lunedì 28 giugno 2021

La battaglia continua 3

 


CELIBATO 

– PER IL REGNO DI DIO –

Il “celibato” e la “verginità” sono nuovi valori evangelici, esistenti già nella Chiesa apostolica. È quindi una situazione esistenziale che si manifestò in alcune comunità, come a Cesarea, dove quattro figlie di Filippo prestano il loro servizio ecclesiale. Anche a Corinto, dove Paolo fondò la comunità cristiana, come “architetto ha gettato le fondamenta” (I Cor. 3.6.10) costruendo la sua teologia del celibato e della verginità in parallelismo con il matrimonio, sulla base dei carismi: «Ciascuno ha il proprio carisma da Dio, chi in un modo, chi, invece, in un altro» (I Cor. 7,7). Due modi di contrapposizione, quindi, tra matrimonio e stato celibatario e verginale. Difatti, a chi è sposato, Paolo comanda di non sciogliere il suo legame matrimoniale (ivi 7.1.27), a chi è celibe o vergine, Egli consiglia di non sposarsi (ivi 7,1.8.25.27), a questa libertà dello spirito, corrisponde una libertà di accettarlo (ivi 7,37). La catechesi apostolica farà, poi, dei progressi anche sul senso ecclesiale del celibato e della verginità, facendosi sponda alle parole del Signore a riguardo del celibato e della verginità, in vista del Regno dei Cieli, si manifesta la comprensione dei valori di ambedue i carismi e la ricchezza dell’inserimento a Cristo. Il Regno di Dio è spirituale e, quindi non esige più la generazione di figli nella carne1. Il celibato e la verginità pongono la persona umana in contatto immediato con Cristo. Perciò, tutto il pensiero di Paolo si aggancia ed è in linea con il Vangelo di Gesù. Comunque, le memorie e la predicazione degli Apostoli sulla realtà del celibato e della verginità sono scarne e ben pochi sono i testi messi in iscritto. Il più significativo è la risposta di Gesù ad una interrogazione dei discepoli, che Matteo, testimone lui pure di quel colloquio, ha narrato (Mat. 19,12), in cui Gesù riprende il concetto del celibato, conferendogli, però, un senso teologale in questi elementi fondamentali; e cioè: la comprensione del senso e del valore del celibato è una realtà non comprensibile da tutti. Infatti, Gesù disse: «Non tutti comprendono questa parola, ma quelli ai quali è donato. Vi sono, infatti, eunuchi, i quali dal grembo della madre sono stati generati così, e vi sono eunuchi, i quali sono stati resi eunuchi dagli uomini e vi sono eunuchi, i quali hanno reso eunuchi sé stessi a causa del Regno dei Cieli. Chi può comprendere, comprenda» (Mat. 19, 11-12). Il celibato, quindi, è duplice: coatto o volontario. Gesù, qui, richiama l’attenzione su quest’ultimo, che giustifica possibile quando è a causa del Regno dei Cieli, quindi è il Regno dei Cieli che illumina l’uso cristiano del celibato e della verginità. Di conseguenza, la verginità, il celibato, sono un “dono”, come lo ammette anche il Vaticano II: «la vita religiosa - scrive - è un dono che la Chiesa ha ricevuto dal suo Signore e con la grazia sempre conserva» (“Lumen gentium”, 43). «La carità abbracciata per il Regno dei cieli, quale viene professata dai religiosi, deve essere apprezzata come insigne “dono” della Grazia» (“Perfectae caritatis”, 12). Quindi, ogni “dono” di Dio è un fatto positivo nella vita di una persona, perciò la vita religiosa, specie il celibato e la verginità, non si devono presentare come una rinuncia o una mortificazione, perché il celibato e la verginità potenziano uno sviluppo congeniale alla novità del regno, verso un amore universale, verso una fecondità che si realizza nello Spirito, per cui l’essere con Cristo nel celibato e nella verginità costituisce una rapporto indissolubile. Infatti, “Dio non si pente dei suoi doni e della sua chiamata” (Romani 11,29). Perciò, il “non è bene per l’uomo essere solo”, viene annullato dalla comunità religiosa in una donazione più ampia ed aperta. L’avvertimento di San Paolo, che la fornicazione, l’impudicizia, la lussuria escludono dal possesso del Regno di Dio, per cui mentre gli impudichi sono cacciati fuori dalla “città” di Dio (Apocalisse 22,15), coloro che si sono conservati puri, invece, seguono da vicino l’Agnello (Apocalisse, 14,4). Il fondamento, dunque, della vita religiosa - secondo le fonti bibliche neo-testamentari - sono il celibato e la verginità, vissuti in comunità. L’impegno dei Religiosi, perciò, è quello di salvare quei valori, affidati a ciascuno da Gesù Cristo, per dedicarsi, senza distrazioni, alle cose del Signore (1 Corinti 7,32.34.35).

