L'IRA DI DIO
Prendiamo ora in esame quest’altro attributo di Dio, la
sua “ira”: nel Vecchio e Nuovo Testamento, Padre Nostro ed
episodio del Tempio inclusi. Chiedo scusa se citerò spesso il
Dizionario per mettere a punto il significato dei termini, ma
lo ritengo indispensabile. Prendiamo lo spunto da una lettera
che un Sacerdote ci ha inviato:
“Rev.do Padre Andrea,
seguo con attenzione quanto va scrivendo su “Dio è
Padre” e, pur ammirando le argomentazioni con cui si sforza
di dimostrare che Dio è unicamente amore e misericordia,
credo che questa visione sia parziale e quindi incompleta. E
potrebbe anche essere pericolosa perché un’idea di Dio tutta
“vogliamoci bene” in ultima analisi potrebbe mettere in crisi
varie Verità di fede, tra cui il peccato, il giudizio, l’inferno
ecc. con grande confusione dei fedeli. E con grave nostra
colpa.
Lei non ha mai trovato nella Scrittura espressioni che
ribadiscono il concetto di un Dio che punisce, che addirittura “si vendica”, che si manifesta - oltre con l’amore - anche
con la Sua santa ira?
Non ha mai meditato, nel Nuovo Testamento, sull’episodio di Gesù che, pur autodefinendosi “mite ed umile di
cuore”, esplode in tutta la sua ira contro i mercanti e i cambiavalute a suon di frustate? Vuol forse dire che Gesù non
era arrabbiato con quei profanatori?
Dio è anche misericordia, ma non è solo misericordia.
Credo perciò che farebbe bene, quando parla di Lui, a tenere
presenti tutti i suoi attributi, tra cui la sua giustizia e la sua
ira. Certo, è un Dio “mite e umile”, ma è anche “giusto” e
“terribile”. Mi risparmio le citazioni, che lei è ben in grado
di confrontare, ma fraternamente la invito ed esorto, in nome
del sacerdozio che insieme dobbiamo testimoniare nella verità, a non dare un’idea incompleta e quindi falsa di Dio.
Creda nella mia volontà di bene nei suoi confronti, e
prego perché il Signore le dia luce piena. Fraternamente
Sac. ........ (lettera firmata)
Caro confratello nel Sacerdozio,
la ringrazio per quanto mi scrive che sento come sofferta
esigenza del suo spirito. La ringrazio ancora perché mi stimola a farmi un esame di coscienza e ad approfondire la lettura della Scrittura per poter meglio conoscere e far conoscere
il nostro Dio. Comprendo le sue preoccupazioni pastorali e il
Signore le renderà merito per quello che mi dice: consigliare
i dubbiosi, insegnare agli ignoranti e ammonire i peccatori
rientra nelle opere di misericordia spirituale.
Mi permetto però di farle notare che non ho mai messo
in dubbio la realtà del peccato, del giudizio e dell’inferno: ho
solo cercato di far comprendere che all’inferno ci va chi vuole
e che non è Dio che ci scaraventa in esso gridandoci dietro
“maledetto...”.
Dio poi non può “arrabbiarsi” (che orribile questa parola, che il dizionario Palazzi definisce “esser preso da rabbia” cioè da una “malattia infettiva acuta, specialmente dei
cani, dai quali si propaga all’uomo o agli altri animali con
la morsicatura”; figurativo: “accesso d’ira, furore”). Per piacere, non la usi più, neanche riferendosi all’uomo.
Ho meditato a lungo sui temi che lei mi ha suggerito, e
mi sono accorto che - rispondendole - ne stava venendo fuori
un articolo. Lo invio a lei e a tutti gli Amici con i migliori auguri di Pace e Gioia per la Pasqua.
La ringrazio ancora. Preghi per me e mi benedica.
P.Andrea
“IRA”: COSA È?
Secondo il dizionario Palazzi è: “Movimento disordinato
dell’animo onde siamo violentemente eccitati contro qualcuno”. Non è quindi una cosa bella. D’altronde, tenendo
conto che l’ira - assieme alla superbia, avarizia, lussuria, gola,
invidia e accidia - è un peccato capitale, è difficile dirne bene.
