).
§. III.
96. Il secondo carattere è l'umiltà non affettata, ma sincera. San Bernardo la definisce così: “l'umiltà è quella virtù per cui l'uomo conoscendo profondamente sé stesso, si stima da nulla» (S. Bern. De XII grad. humilit). Onde segue, ch'essa ha due parti. Una che appartiene all'intelletto, con cui conosce l'uomo con cognizione verissima, cioè bassissima, qual egli è: e di questa già parlammo nel capo sesto. L'altra, che appartiene alla volontà, con cui la persona si tratta da quella che si conosce di essere, voglio dire, si dispregia nel suo cuore; si sottopone agli altri, si confonde e si annichila nei suoi affetti, come spiega S. Bonaventura (S. Bonav. De profectu religiosor. lib. 2, cap. 29.).
Or di questa diciamo, ch'è uno de' più chiari caratteri con cui si palesa lo spirito divino, perché Iddio si è già dichiarato in Isaia, che riguarda con occhio di amore tutti quelli che sono poveri ed umili di cuore, e pieni di timor santo è riverenziale – “Su chi volgerò lo sguardo? Sull'umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi teme la mia parola” (Is.66,2) che abita negli spiriti umili e nei cuori dimessi e contriti, e che loro dà vita:
“ In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi”. (Is.57,15). Finalmente il Redentore stesso ci assicura che l'eterno Padre comunica i suoi segreti solo a quelli che si fanno piccoli, che si abbassano e si sottomettono a tutti ne' loro cuori: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt. 11,25).
97. S. Bernardo parlando di sé stesso, dice così: se vedrò aprirsi il cielo, e dilatare sopra di me il suo seno, e discendere una pioggia di soavissime meditazioni: se mi sentirò aprire la mente ad una intelligenza saporosa delle sacre scritture, e per infuso celeste lume sentirò rivelarmi gli arcani più reconditi dei divini misteri, crederò che sia meco lo sposo divino, venuto a visitarmi, e ad arricchirmi con sì preziosi doni (S. Bern. Serm. 69. super cant.). Indi soggiunge al nostro proposito: se poi di vantaggio sentirò infondermi nell'intimo dello spirito una divozione umile che generi in me odio e dispregio di ogni vanità, di modo che né le alte intelligenze mi gonfino, né l'abbondanza delle visite celesti m'innalzi: allora sì sono sicuro, che è meco il divin Padre, e che mi tratta con amore paterno, instillandomi spirito di umiltà (Ibid.). E qui si noti, che il santo in mezzo alle sue rivelazioni, intelligenze, ed altissime contemplazioni non si teneva sicuro, se non le vedeva accompagnate, e quasi suggellate col carattere di una profonda umiltà.
98. All'autorità di un santo padre aggiungo l'esperienza di una serafina. Santa Teresa confessa di sé, che Iddio non le fece mai favore segnalato, se non quando stava annichilandosi alla vista delle proprie miserie; e ch'egli stesso le suggeriva materia di maggiore umiliazione, acciocché più profondamente si annientasse nella cognizione di sé. Su questa sua esperienza fonda la santa questa massima di spirito: che Iddio tanto più opera nelle anime, specialmente in tempo di orazione, quanto le scorge, con l'umiltà più disposte a ricevere le sue grazie: «Quello che ho io conosciuto ed inteso è, che tutta questa fabbrica dell'orazione va fondata in umiltà; e che quanto più s'abbassa un'anima nell'orazione, tanto più Dio l'innalza. Non mi ricordo, che m'abbia il Signore fatto grazia molto segnalata di quelle che dirò appresso, che non sia stata, mentre stavo annichilandomi, e confondendomi in vedermi tanto miserabile, e cattiva: e procurava anco sua Maestà darmi ad intendere cose per aiutarmi a conoscermi, che io non l'avrei saputo immaginare (Vita di S. Teresa - scritta da lei stessa - cap. 22.). Tanto è vero, che non v'è carattere più chiaro e più sicuro dello spirito divino, quanto una vera umiltà per cui la persona si stimi indegna dei divini favori; essendone priva, non li desideri; ricevendoli si confonda e si meravigli come Iddio a lei li comparta; ne tema; li nasconda; e solo li palesi al direttore, costretta dal timore di essere illusa.
