lunedì 8 dicembre 2025

SOLITUDINE DI DIO

 


CHI COME DIO?


I

SOLITUDINE DI DIO


Concretamente, l'unità di Dio è una solitudine senza mescolanza né discontinuità che solo per Lui sarà riempita. Condividere la sua solitudine con ciò che non è Lui, tale è stato il sogno dell'Amore, e la Creazione è questo miracolo. La solitudine di Dio, come il suo regno, può essere paragonata a una perla unica.

La vita è data a ciò che non è Dio, affinché, strappato al nulla, possa compiere il suo essere nell'Unità che lo fa diventare qualcosa che esiste, idoneo a ricevere la grazia dell'unità. Ciò che non è, ciò che non era, comincia a essere. Ma che cosa è che comincia a essere, che cosa sarà quel nulla che ora è chiamato a essere, a esistere, a essere qualcosa di vivo, nell'organismo che emerge dal nulla e rivolge il suo volto animato o il suo cuore palpitante al Primo Principio?

Ciò che viene a essere lo vedremo. Dio, inclinandosi sul non essere, trae da esso, dal nulla, tutte le combinazioni possibili che si offrono al pensiero divino, il quale, peraltro, basta avere la totalità di ciò che è per non lasciare spazio a nessun altro che non sia Lui. Ma dal nulla sale una voce in prestito: - Posso essere, Signore? - Puoi, sì, ma come effetto del Nostro eterno volere. Sono Io che te lo dico: inizia. Ma sono stato Io il primo a chiamarti. Sono stato Io che ti ho dato questa bocca virtuale da cui esce un'interrogazione che Io ho reso possibile, volendo essere Io in te, volendo che esistesse un altro fuori di me, tratto dal nulla. Perché solo Io, solo con il mio essere, che è l'Essere, riempio tutto ciò che è, dove troveranno posto, il numero, la misura, le misure che fanno le dimensioni del mondo e dell'universo? Fuori di me non c'è nulla.

A ciò la voce suscitata risponde: - La base del mio essere, se così lo chiami, se così decidi che io sia, consiste, precisamente, in un certo modo di non essere nulla, in un certo modo di non essere Tu. La creatura sarà esattamente questo: non essere Tu, in un'infinità di modi; un essere che partecipa dell'Essere assoluto, che è unico e solo ma che è anche Amore che si contempla e si distingue tre volte - Sanctus, Sanctus, Sanctus. È la solitudine che si espande fino all'infinito, ma che, nella sua essenza, rimane. Perché è un solo Dio - Adonai ehad - in tre ipostasi.

La solitudine di Dio, alla quale possono riferirsi molte altre solitudini se sono accettate e pure, se sono come specchi chiari, è l'essenza della beatitudine finale delle anime create. Queste, a loro volta, conoscono Dio in Dio e conoscono se stesse e gli altri, che è riconoscere infinita, precisa e personalmente - e questo è per loro Dio - che sono nulla. Ma la Scrittura ha questa maledizione: Vae soli! (Eccl., IV, 10). «Guai a chi è solo!» E l'esperienza, nel suo inseguimento, dice: - Solo? Ma esploriamo i tuoi contorni, tocchiamo l'involucro della tua solitudine, calpestiamo il corpo che la preserva, distruggiamo la tua identità. E immediatamente Gesù ci appare in una serie di abbandoni, a Gabbatha, davanti a Pilato, in casa di Erode, al Calvario, quando questa solitudine divina dell'Uomo si rompe, come se le due nature si separassero violentemente all'approssimarsi della morte. «Signore, Signore, perché mi hai abbandonato?» Tuttavia, ai piedi della Croce, dove brutti romani dividono tra di loro le vesti del Re dei Giudei che è nel trance della morte, non si strappa la tunica inconsutile, si sorteggia una, a caso, alla grazia di Dio. Perché l'unità si veste tutta intera, non si distribuisce in stracci.

Guai al solitario! Ma la passione di Cristo, che è la figura dolorosa di questo anatema e che arriva fino all'orrore del grido del Figlio dell'uomo sulla croce, ci mostra che si tratta di un'altra solitudine, la solitudine privata, l'angosciante isolamento su se stessi che ha come termine la morte. Era stato commesso il peccato, e Dio non ha custodito per sé avaramente la solitudine divina. Era per gli uomini che lo sollevavano sulla croce, che Egli si disfava della tunica senza cuciture e in Lui tutto l'uomo voleva in quel momento strappare a Dio, per follia d'amore, per soffrire l'ultima vertigine della separazione, nelle tenebre del pieno giorno (pone quasi noctem umbram tuam in meridie), come un Dio che muore per Dio stesso. Così conobbe fino in fondo alla sua miseria l'abisso della solitudine umana. E l'abisso lo respinse verso Dio, perché, nel fondo supremo di quell'abisso, la contemplazione del Verbo non poteva trovare la fine. Abbandonato, diciamo, abbandona: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».

