lunedì 20 settembre 2021

LA GIUSTIZIA E L’IRA DI DIO

 


L'IRA DI DIO

Prendiamo ora in esame quest’altro attributo di Dio, la sua “ira”: nel Vecchio e Nuovo Testamento, Padre Nostro ed episodio del Tempio inclusi. Chiedo scusa se citerò spesso il Dizionario per mettere a punto il significato dei termini, ma lo ritengo indispensabile. Prendiamo lo spunto da una lettera che un Sacerdote ci ha inviato: 

“Rev.do Padre Andrea, seguo con attenzione quanto va scrivendo su “Dio è Padre” e, pur ammirando le argomentazioni con cui si sforza di dimostrare che Dio è unicamente amore e misericordia, credo che questa visione sia parziale e quindi incompleta. E potrebbe anche essere pericolosa perché un’idea di Dio tutta “vogliamoci bene” in ultima analisi potrebbe mettere in crisi varie Verità di fede, tra cui il peccato, il giudizio, l’inferno ecc. con grande confusione dei fedeli. E con grave nostra colpa. Lei non ha mai trovato nella Scrittura espressioni che ribadiscono il concetto di un Dio che punisce, che addirittura “si vendica”, che si manifesta - oltre con l’amore - anche con la Sua santa ira?

Non ha mai meditato, nel Nuovo Testamento, sull’episodio di Gesù che, pur autodefinendosi “mite ed umile di cuore”, esplode in tutta la sua ira contro i mercanti e i cambiavalute a suon di frustate? Vuol forse dire che Gesù non era arrabbiato con quei profanatori? Dio è anche misericordia, ma non è solo misericordia. Credo perciò che farebbe bene, quando parla di Lui, a tenere presenti tutti i suoi attributi, tra cui la sua giustizia e la sua ira. Certo, è un Dio “mite e umile”, ma è anche “giusto” e “terribile”. Mi risparmio le citazioni, che lei è ben in grado di confrontare, ma fraternamente la invito ed esorto, in nome del sacerdozio che insieme dobbiamo testimoniare nella verità, a non dare un’idea incompleta e quindi falsa di Dio. Creda nella mia volontà di bene nei suoi confronti, e prego perché il Signore le dia luce piena. Fraternamente Sac. ........ (lettera firmata)

 Caro confratello nel Sacerdozio, la ringrazio per quanto mi scrive che sento come sofferta esigenza del suo spirito. La ringrazio ancora perché mi stimola a farmi un esame di coscienza e ad approfondire la lettura della Scrittura per poter meglio conoscere e far conoscere il nostro Dio. Comprendo le sue preoccupazioni pastorali e il Signore le renderà merito per quello che mi dice: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti e ammonire i peccatori rientra nelle opere di misericordia spirituale.

Mi permetto però di farle notare che non ho mai messo in dubbio la realtà del peccato, del giudizio e dell’inferno: ho solo cercato di far comprendere che all’inferno ci va chi vuole e che non è Dio che ci scaraventa in esso gridandoci dietro “maledetto...”. 

Dio poi non può “arrabbiarsi” (che orribile questa parola, che il dizionario Palazzi definisce “esser preso da rabbia” cioè da una “malattia infettiva acuta, specialmente dei cani, dai quali si propaga all’uomo o agli altri animali con la morsicatura”; figurativo: “accesso d’ira, furore”). Per piacere, non la usi più, neanche riferendosi all’uomo. Ho meditato a lungo sui temi che lei mi ha suggerito, e mi sono accorto che - rispondendole - ne stava venendo fuori un articolo. Lo invio a lei e a tutti gli Amici con i migliori auguri di Pace e Gioia per la Pasqua. La ringrazio ancora. Preghi per me e mi benedica. P.Andrea 


“IRA”: COSA È?

 Secondo il dizionario Palazzi è: “Movimento disordinato dell’animo onde siamo violentemente eccitati contro qualcuno”. Non è quindi una cosa bella. D’altronde, tenendo conto che l’ira - assieme alla superbia, avarizia, lussuria, gola, invidia e accidia - è un peccato capitale, è difficile dirne bene.