Parlare perciò dell’ira come di uno degli attributi di Dio
equivale ad “attribuire” a Dio stesso dei “movimenti disordinati dell’animo che Lo eccitano violentemente contro qualcuno”. E questo, francamente, ci suona bestemmia, dal
momento che Dio è perfezione infinita e che l’ira è un vizio,
anzi uno dei vizi capitali.
Aggiungere poi l’aggettivo “santo” alla parola “ira” non
migliora la situazione, che al contrario la peggiora rendendola ancor più contorta ed ambigua: neanche con la migliore
buona intenzione un vizio capitale può essere definito
“santo”. E su questo credo che non ci sia molto da obiettare.
Quindi, parlare di “santa ira di Dio”, è per lo meno improprio.
Vediamo ora come è intesa l’ “ira di Dio” nel Vecchio
Testamento.
L’ “IRA DI DIO” NEL VECCHIO TESTAMENTO
Tutti ci aspetteremmo dalla Sacra Scrittura una solenne
smentita su questa concezione dell’“ira di Dio” che suona bestemmia e che è effettivamente tale.
E’ traumatico invece constatare come la definizione data
dal Palazzi della parola “ira” è quasi identica a quella che i Dizionari Biblici danno dell’”ira di Dio” nel Vecchio Testamento:
“L’ira di Dio è la reazione del Dio santo a tutto ciò
che attenta alla sua maestà o alla sua perfezione morale”. (Dizionario Teologico SEI)
L’ira divina è comunque considerata in genere il castigo
dei peccati, non l’esplosione del cattivo umore o della gelosia di un Dio arbitrario o capriccioso, ma di un Dio giusto.
Lo sfogo della sua ira è presentato come la vendetta della punizione arrecata alla sua maestà.
Alle volte però l’ira di Jahvè è descritta come una violenta passione che deve scaricarsi per calmarsi: «Io voglio
calmare la mia ira in te... per aver riposo e non più inquietarmi» (Ez 16,42).
Altre volte nella Scrittura serpeggia l’essenza misteriosa
dell’ira di Dio che si sfoga sui giusti e sui peccatori, come nel
libro di Giobbe:
“Dio non ritira la sua collera
...Egli con una tempesta mi schiaccia,
moltiplica le mie piaghe senza ragione,
non mi lascia riprendere il fiato,
anzi mi sazia di amarezze
...se fossi innocente, egli proverebbe che io sono reo.
Sono innocente? Non lo so neppure io, detesto la mia vita!
Per questo io dico: «E’ la stessa cosa»:
egli fa perire l’innocente e il reo!
Se un flagello uccide all’improvviso,
della sciagura degli innocenti egli ride”.
(Gb 9,1 ss.)
Dio ci salvi da questo Dio. Come giustificare questa terribile concezione di Dio e della sua “ira”?
La risposta a questo interrogativo richiederebbe lunghe
riflessioni, che cercheremo di sintetizzare in pochi concetti:
l’uomo, dopo il peccato, perde la visione di Dio Padre e Maestro (Gn 2,19-20) e sente nascere in sé la paura (Gn 3,10).
Questo sentimento nuovo - che non è da Dio ma che gli ha instillato satana - deformerà sempre più l’immagine del volto
paterno di Dio sostituendola con quella di un padrone “irascibile” e vendicativo.
L’uomo, creato ad “immagine e somiglianza di Dio” (Gn
1,26), con il peccato diviene violento e, man mano che inizia
a riscoprire il concetto di Dio, si fa di Lui un’idea “a sua immagine e somiglianza”.
Questa errata concezione di Dio è patrimonio di tutte le
religioni antiche. La Grecia le riassume nel suo Olimpo in cui
dei e dee giocano sulla sorte degli uomini a seconda dei loro umori, che sono un transfert degli umori dell’uomo decaduto
dal suo stato di nobiltà e purezza originari.
Lo Spirito Santo ha dovuto stare al gioco dell’uomo perché questi - uscito dall’età della pietra con un cuore di pietra
e con la clava in mano - non era in grado di andare oltre il
concetto di un Dio “a sua (dell’uomo) immagine e somiglianza”: se l’uomo è terribile nella sua ira, Dio lo sarà infinitamente di più perché la sua forza è enormemente
maggiore. Per questo era ricorrente l’espressione: “Chi ci salverà dall’ira di Dio?”; e gli uomini non esitavano a sacrificare vite umane per placare la divinità “adirata”.