99. Ebbe dunque ragione il dotto e mistico Gersone di assicurare i direttori con grande asseveranza, che non dubitino di qualunque operazione, la quale sia preceduta, accompagnata e seguita dall'umiltà, senza mescolamento di alcun contrario; perché è certo, che proviene da Spirito buono ed ha Iddio per autore (Gers. Tract.de distinct. Ver. vision. sign. 4). Sentimento non diverso da quello dell'abate Antioco che dà la santa umiltà per segno, non già congetturale o probabile, ma evidente, che Iddio abita in quel cuore in cui essa risiede (Abb. Antioch. Hom. 102).
100. Per non sbagliare però in cosa di tanto rilievo, si avverta bene a ciò che dissi fin dal principio che l'umiltà acciocché sia carattere di vero spirito, non dev’essere affettata, ma sincera. Umiltà affettata si è, il dire di sé cose vili ed abiette, ma non sentirle nel cuore. Umiltà sincera si è, sentir di sé bassamente, e secondo quel sentimento sottoporsi schiettamente nel suo animo a tutti; dispregiarsi nel suo cuore, e soffrire con pace di essere dagli altri dispregiato: se poi giungesse la persona ad amare i disprezzi ed a riceverli con piacere, sarebbe giunta a possedere in grado eroico questa virtù. Umiltà affettata si è il non voler conoscere i doni di Dio e chiudersi appostatamente gli occhi per non vederli. Umiltà sincera si è il conoscere i benefici e favori che Iddio ci comparte, ma attribuirli a lui solo, e dargliene tutta la gloria senza che ci si attacchi punto di compiacenza o di vanità; anzi a vista del nostro demerito cavare dai doni stessi di Dio conosciuti, affetti di confusione. Dice l’apostolo, che è proprietà dello spirito umile di Dio farci conoscere i doni che riceviamo dalla sua mano benefica. “Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato” (1Cor 2, 12). Altrimenti rimanendo noi in un'affettata ignoranza o dimenticanza dei divini favori, come potremmo essergliene grati? come dargliene le dovute lodi? come accenderci in corrispondenza di amore? Come muoverci a confidenza nella sua bontà? Dunque, conclude S. Agostino con queste belle parole, conosci che i doni li hai da Dio, che nulla hai da te; acciocché non sii o superbo per vanità, o ingrato per dimenticanza (S. Aug. In psal. 85).
101. Concludo con un insegnamento di S. Teresa in cui si contiene tutto il sugo di questa dottrina. La santa, parlando dell'anima favorita da Dio col dono della perfetta contemplazione, dice così: «Non si curi di certe sorti di umiltà, che si ritrovano, delle quali penso trattare appresso; parendo ad alcuno umiltà, non attendere, che il Signore va facendo grazie e dando doni. Intendiamo bene, come la cosa passa, cioè che queste grazie Dio ce le fa senz'alcun merito nostro e però dimostriamoci grati a sua Maestà, perché se non conosciamo di ricevere, non ci desteremo mai ad amare; ed è cosa certissima, che quanto più ci vediamo esser ricchi, non mancando però di conoscere che siamo pure poveri, tanto più giovamento ci viene, ed anche più vera umiltà: altrimenti è un invilirsi ed un perdimento di animo, se parendoci che non siamo capaci di beni grandi, principiando il Signore a darceli, cominciamo noi ad atterrirci col timore di vanagloria (Vita di S. Teresa scritta da lei stessa, cap. 10.).
Se dunque il direttore troverà umiltà sincera e profonda nell'orazione del suo penitente, non ne tema, ancorché sia elevatissima; e molto meno ne tema, se la scorgerà in ogni sua azione; essendo questa virtù la divisa più propria dello spirito di Dio.
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(1) Vita di S. Teresa (scritta da lei stessa) cap. 10.
§. IV.