Quando terminò la Creazione: «Non è buono che l'uomo sia solo», pensò Dio. Solo, nella propria solitudine. «Facciamogli una compagna a sua immagine». E mentre l'uomo dormiva, Dio creò Eva, «madre dei viventi». La solitudine dell'uomo è ciò che lo separa da tutti gli esseri; la solitudine divina, che Dio gli offre in eredità, mai come un pezzo della sua proprietà, è ciò che pone un'anima in comunione con Dio, con se stessa e con l'immensità del prossimo. È nella solitudine di Dio che l'uomo, essendo un nulla, è Dio. O più esattamente: Dio è quest'uomo, il cui nulla sostanziale non occupa alcun posto in Dio. E tutto ciò che avrebbe potuto turbare questa unità è rimasto fuori; ciò che macchiava questa purezza è rimasto nell'acqua che l'ha lavata. L'uomo della solitudine divina è il battezzato perfettamente nudo. Si è spogliato della sua volontà che ha liberamente affidato a Colui che l'aveva fatta così sottile.

C'è in questo un'operazione di distacco di cui solo Dio è il maestro; e, come dice Berulle, noi vediamo che «eleva le anime vive e moribonde fino al trono della santità di Dio e dà loro accesso a una solitudine interiore e divina, che adora e imita la solitudine e la singolarità di Dio in se stesso». Perché noi non conosciamo nulla di quella solitudine, a meno che non traspaia in alcuni uomini che l'hanno resa quasi sensibile, nella misura in cui in loro non c'è ritorno su se stessi, duplicità, egoismo nella devozione, freno alla generosità del cuore e dello spirito. Sono uno in tutto il loro comportamento, seguono il filo d'acqua interiore, il corso della grazia. È Dio, per parlare come Berulle, che si «singolarizza» in loro. Quando li esaminiamo più da vicino, scopriamo in queste creature scelte più umanità di quella che abbiamo in noi stessi e questo può causarci una grande sorpresa. Ci occuperemo ulteriormente di discernere la meravigliosa ragione di questo fatto, che risale ancora a Dio e al mistero della sua solitudine o della sua unità. 

Ciò che possiamo garantire fin da subito, dopo aver dato un'occhiata insieme ai santi, «anime vive e morenti», è che un Santo, e questo Santo, in Gesù, formava una sola persona con Dio. Tu solus Sanctus. Non c'è altro santo se non Lui, perché non c'è santo se non Dio e dire di un uomo che è santo significa dire che è così unito a Cristo, Verbo di Dio, così partecipe della sua unità, che è Dio con Lui.

I sofisti dell'Islam, che non sono cristiani ma che hanno il genio delle formule mistiche, hanno ampiamente meditato sulle relazioni dell'io e del tu nel colloquio spirituale dell'Amante con l'Amato. Figli del deserto, avevano lo sguardo naturalmente eccitato per penetrare il carattere della divina solitudine. Altri si sono avvicinati alla sostanza di Dio sotto immagini diverse e che non sono di minor valore — Angela di Foligno, Teresa d'Avila o Giovanni della Croce. Un poeta sufi, Jalal al-Din al-Rumi, è riuscito a esprimere, in modo ammirevole, i tratti di questa intima avventura: «Bussò alla porta del Bene-Amato e una voce dall'interno chiese: Chi è? Lui rispose: Sono io. E la voce disse: Questa casa non potrebbe contenere né te né me. «E la porta rimase chiusa. Allora l'amante si ritirò nella foresta e pregò e digiunò nella solitudine. Un anno dopo tornò e bussò di nuovo alla porta e di nuovo la voce chiese: Chi è? E l'amante rispose: Sei Tu. «Allora la porta si aprì per dargli passaggio» (!). Fu allora che l'amore ridusse due a un solo. È sempre ciò che l'amore tende a fare. A livello profano questo non si realizza senza un epilogo tragico. Otello è uno che uccide l'altro, Desdemona. Quanto a Romeo e Giulietta, Tristano e Isotta, sono due che fanno morire uno e l'altro. Fedra da sola conduce due alla morte. La principessa di Clèves si ritira nel convento non per amarvi Dio, perché il suo amore non la portò all'unità divina, ma per morirvi, di solitudine umana. E così accade con molti eroi, eroine di romanzi e persino della realtà, che non trovano Dio nella purezza dell'amore, perché gli hanno opposto un io insolubile. 