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Oggi, si parla molto della “persona umana”, l’uomo visto non solo nella dimensione soprannaturale, ma anche di quella naturale, che completa la persona. Quindi, l’integrazione affettiva è un aspetto importante dell’integrazione della persona per renderla “matura”, sia fisica che psichica e spirituale, il cui fondamento è appunto la maturità affettiva, ossia l’amore, perché senza di esso non solo non c’è “maturità”, ma neppure “normalità”.

Allora si potrebbe concludere che lo stato di vita in cui la persona umana trova la sua piena maturità e integrazione è il matrimonio. Ora, se questo “dono” si realizza nel matrimonio, ci dobbiamo chiedere quale possibilità abbiano il religioso e la religiosa, che hanno rinunciato ad abbracciare tutti gli aspetti della persona, ossia l’anima e il corpo, ci possiamo chiedere quale possibilità resti alla loro maturità umana. Prima di tutto, va sottolineato che la persona umana è, innanzi tutto, un valore spirituale capace di conoscenza e di amore, e una sua completezza che trascendono la dimensione fisica, che è una componente della maturità umana, ma non una condizione. La vera maturità, quindi, è quella aperta al mondo dello spirito, senza il quale non c’è equilibrio affettivo. Quindi, la castità consacrata (o verginità) non è solo una rinuncia a determinati beni, bensì una donazione d’amore a Dio; un “dono” che vien fatto per amore a un Dio che è Amore, un amore che non è un qualcosa di astratto, di intellettualistico, ma è un “amore” che investe la persona e la conduce a un impegno totale di perfezione. È la Grazia che si innesta nella natura e agisce in essa. La Religiosa vive la sua consacrazione inserita in una comunità, in una ambiente sociale, che possono arricchire e sviluppare la sua personalità, impegnata nell’apostolato, nel quale può donare e rendere feconda la sua personalità umana e soprannaturale. Vita comunitaria e apostolato sono appunto gli elementi essenziali per l’integrazione psicologica e spirituale della sua vita religiosa. L’appoggio dell’amore fraterno è certamente un valido sostegno che aiuta a superare le crisi e i momenti difficili che ognuno può avere; la stanchezza, le frustrazioni, gli insuccessi, che possono oscurare l’anima e dare un senso di insicurezza, di solitudine, di smarrimento. Allora, la Religiosa sente il bisogno di una testimonianza umana che la attira. È questo il compito dell’amicizia, che è un dono di Dio per ricercarlo ed essere l’una all’altra un sostegno e uno stimolo. Inoltre, la totalità di donazione di sé stessa la si raggiunge sempre sul piano dell’amore di Dio, attraverso, però, una concretezza cristiana di amore del prossimo. L’apostolato (servizio sociale), quindi, è il campo in cui l’integrazione affettiva raggiunge il suo equilibrio. Ecco perché la Chiesa dà alla Religiosa il titolo di “Sposa di Cristo” e il popolo le dà il titolo di “Madre”. Ora, Dio ha posto nelle mani delle sue “spose” la salvezza di molti fratelli per i quali Cristo è morto. San Paolo esprime questo concetto nella lettera ai Corinti: «Io vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (I Cor. 4,15). La religiosa, quindi, è veramente “Madre”, non di individui, ma di persone; non di corpi, ma di anime. Il dono di sé nell’apostolato fa soddisfare la profonda esigenza - proprio della donna! - di amare impegnando in questa donazione materna, tutte le sue risorse personali, perché “si tratta di salvare la persona umana, si tratta di salvare l’umana società” (“Gaudium et spes”, n° 3). Certo, la Religiosa deve essere prudente, perché la sua persona è consacrata che ama Dio in sé stesso e nel prossimo; in essa la Grazia deve moderare e trasformare in espressione di carità ciò che potrebbe essere una manifestazione di affetto terreno. La vita religiosa ha i suoi rischi, ma per chi vive con piena disponibilità all’azione della Grazia, si avvera quello che Gesù ha promesso: «Non vi è nessuno che abbia abbandonato la casa, moglie, fratelli, genitori, figli, per il Regno di Dio, che non riceva molto di più in questo tempo e, nel mondo futuro, la vita eterna». (Lc. 18,29-30).

sac. dott. Luigi Villa

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