102. Il terzo carattere si è una ferma fiducia in Dio, ma appoggiata ad un santo timore di sé stesso. Quanto sia propria dello spirito buono la fiducia in Dio, evidentemente si deduce dall'avere Iddio posta in lei principalmente la forza e l'efficacia delle nostre orazioni: sicché quell’orazione sola sia potente ad espugnare il suo cuore, a strappargli di mano ogni favore, che è fatta con speranza e con fede. Egli stesso si è di ciò più volte dichiarato nelle sacre carte. Difatti in S. Matteo ci dice Gesù Cristo che tutto ciò che chiederemo con fiducia nell'orazione, lo riceveremo infallibilmente: E tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete» (Mt 21,22). In San Marco ci assicura che non vi è cosa che non sia possibile ad ottenersi da chi può sperare con viva fede: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede» (Mc 9, 22). E poi giunge fino a questa espressione: se avrete tanto di fiducia, quanto un grano di senapa, potrete operare strepitosi prodigi, fino a trasferire i monti da un luogo all'altro: “se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile (Mt 17,19). Simili dichiarazioni fece Iddio a favore di questa santa fiducia nel vecchio testamento: come in Daniele. dicendo: che non sono mai rimasti delusi nelle loro speranze, né mai confusi quelli che hanno confidato in lui: “non c'è confusione per coloro che confidano in te” ( Dn.3,40); e nei salmi, assicurandoci che basta sperare in lui, per esser libero da ogni male: Lo salverò, perché a me si è affidato; lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome” (Ps. 90,142): ed in mille almi luoghi che troppo lungo sarebbe il volerli tutti riferire. Solo voglio osservare, che il Redentore per autenticare questa fede, e per imprimerla altamente nel cuore dei fedeli, facendo grazie miracolose in tempo della sua predicazione, d'ordinario le attribuiva alla fiducia di chi ricevevale. Così, volendo risanare una donna dal flusso di sangue, le disse: «Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita» (Mt. 9, 22). Volendo rendere la vista a due ciechi, disse, loro: «Credete voi che io possa fare questo?». Gli risposero: «Sì, o Signore!». Allora toccò loro gli occhi e disse: «Sia fatto a voi secondo la vostra fede» (Mt. 9, 28-29). Volendo dar la salute ad un paralitico, prima l’esortò a concepirne ferma fiducia. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: «Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati» (Mt. 9,2). Liberando la figliuola della molto afflitta Cananea dalla invasione dei demoni ne attribuì la liberazione alla fiducia della sua madre: «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri». E da quell'istante sua figlia fu guarita (Mt. 15,28). Sanando il servo del centurione, alla fiducia del suo padrone diede tutta la gloria di quella guarigione: «In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. - «Va', e sia fatto secondo la tua fede». (Mt. 8, 10-13). Aprendo gli occhi ad un altro cieco, dissegli, che dalla sua fiducia era stato sanato.
(Mt 10, 52). Lascio altri simili avvenimenti, in cui manifestamente si scorge la grande stima che Iddio fa di questa fede: onde pare, che da essa sola egli si lasci vincere a compartire qualunque grazia, e fino a dispensare dalle leggi più strette ed inalterabili della natura.
Ma se piace tanto a Dio vedere una tal fiducia ferma, e fissa nel cuore dei fedeli, converrà dire, ch'essa sia tutta conforme allo spirito di lui, anzi che non si possa da altri che da lui istillare nei nostri cuori un affetto cotanto a lui gradito. E però se il direttore la rinvenga nelle opere, e specialmente nelle orazioni dei suoi discepoli, potrà giustamente decidere. ch'essi siano internamente mossi dallo spirito del Signore.
103. Si avverta però, che questa confidenza in Dio dev'essere accompagnata da un santo timore di sé stesso; altrimenti non sarà retta, ma vana, e forse ardimentosa. Anche i peccatori confidano in Dio, e vanno seco stessi vanamente dicendo: eh, che Dio è buono e misericordioso: non v'è che temere di lui: proseguiamo a peccare. Il che è appunto quella confidenza stolta di cui parla il savio nei proverbi (Prov.14, 16): l'uomo stolto confida, passa avanti, e segue a peccare. La confidenza santa è solo in quelli che sperando in Dio, temono di sé stessi e diffidano delle loro forze. Se mirano la propria debolezza, entrano in un giusto timore: se guardano la bontà di Dio e le sue promesse, prendono gran coraggio; così accoppiando con bell'innesto una viva fiducia con un santo timore, corrono sicuri l'attingo della cristiana perfezione; come appunto corre sicura al bramato lido la nave se dalla zavorra sia tenuta bassa dentro le acque, e da vento propizio sia sospinta. Abbia dunque il direttore particolare avvertenza che nei suoi penitenti non vadano mai disgiunti questi due santi affetti: diffidenza o timore di sé, e confidenza in Dio. Perché il timore senza la speranza traligna in pusillanimità; la speranza senza il timore degenera in presunzione ed in arditezza. Dovechè uniti insieme questi due affetti conducono l'anima con sicurezza al porto della beata eternità; e però sono uno dei più belli caratteri dello spirito divino.