Sarà necessaria l'Incarnazione perché l’uomo possa finalmente riscoprire il vero volto di Dio nel Figlio di Dio che
si è fatto figlio dell’uomo.
L’ “IRA” DI DIO NEL NUOVO TESTAMENTO
All’“ira” di Dio nel Vecchio Testamento, si contrappone
nel Nuovo l’Amore del Padre che non “si vendica” delle offese ricevute ma le scioglie nella Sua Misericordia che è “più
potente del peccato” (Dives in Misericordia, VIII); che non colpisce il peccatore ma “si fa peccato” pagando per tutti. Per la
prima volta viene manifestato il vero Volto di Dio: Padre nostro…” (Mt 6,9).
Ma la vecchia concezione del Dio che si adira, che si
vendica, che quasi ci provoca al male è dura a morire: ne sono
prova varie espressioni liturgiche e l’interpretazione del Padre
Nostro, che ci è stata tramandata addirittura forzando la versione originale. Riteniamo opportuno fare il punto della situazione anche in questo campo, esaminando l’orazione
introduttiva al Padre nostro nella Santa Messa e alcune
espressioni dello stesso.
“OSIAMO DIRE: PADRE NOSTRO”
Nella Santa Messa è in uso da secoli questa formula di
introduzione al Padre nostro, rimasta in vigore anche dopo
l’ultima riforma liturgica:
“Obbedienti al comando del Salvatore e formati
al suo divino insegnamento, osiamo dire: Padre nostro....”.
Che è come dire:
“Signore Iddio, con poca convinzione, con pochissima spontaneità e con tantissima paura, noi osiamo
chiamarti Padre. Ma non adirarti con noi: lo facciamo
unicamente perché ce lo ha ordinato tuo Figlio, il nostro
Salvatore...”.
Per comprendere meglio quanto stiamo dicendo facciamo un paragone. Immaginiamo che un fratello maggiore
spieghi al fratellino più piccolo che, dopo tanti anni di guerra,
sta finalmente tornando a casa il papà che il piccolo non ha
mai conosciuto. Per prepararlo all’incontro gli parla di lui
come della persona più buona del mondo, proprio perché è il
papà. E immaginiamo che, al momento dell’incontro, mentre
il padre con commozione di pianto sta aprendo le braccia a
questo piccolo per stringerselo al cuore, si senta dire dal suo
bambino:
“Senta, signore, io non la conosco. Ma poiché il
mio fratello più grande mi ha ordinato di farlo, io oso
dirle: “Padre”. Ma non si offenda, lo faccio solo perché
mio fratello me lo ha imposto...”.
Cosa proverà quel padre dinanzi a queste espressioni del
suo piccolo?
Bene, l’unica differenza che passa tra un padre terreno e
il Padre del cielo è che Questi è infinitamente più padre di
tutti i padri dell’universo messi insieme, perché Egli è la fonte
di ogni paternità.
L’Amore di tutti i padri della terra è appena una scintillina di quello che è l’Amore del Padre del cielo, che è Padre,
solo Padre, e che si commuove e si scioglie di tenerezza
quando si sente chiamare “Padre!”.
A questo riguardo facciamo una riflessione: Gesù chiama
il Padre suo con l’espressione più intima di “Abbà” una volta
sola, durante l’agonia nell’orto del Getsemani (Mc 14,36), che
è il momento di massima unione con il Padre nella sua vicenda terrena.
Quindi, nel momento della massima sofferenza Lo considera più che mai Padre e non Giudice inflessibile e vendicativo che scarica su di Lui la sua ira.
Dopo l’ascensione di Gesù “Dio ha mandato nei nostri
cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal
14,36). Lo Spirito eleva questo “grido” continuamente, perché
nel nostro spirito vuole glorificare il Padre ogni istante, ad
ogni respiro, ad ogni battito di cuore.
E noi dovremmo ripetere ogni istante “Padre, Padre,
Padre mio...”, o meglio “Abbà!”, che è la testimonianza della
nostra intimità filiale con Lui.