Si dissolverà dunque l'io del santo nell'unità divina? C'è tutto un mistero in questa fusione. Gli autori spirituali di tutti i tempi e di tutti i paesi si sono sforzati di spiegarlo sotto lo sguardo austero dei teologi. Dai Padri alessandrini a Scoto Erigena, da questo a Meister Eckhart e San Giovanni della Croce, quante formule tattili! Qui si impone l'esperienza: «Datemi un cuore che ama, scrive Sant'Agostino, e lui mi capirà!». San Bernardo è chiaro nel dire: «Beato colui che ha meritato di arrivare a questo quarto grado, dove l'uomo non ama più se stesso se non per Dio». Così lascia intatta l'integrità della persona, ma mostra anche a quale prezzo si comunica questa saggezza: «Quando sarà dato alla carne e al sangue, a un vaso di argilla, a una dimora di terra, comprendere queste cose? Quando l'anima, inebriata dall'amore divino, dimentica se stessa e vedendosi come un vaso rotto, si riversa interamente in Dio, si unisce a lui in modo da non fare più che un solo spirito con lui». 

Dove la scuola francese di spiritualità parla di conformità alla volontà divina, analizzando appassionatamente il suo sistema mistico, tutto morale e plastico, di adesione al cuore di Dio, il tomismo, più radicale nella sua metafisica, non teme di pronunciare la parola suprema di identificazione. E il domenicano Meister Eckhart, forzando eccessivamente l'idea, osa persino ricordare che egli era Dio prima di essere se stesso, fiore singolare nato dal nulla. In tal modo solo in Dio si trova l'essere. E ciò che noi siamo, è Dio prima di noi e più di noi, infinitamente più di noi e, in fin dei conti, più personalmente noi che noi stessi: Quelqu’un qui soit en mot plus moi-même que moi (Claudel). 

Così, scrivendo che il santo, perso in Dio, è più umano dell'uomo che si limita alla sua umanità, non cedo al gusto del paradosso. Solo in Dio effettivamente l'uomo si trova nello stato di purezza umana. Fuori da Dio, la sua umanità è come legno marcio dove il piede si seppellisce; non potrà mai essere un uomo degno di questo nome — termine dell'evoluzione dell'opera dei Sei Giorni. Senza dubbio il peccato ha compromesso questa opera-prima e, invece di lasciarla moltiplicarsi nell'ordine stabilito da Dio, nel riposo del Sabato, la riduce di nuovo alla miseria della sua preesistenza, riportandola di nuovo a quell'animalità da cui era stata liberata e facendole sentire fino alla morte il peso del suo nulla originale, attraverso la conoscenza sensibile del male e del bene, attraverso la sofferenza che limita e la gioia sempre limitata.

La bestialità e tutte le degradazioni si impadroniranno di un uomo diventato schiavo delle forze che sono sotto la sua anima immortale, ma che dominano con un impero schiacciante il suo povero corpo. In queste condizioni, abbiamo smesso di avere un uomo retto, l'uomo che Dio aveva creato (quod fecerit Deus hominem rectum); non abbiamo più quest'uomo con una natura sospesa nella Divinità, l'uomo della contemplazione, ma un uomo curvato verso la terra, fuggendo dal suo Paradiso interiore verso ogni genere di attività, buone o cattive, a seconda che si applica alla coltivazione del bene o alla sua disgregazione.

Solo tornando a salire al cuore di Dio, di cui il suo, in principio, era l'immagine, il cuore dell'uomo può adornarsi di veri sentimenti umani. Bene lo prova il cristianesimo, che ha avuto bisogno di una virtù soprannaturale—la carità divina—per far sorgere la semplice nozione, così poco umana, di «umanità». Non è necessario ricordare quanto si fosse allontanata questa «umanità»! Basta guardare la storia di tutti i tempi e ancora la storia cristiana, dove l'uomo peccatore, anche il battezzato, dirige un'offensiva perpetua contro Dio che, in Gesù Cristo, gli offre come modello da raggiungere questa «immagine e somiglianza» tanto di se stesso quanto dell'uomo—l'uomo veramente umano...

Nell'Antichità, anche nella più civilizzata, a parte alcuni che cercarono Dio o che cercarono l'uomo (Diogene con la sua lanterna), non si trova l'uomo umano. Si troverà oggi al di fuori del cristianesimo? L'Occidente ci mostra solo alcuni umanisti scollegati da un Dio falsificato, clericalizzato, ma che rimangono penetrati dal suo ricordo; e l'Oriente, un pugno di saggi, più informati del Vangelo di quanto possa sembrare, ma che, in ogni caso, hanno iniziato a chiedere a Dio il senso dell'umanità.

ST ANIS LAS FUMET 


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