§. V.
104. Il quarto carattere si è una volontà pieghevole. Dissi nel capo sesto ch'è segno di buono spirito un intelletto docile. Qui vi aggiungo una volontà flessibile; perché non basta per la prova di uno spirito retto, che si arrenda a credere, se la volontà non si piega ad operare secondo i dettami di una retta credenza. Questa flessibilità primieramente consiste in una certa prontezza di volontà in arrendersi alle inspirazioni ed alle chiamate di Dio: virtù propria de' veri seguaci di Cristo, come disse egli stesso, chiamandoli di propria bocca: Docibiles Dei (Gv.6,45). Dice S. Agostino, che quando il divino Padre internamente ci istruisce, e con la sua grazia ci stimola a seguir le orme del suo Figliuolo, muta il cuore di pietra in cuore di carne, cioè, lo rende pieghevole; ed in questo modo forma de' suoi predestinati vasi di misericordia (S. Aug. De praedest. sanctor. cap. 8).
105. Secondariamente consiste in una certa facilità in eseguire gli altrui consigli, massime se siano proposti da' superiori che stanno in luogo di Dio, e rappresentano la sua persona. La ragione di questo è manifesta: perché avendoci Iddio comandato nelle sacre carte, che obbediamo alla voce de' nostri superiori, come alla sua: Qui vos audit, me audit (Lc. 10,16); e che prestiamo loro una tale obbedienza, ancorché siano superiori temporali: Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo (Ef.6,5); ed ancorché siano di costumi perversi: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei…Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno (Mt. 23,23): ne segue, che entrando Iddio ad operare in un'anima con i suoi celesti lumi e sante mozioni, vi debba imprimere una certa pastosità, per cui la renda pieghevole all'obbedienza di chi presiede, e facile ad eseguire i comandi o consigli di lui. Tanto più che avendo egli stesso amato questa virtù fino a soggettarsi per amore di essa alla morte infame e dolorosa di croce:
“umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil.2,8); non può non imprimere un simile istinto in quelle volontà che prende a governare colle sue divine inspirazioni. Né osta, che i superiori siano talvolta o ignoranti, o appassionati, o indiscreti; perché (come nota bene S. Giovanni Climaco) (S. Joan. Climac. Scala parad. Grad. 26, (post scalia) de discreta discretione.) si appartiene alla divina Provvidenza supplire in ciò che manca ai suoi ministri, qualunque volta non manchino i sudditi in prestar loro la debita soggezione.
106. Da questa santa flessibilità ne risulta nell'anima una certa santa propensione in aprire ai superiori spirituali tutt'i segreti del proprio cuore, ed una certa umile soggezione, per cui non solo ella eseguisce i loro ordini, ma teme d'intraprendere senza il loro consiglio alcuna notabile operazione: il che è appunto una massima di spirito, che tanto inculca Cassiano alle persone devote (Cassian. Coll. 2, cap. 10).
Se dunque troverà il direttore ne' suoi discepoli questa volontà pieghevole alle chiamate di Dio ed alla voce di chi sta in luogo di Dio, con una certa apertura sincera, si rallegri molto nel suo cuore; perché si è imbattuto in un gran fondo di buono spirito, in cui potrà prestamente, e senza molta sua fatica piantarvi ogni virtù.
§. VI.