“E NON CI INDURRE IN TENTAZIONE”
Quotidianamente noi ci rivolgiamo al Padre del Cielo
con la preghiera che Gesù ci ha insegnato ma, senza accorgercene, diciamo una orribile bestemmia. Esaminiamo i due
termini con il dizionario (De Felice-Duro) alla mano:
“Indurre” = “Spingere a un determinato atteggiamento o comportamento, mettere in una determinata
condizione”
Tentazione” = “Impulso, stimolo naturale o provocato a compiere azioni allettanti ma illecite, ingiustificate, sconvenienti o inopportune”.
Dal che si deve dedurre che Dio, il Padre nostro del
Cielo, ci potrebbe “spingere a compiere azioni allettanti ma
illecite, ingiustificate, sconvenienti o inopportune”, comportandosi nei nostri riguardi alla stregua del satana, di colui che
è male e odio puro e che la Scrittura ci presenta appunto come
il “tentatore” (Mt 4,3).
E questo lo ripetiamo da secoli, milioni di volte al giorno,
nelle preghiere private e pubbliche, anche col canto... Povero
Padre nostro, povero Papà nostro che - dopo averci donato il
Suo Figlio unigenito proprio per liberarci dalla tentazione - si
sente ripetere in continuazione, in centinaia di lingue: “...e
non ci indurre in tentazione!”.
La cosa più strana è che questa traduzione è inesatta, perché la giusta versione è: “E non permettere che cadiamo nella
tentazione”.Ancora più strano è il fatto che nessuno corregga
questa espressione.
Per fortuna, anche il sense of humor di Dio, come tutti i
suoi attributi, è infinito.
C’è una spiegazione a questo strano modo di rivolgersi
a Dio? Credo di sì. La Chiesa Cattolica ha ereditato molto dal
mondo ebraico, e non è riuscita ad eliminare le antiche credenze, nonostante Gesù abbia fatto il possibile e l’impossibile
per farci comprendere che il Padre è Amore.
Nei nostri cuori evidentemente non è ancora riuscito a
penetrare lo Spirito che grida Abbà, e ci sentiamo più vicini
allo spirito di cui si fa portavoce il mio confratello sacerdote
nella sua lettera.
Ma Davide, Geremia, Giobbe non avevano avuto l’insegnamento e la testimonianza di amore di Gesù, e quindi
hanno delle attenuanti. Noi come possiamo giustificare questa ottusità nei confronti dell’Amore del Padre che ci ha
amato al punto da sacrificare per noi, in croce, il Suo Unigenito Figlio?
GESÙ CACCIA I VENDITORI DAL TEMPIO
“Imparate da me che sono mite ed umile di cuore” (Mt
11,29), esorta Gesù.
A Filippo - che gli manifesta il timore latente del Padre
chiedendogli: “Signore, mostraci il Padre e ci basta” (Gv14,8) - risponde con una espressione che dovrebbe togliere
tutti i falsi timori di Dio: “Filippo, chi ha visto Me ha visto il
Padre. Come puoi dire: mostraci il Padre? Non credi che io
sono nel Padre e il Padre è in me?” (Gv 14,9-10).
Se il Padre è nel Figlio e il Figlio è mite ed umile di
cuore, ne consegue che anche il Padre è mite ed umile di
cuore. Il Padre è di fatto soloAmore dolcissimo che non vuole
e non può usare alcun tipo di violenza, e non potrà quindi neanche venire alla fine dei tempi con potenza distruttiva.
Le obiezioni che regolarmente vengono poste a questa
asserzione sono note, e il nostro confratello sacerdote ce ne ha
ricordate alcune: Dio, oltre che Amore, è anche Giustizia.
Tante pagine del Vecchio Testamento ce lo presentano implacabile nella sua giustizia; e, anche nel Nuovo Testamento,
Gesù non dà forse una potente manifestazione della sua “ira”
proprio nel Tempio, cacciando a frustate i mercanti?
Esaminiamo allora questo brano, che conoscono tutti,
anche quelli che non hanno mai letto i Vangeli, e che ognuno
cita con convinzione per giustificare le proprie violenze:
“(Gesù) trovò nel tempio gente che vendeva buoi,
pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco.
Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori
dal tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori disse: «Portate via queste cose e non fate della
casa del Padre mio un luogo di mercato». I discepoli
si ricordarono allora che sta scritto: lo zelo per la tua
casa mi divora.
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero:
«Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre
giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei:
«Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e
tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava
del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù”.
(Gv 2,14-22)
La bufera che Gesù scatena nel Tempio non è simbolica:
è un vero terremoto che scombussola uomini e cose.
La Valtorta “vede” e descrive la scena con toni anche più
coloriti:
“(Gesù) in mano non ha nulla. Solo la sua santa
ira. E con questa, camminando veloce e imponente fra
banco e banco, sparpaglia le monete così meticolosamente allineate per qualità, ribalta tavoli e tavolini, e tutto cade con fracasso al suolo, fra un gran rumore di
metalli rimbalzanti e di legni percossi e grida di ira, di
sgomento e di approvazione. Poi strappate di mano a dei
garzoni del bestiame delle funi con cui essi tenevano a posto
bovi, pecore e agnelli, ne fa una sferza ben dura, in cui i
nodi per formare i lacci scorsoi divengono flagelli, e l’alza
e la rotea e l’abbassa, senza pietà. Sì, senza pietà”.
(Maria Valtorta, Il Poema dell’Uomo-Dio,
Pisani 1975, vol. 2°, pag. 80)
Dinanzi a questa scena, tutti si sentono autorizzati a parlare di “santa ira di Dio”, legittimata dalla profezia di Davide
e motivata dallo stato di reale degrado morale del Tempio:
“ira” che testimonia la Giustizia di Dio che ad un certo momento dice “basta!”.
E come il Figlio ha mandato per aria monete e bancarelle, così il Padre, quando la misura sarà colma, farà esplodere il mondo con la sua “ira”: Sarà di fatto il “dies irae”
tanto temuto e sempre ritenuto prossimo.
Facciamo ancora notare, e lo ricorderemo sempre, che
Dio non può proprio adirarsi, perché è Pace infinita. E non
ha potuto “adirarsi” neppure quando si è incarnato perché -
anche se rivestita di carne mortale - la sua natura divina ha
sempre conservato il dominio assoluto su ogni facoltà e passione umana.
Ma allora Gesù nel Tempio ha fatto tutto “per finta”? No,
Gesù ha fatto tutto “sul serio”, e certamente era profondamente “sdegnato” (sdegno: “moto dell’animo per cui si rifugge con disprezzo da una cosa o persona” è molto diverso
da “rabbia” e “ira”).
Ma per leggere nella chiave giusta questo episodio dobbiamo fare delle considerazioni che ci porteranno lontano.
Prima di tutto cerchiamo di ricostruire la scena servendoci
degli elementi che il Vangelo ci offre.
RICOSTRUIAMO LA SCENA
I venditori ed i cambiavalute vanno dalle guardie del
tempio e dai sommi sacerdoti narrando concitatamente l’accaduto e reclamando la tutela dei loro diritti di commercianti
forniti di regolare licenza e che pagano puntualmente le tasse.
Si discute un po’sulla questione e poi sacerdoti, guardie, bancarellari e commercianti si recano da Gesù che, eretto in tutta
la sua potenza di Uomo-Dio, è pronto a sostenere l’urto di
quella fiumana urlante.
La “potenza” emanata da Gesù è stata troppo grande ed
è ancora nell’aria; nessuno ha il coraggio di aggredirlo direttamente. Inoltre, dinanzi all’incredibile sconquasso che si trovano dinanzi sorge negli ebrei un dubbio: fosse Gesù il Messia da sempre atteso, il grande condottiero che guiderà la sospirata rivolta del popolo ebraico liberandolo dal giogo
romano? La domanda che rivolgono a Gesù è quasi rispettosa:
“Quale segno ci mostri per fare queste cose?”
E’la domanda che Gesù si aspettava e che ha provocato.
C’è una pausa di silenzio, di timore e di speranza da parte
degli inquirenti e ancora di più da parte degli apostoli e dei
simpatizzanti, rimasti anch’essi traumatizzati dall’accaduto.
Nel silenzio generale, su quella folla in spasmodica attesa -
pronta a dichiararlo re se la risposta sarà secondo le loro
aspettative - si ode la parola di Gesù che dice a voce alta e in
tono solenne:
“Distruggete questo tempio e io in tre giorni lo farò risorgere”. (Gv 2, 19)
Questa risposta prende tutti in contropiede, amici e nemici. E’ umanamente assurda, illogica, e gli astanti glielo
fanno notare subito:
“Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni, e
in tre giorni lo farai risorgere?” (Gv 2, 20)
La delusione è generale. La tensione cade. “Non è il
Messia - dicono i nemici - è un povero pazzo...”. La sentenza
rimbalza tra la folla: “Non è il Messia... è un povero pazzo;
tanto pazzo da dire che ricostruirà il Tempio in tre giorni...
Peccato, noi speravamo... E’pazzo, poveretto...”.
Forse, proprio per questo, non lo mettono in carcere e
non gli addebitano i danni: i furbi gestori del Tempio colgono
la vistosa occasione per denigrare lo scomodo maestro e svilire così la sua potente azione di grazia.
I più smarriti sono gli apostoli, che debbono assorbire il
riflesso degli insulti lanciati al loro Maestro e che, in fondo in
fondo, sono anche loro perplessi. Vorrebbero chiedere delle
spiegazioni ma non osano. Gesù tace.
L’episodio resterà un grande punto interrogativo che
spesso tornerà a turbare la loro fede. Capiranno solo dopo la
morte di Gesù:
“Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando
poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo e credettero alla parola
detta da Gesù”. (Gv 2,21-22)
Nessuno dei commentatori di questo brano (per quanto
mi consta) ha avanzato l’ipotesi che Gesù si sia manifestato in questa occasione come il Profeta che stava dando il messaggio più potente della storia. Per comprendere quanto
stiamo asserendo, vediamo chi è il profeta e quale è il suo
modo di esprimersi.
CHI È IL PROFETA?
La parola profeta deriva dal greco profétes, da pro-femì,
che secondo una concezione antica significa «predire», secondo la spiegazione moderna «parlare, esprimere per (un
altro)». Nel caso nostro, il profeta è colui che parla in nome
di Dio, spinto dall’azione dello Spirito di Jahvè.
Il Signore parla al profeta: a) per mezzo dei sogni; b) per
mezzo delle visioni; c) per mezzo delle estasi. Questo termine nel linguaggio biblico sta a significare il comportamento
dell’uomo che “investito da una forza esterna - nel nostro
caso lo Spirito di Dio - si sente spostato fuori dal suo ordine,
non essendo più soggetto al controllo e alla guida della ragione nel suo stato normale” (Dizionario dei concetti biblici del
Nuovo Testamento, EDB, ad vocem).
Alle estasi possono connettersi gesti simbolici con i quali
i profeti fanno intendere le loro profezie.
Si ha allora il gesto profetico, accompagnato dall’oracolo o discorso profetico.
IL “GESTO PROFETICO” E L’ “ORACOLO”
Quando Jahvè voleva far penetrare nelle menti e nei
cuori alcune verità particolarmente importanti, faceva compiere al profeta - in stato di estasi - dei gesti clamorosi, shockanti, che rendevano plasticamente evidente la loro
predicazione e costringevano quindi alla riflessione. Questi
gesti vengono definiti anche “azioni simboliche”. Riportiamo
qualche esempio:
Geremia, per ordine di Dio, acquista una brocca di terracotta e la rompe dinanzi agli anziani del popolo e ai sacerdoti dicendo che così sarà distrutta Gerusalemme (Ger 19,10);
Ahia di Silo divide il suo mantello come prova della imminente divisione del regno (I Re, 11,29 ss.);
Ezechiele mima la fuga precipitosa di uno che parte per
l’esilio per indicare la futura deportazione (Ez 12,6-11).
Così presentata, la profezia non aveva bisogno di lunghi
commenti; erano sufficienti poche parole - appunto l’oracolo
o discorso - per trasmettere il messaggio che Dio intendeva
dare.
GESÙ, IL PROFETA DEI PROFETI
Nell’episodio del Tempio Gesù si manifesta in tutta la
sua potenza di Uomo-Dio, dando un messaggio profetico che
va ben oltre Israele e che spacca in due la storia dello spirito
dell’uomo: al tempio di pietra deve essere sostituito il tempio di carne, DIO VIVE NELL’UOMO!