107. Il quinto carattere si è la rettitudine d'intenzione nell'operare. Iddio non muove mai, né può muovere alcuno ad operare, se non per fini che riguardano la sua gloria: perché Iddio, dice il Savio, in tutte le opere che fa fuori di sé, ha per fine sé stesso: “Il Signore ha fatto tutto per un fine, anche l'empio per il giorno della sventura” (Prov.16,4). Inoltre, è troppo chiaro l’insegnamento di Cristo, che tali sono le nostre operazioni, quali sono i fini che ci prefiggiamo in mandarle alla luce. Se l'occhio della tua intenzione dice il Redentore, sarà semplice, o puro, rimirando Iddio solo, i tuoi atti saranno splendidi, luminosi e divini: se poi l’occhio della tua intenzione sarà impuro, riguardando fini perversi, o pure difettosi; le tue azioni saranno tenebrose ed oscure: “La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!” (Mt 6, 22-23). Ed a questo volle alludere il profeta reale allorché disse: “La figlia del re è tutta splendore, gemme e tessuto d'oro è il suo vestito” (Psalm.44,14); che tutta la bellezza di un'anima deve assumersi dall'interno, cioè dai fini dai quali internamente si muove: giacché da questi prendono tutti gli altri suoi interiori ed esteriori o l'essere divini o l’essere diabolici. Avverta il direttore, che questo è un carattere principalissimo per il discernimento degli spiriti: perché una stessa opera a çagione dei diversi fini, muta natura: se sia fatta per vanità, è mondana; se sia fatta per diletto, è carnale; se sia latta per fini torbidi ed inquieti, è diabolica; se sia fatta per Iddio è divina. Quindi si inferisca che se una persona cerca abitualmente nelle sue azioni Iddio solo, brami solamente il suo gusto, il suo piacere e la sua gloria, porta sempre in fronte un gran carattere di Spirito buono.
§. VII
108, Sesto carattere si è la pazienza in quelle cose che ci tormentano nelle membra del corpo, come i dolori, le pene e le infermità; ed in quelle che ci toccano sull’onore, come le persecuzioni, le calunnie e i dispregi, ed anche in quelle che ci affliggono con la perdita della roba e dei parenti, degli amici e di ciò che ci è più caro. Certo è che il sopportare questi travagli con pace e molto più il bramarli con ardore è un gran contrassegno di buono Spirito, secondo il detto dell’apostolo san Giacomo, che la pazienza è una operazione perfetta: “E la pazienza completi l'opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla” (Gc.1,4); e secondo l’altro insegnamento dell'apostolo che la pazienza ci è necessaria per l’acquisto dell’eterna salute: “Avete solo bisogno di costanza, perché dopo aver fatto la volontà di Dio possiate raggiungere la promessa” (Eb.10,36) E se brama il direttore saperne la ragione, eccola in pronto. La pazienza (se non sia una simulazione dei risentimenti del cuore ed una mera apparenza di virtù, ma virtù vera, radicata nell’intimo dell’anima non può nascere dallo spirito mondano che ama l'onore e non può soffrire gli oltraggi; né dallo spirito carnale, che ama il corpo e non può sopportarne le pene; né dallo spirito diabolico, che ci instilla sempre l'attacco ai beni terreni, e per conseguenza l'insofferenza di ogni loro mancanza: né dallo spirito umano, che collegato con l’amor proprio (se pur non è lo stesso amor proprio) sempre si risente all'arrivo di quelle cose che son contrarie alla natura. Dunque, resta, che non possa da altri provenire che dallo spirito divino, Aggiungo a questo proposito. che è anche gran carattere di spirito retto e divino la pazienza, la rassegnazione e la conformità al divino volere nelle aridità, nelle desolazioni, nelle tenebre e nelle tentazioni, parlando anche di quelle straordinarie, che Iddio suole permettere a certe anime che vuol portare all'alto della perfezione: perché le inquietudini, le turbazioni e le impazienze che nascono da questi travagli interni, hanno origine dall'attacco che l'anima ha preso a certe comunicazioni soavi, e ad una certa pace sensibile da lei sperimentata per il passato: né questo attacco va separato dall'amor proprio confederato con lo spirito umano che cerca sempre ciò che piace a lui, e non quel che piace a Dio, né giova addurre per scusa di queste inquietudini ed intolleranze interne, il sembrare all'anima di essere abbandonata da Dio di cui non sente più la presenza; perché Iddio, quanto è da sé, tra le desolazioni non abbandona mai l'anima: solo le toglie certe sensibilità dilettevoli a fine di renderla, con la conformità e con la pazienza, più forte nello spirito, e più robusta. Onde non può dubitarsi, che una tolleranza quieta e pacifica in mezzo ai travagli delle aridità sia carattere di buono spirito, tanto più che Iddio stesso ci esorta ad averla, dicendo a queste anime desolate: “Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore” (Psalm.26,14).
109. San Cipriano con molte belle parità dimostra, che lo spirito sodo e robusto del cristiano non si prova, se non che nella tolleranza dei travagli. Un pilota, dice egli, non si conosce quando il cielo è sereno ed il mare giace in placida calma, ma quando il cielo ed il mare è tutto posto in tempesta. Un soldato non mostra il suo valore quando sotto le tende vanta vittorie, ma quando in campo aperto combatte tra mille spade nemiche. Il gloriarsi fuori delle contrarietà e dei contrasti, è vanto di persona delicata: le sole avversità sostenute coraggiosamente sono la prova della vera virtù (S. Cyprian.De mortalit.). Un albero, segue a dire il santo, che sia profondamente radicato nel suolo, non si muove alle scosse dei venti: una nave che sia fortemente compaginata e ben corredata, non si apre all'urto delle procelle. Così una virtù ben formata dalla divina grazia ed altamente radicata nell'anima, non si smuove ai venti delle tribolazioni; non si scioglie in impazienze, né dà in debolezze tra le tempeste delle persecuzioni. Ventilandosi il grano nell'aia, la paglia è trasportata da ogni ama leggiera, ma non già gli acini di grano che hanno sostanza, peso e consistenza. Così al soffiar de' venti de' travagli, siano interiori o esteriori, si conosce chi nell'aia del Signore è paglia leggiera, o grano eletto. Finalmente conclude con l’esempio di S. Paolo, il quale. dopo i naufragi, dopo le flagellazioni, dopo tanti e sì gravi tormenti ed afflizioni, non diceva di essere stato vessato, ma perfezionato dalle avversità; e confessava che quanto erano maggiori le sue afflizioni, tanto più veraci erano le prove del suo spirito (Ibid).
110. Ma Tertulliano passa più avanti: ed arriva a dire che agli stessi feriti la sola pazienza straordinarissima del Redentore. non veduta mai in altro uomo, con cui egli soffriva intrepidamente tanti oltraggi, tante contumelie, e tante pene, poteva bastare per intendere, che non era un puro uomo, ma un uomo Dio (Tertull. Lib. de Patient. cap. 3). Ma se la pazienza ch'era in Cristo, poteva bastare per intendere, che egli era Dio; la pazienza ch'è in quelli che l’imitano nel patire potrà anche bastare per conoscere che in essi è il vero spirito di Dio.
111. Avverta però il direttore, che questa pazienza non in tutti si trova allo stesso grado di perfezione. I principianti al primo incontro di dette tribolazioni sogliono sentirle al vivo. I proficienti, che hanno le p assioni più domate e l’amor proprio più mortificato, le sentono meno: ma pure e gli uni e gli altri si soggettano al divino volere, e si adattano alla loro croce. I perfetti però che hanno già trionfato delle loro inclinazioni scorrette, vanno loro incontro con allegrezza, e le abbracciano con amore e con gaudio; come gli apostoli che ritornavano con giubilo dal concilio, in cui avevano ricevuto contumelie ed onte: “Ma essi se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At. 5,41). In qualunque grado però si possegga questa virtù, sempre è dono di Dio che con la sua grazia la produce nelle nostre anime.
§ - VIII.
112. Il settimo carattere si è la mortificazione volontaria del proprio interno. Non si può mettere in dubbio che questo sia un bel carattere dello spirito divino, perché ce l'ha detto il Redentore di propria bocca: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua (Mt. 16,24): ecco la divisa dei seguaci di Cristo che hanno lo spirito di Cristo: annegare sé stessi, contraddire alle proprie voglie. abbattere le proprie passioni, “il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt. 11, 12): quali sono i generosi soldati del Redentore che conquistano il suo celeste regno? I mortificati che fanno forza, che fan violenza a sé stessi. “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Gv.12, 24-25):
acciocché un grano di frumento produca frutto, bisogna che muoia sepolto in terra; così, acciocché produca l'uomo frutti di vita eterna, conviene che muoia a sé stesso con l’esercizio di una indefessa mortificazione.
113. E qui vanno a ferire le par ole che seguono: “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv.12,25). Né vuol già significare con questo il divino Maestro, che per odio a noi stessi abbiamo a darci morte con le proprie mani; ma bensì che abbiamo a dar morte ai nostri malnati appetiti ed alle nostre prave inclinazioni, facendo loro guerra con una incessante abnegazione. Questo, come nota bene S. Giovanni Crisostomo, è propriamente odiar sé stesso: perché, siccome non possiamo mirare il volto, e né pure udir la voce di quelli che odiano a morte, ma rivolgiamo da essi dispettosamente lo sguardo; così odiando noi stessi, dobbiamo con violenza rivolgere l'animo mal inclinato da quelle cose che non piacciono a Dio: il che è lo stesso che mortificarlo potentemente (S. Io. Crysos. In Joan. homo 67 in edit. Maur., al. 66).