Per enunciare questa verità rivoluzionaria, che riguarda
gli uomini di tutte le religioni e di tutti i tempi, Gesù usa in
pienezza lo stile profetico dell’Antico testamento, servendosi
del gesto profetico e dell’oracolo.
Il gesto profetico è la demolizione di tutto il mercato,
simboleggiante la futura distruzione del tempio di Gerusalemme e del proprio corpo; l’oracolo sono le poche parole
che pronuncia: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo
farò risorgere”.
E’forse il momento più forte di tutta la vita apostolica di
Gesù e la Potenza che da Lui scaturisce è sovrumana. La Valtorta così Lo descrive:
“Gesù è terribile. Pare l’arcangelo posto sulla soglia del Paradiso perduto. Non ha spada fiammeggiate
fra le mani, ma ha i raggi negli occhi, e fulmina derisori
e sacrileghi.” (ibid. o.c.)
Gesù si trova nel Tempio che per gli Ebrei era l’unica
sede della divinità e in questa occasione si manifesta più che
mai Maestro e Profeta. Egli deve far comprendere a tutti ciò
che aveva già detto alla samaritana:
“E’giunto il momento in cui né su questo monte, né
in Gerusalemme adorerete il Padre.... E’ giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il
Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”. (Gv 4,21-24)
Gesù, in altre parole, deve spostare l’asse dal Tempio di
pietra al tempio di carne: Dio non abita in una struttura
materiale, ma nell’uomo.
Questo messaggio per gli Ebrei è duro da accettare: è la
fine del popolo ebraico come “unico” popolo di Dio; è il
crollo dei loro progetti di riscossa nazionale; è l’ammettere
che tutti gli uomini (anche i samaritani e i romani!), hanno la
loro stessa dignità spirituale.
Gli Ebrei non riconobbero la potenza profetica di Gesù,
e per questo formularono la domanda in modo errato: invece
di chiedergli: “Quale segno ci mostri per fare queste cose”,
avrebbero dovuto chiedergli: “Cosa vuoi mostrarci con questo segno?”.
Gesù è Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo. Al Tempio
esplode in tutta la sua Potenza profetica, come nell’ultima
Cena e sul Calvario si manifesterà in tutta la sua dignità sacerdotale e regale.
PADRE PIO, “PROFETA” DI DIO
Chi ha conosciuto da vicino Padre Pio da Pietrelcina ha
assistito spesso a delle sue manifestazioni che venivano superficialmente classificate come atti di nervosismo e di impazienza.
P.Bonaventura da Cavallana, cappuccino, durante il
mese di maggio che stava predicando a S. Giovanni Rotondo,
assistette ad una di queste “esplosioni” contro una persona
che era andata a trovare Padre Pio, e ne restò traumatizzato.
Ne parlò dopo con il Padre, dicendogli: “Padre, questa mattina si è adirato proprio assai...”. Padre Pio gli rispose sorridendo: “In verità ti dico, non ho mai perso la pazienza e mai
mi sono adirato in vita mia ...”.
Cosa erano queste “esplosioni”? Erano forti vibrazioni di
Spirito che dovevano rompere delle barriere, delle incrostazioni che bloccavano l’azione della Grazia negli spiriti. Ne
ho fatto personale esperienza, in uno dei miei incontri con lui.
Ero andato a trovarlo dopo mesi di affannose attività per una missione che proprio lui mi aveva affidata. Avevo raccolto
solo umiliazioni, e mi recai da lui sperando tenerezza e parole
di conforto.
Invece Padre Pio, appena entrato in sacrestia, cominciò
a gridare con una voce di tuono talmente potente che temetti
che avesse a crollare la chiesa. Le poche parole che pronunziò - nove, per la precisione - mi entrarono dentro e furono
come delle bombe che esplosero nel mio profondo provocando una specie di terremoto interiore.
Ricordo bene la scena: tutti sorridevano come se il Padre
avesse raccontato una barzelletta, mentre io avrei voluto che
si aprisse il pavimento per potermi nascondere sotto di esso.