114. Quindi inferisce divinamente Cornelio A-Lapide, che l'abnegazione di sé stesso è la base ed il fondamento su cui si appoggia tutta la fabbrica della vita cristiana: questa è la radice da cui pullula ogni virtù: questa è la fonte da cui scaturisce ogni perfezione: E però chi brama di venir perfetto nella scuola di Cristo, questa dottrina di mortificazione continua deve aver sempre avanti gli occhi, e con questa regolare le sue azioni; ed in tal modo diverrà vero discepolo, ed imitatore fedele del Redentore (Cornel Alap. In Gv.12,25). Tanto è vero che lo spirito d'interna mortificazione è inseparabile dallo Spirito di Gesù Cristo.
§. IX.
115. Ottavo carattere si è la sincerità, la veridicità, e la semplicità, virtù che sogliono andare unite. Iddio è la prima verità; e però non può infondere in quei cuori in cui risiede, se non che spirito di verità e di schiettezza. In oltre si è dichiarato lo stesso Dio, ch'egli parla alle persone semplici: perché il Signore ha in abominio il malvagio, mentre la sua amicizia è per i giusti (Prov.3,32): cioè illumina quelle menti che procedono semplicemente senza doppiezza, senza finzioni e senza frodi, come spiega San Gregorio (S. Gregor. Lib. pastoralis curae par. 3, admon. 12):
E più espressamente al nostro proposito dice lo stesso santo dottore, che la sapienza de' giusti, in cui formalmente consiste lo spirito vero del Signore, ha di proprio non finger mai, ma palesare con sincerità i sentimenti del cuore: amare sempre il vero, e fuggire ogni ombra di falsità (Idem. Moral. lib. 10, cap. 16). Se però la semplicità e la schiettezza nasca non da natura, ma da virtù, come suole accadere nelle persone di mente aperta e d'indole sagace, è un gran segno di buono spirito. Onde di questi ancora può dirsi, che siano quegli uomini piccioli sugli occhi del mondo ma grandi su gli occhi di Dio, ai quali svela il Signore i suoi segreti: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25).
§. X.
116. Il nono carattere si è la libertà di spirito. Per questo non v'è bisogno di prova: perché lo dice S. Paolo a chiare note; (2Cor 3,17) ov'è la libertà dello spirito, ivi si trova lo spirito del Signore. Solo vi è bisogno di spiegare in che consista questa libertà di spirito, che da Dio solo s'ingenera nelle nostre anime. Per libertà di spirito qui intendono alcuni una certa scioltezza di coscienza, ed un certo operare libero e franco, poco conforme alle leggi della ragione e della fede: ma s'ingannano, perché questa non deve chiamarsi libertà, ma dissolutezza di spirito. Per capire cosa sia libertà di spirito, è necessario intendere cosa sia servitù di spirito: giacché questa è una virtù, che in modo speciale riceve luce dal suo contrario. Servitù dunque di Spirito altro non è che una soggezione volontaria dell'anima a qualche vizio, da cui la meschina si lasci predominare. La spiega egregiamente Sant'Ambrogio, interpretando quelle parole del salmo: “Io sono tuo: salvami, perché ho cercato il tuo volere” (Psal.118,94). Non può, dice il santo dottore, un uomo di mondo dire a Dio: Io, Signore, sono tuo; perché ha molti padroni, che lo tiranneggiano. Si fa avanti la libidine, e gli dice: tu sei io; perché brami i piaceri del senso. Viene l'avarizia, e gli dice: tu sei mio; perché l’oro e l'argento a cui vivi attaccato sono il prezzo con cui ho comprata la tua servitù. Gli si presenta avanti il lusso delle vivande e gli dice: tu sei mio; perché la sontuosità dei conviti è il prezzo, per cui a me ti desti. Viene l'ambizione. e dice: sei affatto mio: e non sai che agli altri ti ho fatto sovrastare, acciocché servissi a me? che ti ho data potestà sopra gli altri, acciocché soggiacessi al mio potere? Vengono gli altri vizi e tutti dicono: tu sei mio. Finalmente conclude il Santo: che schiavo vile, e miserabile è mai quello, che tanti lo pretendono per sé, e lo vogliono soggetto al suo dominio! (S. Ambros. In psal. 118, serm. 12).
117. Ecco dichiarata la servitù dello spirito: ed ecco anche spiegata la libertà dello spirito: la quale consiste in esser libero dal predominio dei vizi, di cui è schiavo chi si lascia da essi signoreggiare.
Bisogna però notare, che questa libertà di spirito non è una virtù indivisibile, ma può crescere in gradi di ulteriore perfezione. Può alcuno esser libero dai vizi, in quanto non consente ai loro movimenti: e questo non eccede l'infimo grado. Può esser liberi anche da' movimenti de' vizi e delle loro prave inclinazioni, in modo almeno che le senta di rado, le senta insorgere leggiere, e le reprima con molta facilità: e questo è un grado superiore. Può esser libero da ogni attacco alle cose terrene ed oneste: e questo è grado più alto. Può essere anche libero da ogni attacco ai doni di Dio: e questo è il più sublime grado di libertà spirituale. Chi possiede questa virtù in grado perfetto, ha l'animo libero da tutte le afflizioni, sollecitudini, ansietà; ed è sempre disposto e pronto a conformarsi, in tutto ciò che gli accade, al divino volere; poco si rallegra de' beni terreni, e poco si rattrista della loro mancanza; e se sente alcuna volta qualche moto di dispiacere, presto si tranquilla in Dio, ed entrando dentro di sé, ove le cose son ben composte, presto si rasserena. In somma di questi si verifica il detto dello Spirito Santo, che qualunque cosa accade all'uomo giusto non ha forza di contristarlo. “Al giusto non può capitare alcun danno, gli empi saranno pieni di mali” (Prov.12,21). Questi tali ricevono volentieri le consolazioni e le visite del Signore; e ne soffrono con pace la privazione. Fanno le loro oraziani, le loro comunioni, le loro penitenze, e tutti gli altri esercizi di spirito: mai lasciano con l’istessa facilità quando o la carità o la necessità o l'obbedienza lo richieda. In somma hanno rotta la catena di ogni attacco, perciò vivono liberi da ogn'imperfetta sollecitudine, in una placida calma ed in una dolce serenità. Beati quelli che giungono a questo stato; perché hanno un carattere, non solo di spirito, ma di vera santità.
§. XI.
118. Il decimo carattere si è il desiderio della Imitazione di Cristo. Questo è il più chiaro segno dello spirito divino; perché afferma S. Paolo, che uno non può avere lo spirito di Dio ed essere privo dello spirito di Gesù visto. “Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene” (Rom. 8,9). E la ragione l'arreca S. Anselmo, spiegando queste parole dell'apostolo; perché lo spirito di Dio non è distinto dallo spirito di Cristo, essendo uno stesso lo spirito del divino Genitore e del divino figliuolo (S. Anselm. In text. Edit. Colon. Agrip. 1612.): onde non ci può internamente muovere a cose aliene da quelle che operò e c'insegnò il nostro amabilissimo Redentore. Dunque alla imitazione delle virtù di Gesù Cristo ed alla obbedienza dei suoi insegnamenti altri incitar non ci può, che lo spirito di Dio.
§. XII.
119. L'undecimo carattere si è, una carità mansueta, benigna, disinteressata, quale la descrive l'apostolo: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto” (1Cor 23, 4-5). S. Agostino fa tanto sicuro uno spirito pieno di sincera carità che arriva a dire queste parole; ama tu con amore di carità, e fa pur quel che vuoi, non errerai. Se parli, se taci, se correggi, opera il tutto con interna dilezione: non può essere che buono tutto ciò che pullula dalla radice di un’intima carità (S. A.ug. In epist. 1. Joan. tract. 7). Bella espressione è questa, ed insieme bella prova a favore di uno spirito caritatevole. Lascio altri caratteri, perché questi possono bastare al direttore per giudicare rettamente di qualunque moto interiore o esteriore dell'animo, e per decidere se abbia da Dio l'origine.
G. BATTISTA SCARAMELLI SERVUS IESUS