Due minuti dopo lo raggiunsi nel matroneo della chiesa
nuova, e mi inginocchiai alla sua sinistra pronto ad una seconda ondata di bombe. Mi rivolse invece uno sguardo di tenerezza infinita.
Pensando di aver mancato in qualcosa nei suoi confronti,
gli chiesi se non voleva che mi recassi più da lui. Mi guardò
sorpreso e addolorato: “Vieni quando ti pare” rispose e, quasi
temendo che potessi abusare di questa concessione, aggiunse:
“Vieni quando ti mandano i superiori!”. Io cercavo di balbettare: “Ma lei... prima... in sacrestia...” e lui mi guardava
stupito, come se stessi facendo uno strano discorso che lui non riusciva a comprendere. In ultimo, con i modi spicci che
lo distinguevano, dandomi con la mano un colpetto sulla
testa, mi licenziò dicendo: “Mo’ lasseme pregà!” e si sprofondò di nuovo nel suo cappuccio. Ebbi l’impressione - probabilmente errata - che non si fosse reso neanche conto di
quello che era scaturito alcuni minuti prima dalla sua persona.
Me ne tornai a casa riflettendo su quanto mi era accaduto, su quelle nove parole che mi erano esplose dentro. Solo
successivamente compresi che quelle nove parole erano state
l’“oracolo” che aveva distrutto, in maniera irreversibile, la
dura“struttura interiore” del mio “io”.
Una esplosione del genere, con carica enormemente più
potente - a testata nucleare! - deve essersi verificata quel
giorno a Gerusalemme, quando Gesù mise a soqquadro il
Tempio.
E’ L’ORA DELL’IRA DI DIO
Caro Confratello Sacerdote, cari Amici,
è l’ora dell’“ira di Dio”. E’ l’ora del Padre e tutti devono
piegarsi a quest’ora. Il Padre è stanco di attendere, è stanco di
vederci soffrire, è stanco di vederci schiaffeggiati dal satana
perché è Lui stesso che viene mortificato nei suoi figli.
Grazie per avermi dato l’occasione di eliminare alcuni
residui di scorie che avrebbero potuto inquinare la visione di
Dio intesa come Amore purissimo e totale.
Il Padre ha detto “basta” e, nel Figlio, sta venendo in
mezzo a noi con potenza:
“Poi vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco;
colui che lo cavalcava si chiamava “Fedele” e “Verace”: egli giudica e combatte con giustizia.
I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco, ha sul
suo capo molti diademi; porta scritto un nome che nessuno conosce all’infuori di lui. E’avvolto in un mantello
intriso di sangue e il suo nome è Verbo di Dio. Gli eserciti del cielo lo seguono su cavalli bianchi, vestiti di lino
bianco e puro. Dalla bocca gli esce una spada affilata
per colpire con essa le genti. Egli le governerà con scettro di ferro e pigerà nel tino il vino dell’ira furiosa del
Dio onnipotente. Un nome porta scritto sul mantello e
sul femore: Re dei re e Signore dei signori”.
(Ap 19,11- 16)
Vi invitiamo a leggere questo brano dell’Apocalisse con
la chiave di lettura che abbiamo tentato di dare a proposito
dell’ “ira furiosa di Dio”.
La “spada affilata che esce dalla bocca per colpire le
genti” è la parola di Dio che risuonerà come tuono nelle coscienze di un’umanità stordita e dissacrata, divenuta ottusa
alla voce dello Spirito e risuonerà prima di tutto in ciascuno
di noi, per uccidere il nostro “io”, il vero demonio che ci portiamo dentro e per farci rinascere. Solo così entreremo nel
Regno dei Cieli, cioè nella dimensione dello Spirito e dell’Amore.
Se, con le riflessioni sull’“ira di Dio”, abbiamo portato
qualcuno a credere in modo più concreto all’Amore del Padre
e a prepararsi così nel modo migliore a quest’ultimo scontro,
l’augurio di Pace e di gioia che vi abbiamo inviato all’inizio
ci è già tornato centuplicato. Grazie.
Il Padre nostro dolcissimo e potente nel Suo Amore ci
sorrida e ci colmi di gioia in questo tempo che auguriamo più
che mai foriero di Luce per illuminare le folte nebbie nelle
quali siamo sommersi.
P. Andrea D’Ascanio