Parlare perciò dell’ira come di uno degli attributi di Dio equivale ad “attribuire” a Dio stesso dei “movimenti disordinati dell’animo che Lo eccitano violentemente contro qualcuno”. E questo, francamente, ci suona bestemmia, dal momento che Dio è perfezione infinita e che l’ira è un vizio, anzi uno dei vizi capitali. 

Aggiungere poi l’aggettivo “santo” alla parola “ira” non migliora la situazione, che al contrario la peggiora rendendola ancor più contorta ed ambigua: neanche con la migliore buona intenzione un vizio capitale può essere definito “santo”. E su questo credo che non ci sia molto da obiettare. Quindi, parlare di “santa ira di Dio”, è per lo meno improprio. Vediamo ora come è intesa l’ “ira di Dio” nel Vecchio Testamento. 


L’ “IRA DI DIO” NEL VECCHIO TESTAMENTO 

Tutti ci aspetteremmo dalla Sacra Scrittura una solenne smentita su questa concezione dell’“ira di Dio” che suona bestemmia e che è effettivamente tale. E’ traumatico invece constatare come la definizione data dal Palazzi della parola “ira” è quasi identica a quella che i Dizionari Biblici danno dell’”ira di Dio” nel Vecchio Testamento:

“L’ira di Dio è la reazione del Dio santo a tutto ciò che attenta alla sua maestà o alla sua perfezione morale”. (Dizionario Teologico SEI) 

L’ira divina è comunque considerata in genere il castigo dei peccati, non l’esplosione del cattivo umore o della gelosia di un Dio arbitrario o capriccioso, ma di un Dio giusto. Lo sfogo della sua ira è presentato come la vendetta della punizione arrecata alla sua maestà.

 Alle volte però l’ira di Jahvè è descritta come una violenta passione che deve scaricarsi per calmarsi: «Io voglio calmare la mia ira in te... per aver riposo e non più inquietarmi» (Ez 16,42). 

Altre volte nella Scrittura serpeggia l’essenza misteriosa dell’ira di Dio che si sfoga sui giusti e sui peccatori, come nel libro di Giobbe: 

“Dio non ritira la sua collera ...Egli con una tempesta mi schiaccia, moltiplica le mie piaghe senza ragione, non mi lascia riprendere il fiato, anzi mi sazia di amarezze ...se fossi innocente, egli proverebbe che io sono reo. Sono innocente? Non lo so neppure io, detesto la mia vita! Per questo io dico: «E’ la stessa cosa»: egli fa perire l’innocente e il reo! Se un flagello uccide all’improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride”. (Gb 9,1 ss.) 


Dio ci salvi da questo Dio. Come giustificare questa terribile concezione di Dio e della sua “ira”? 

La risposta a questo interrogativo richiederebbe lunghe riflessioni, che cercheremo di sintetizzare in pochi concetti: l’uomo, dopo il peccato, perde la visione di Dio Padre e Maestro (Gn 2,19-20) e sente nascere in sé la paura (Gn 3,10). Questo sentimento nuovo - che non è da Dio ma che gli ha instillato satana - deformerà sempre più l’immagine del volto paterno di Dio sostituendola con quella di un padrone “irascibile” e vendicativo. L’uomo, creato ad “immagine e somiglianza di Dio” (Gn 1,26), con il peccato diviene violento e, man mano che inizia a riscoprire il concetto di Dio, si fa di Lui un’idea “a sua immagine e somiglianza”. 

Questa errata concezione di Dio è patrimonio di tutte le religioni antiche. La Grecia le riassume nel suo Olimpo in cui dei e dee giocano sulla sorte degli uomini a seconda dei loro umori, che sono un transfert degli umori dell’uomo decaduto dal suo stato di nobiltà e purezza originari.

 Lo Spirito Santo ha dovuto stare al gioco dell’uomo perché questi - uscito dall’età della pietra con un cuore di pietra e con la clava in mano - non era in grado di andare oltre il concetto di un Dio “a sua (dell’uomo) immagine e somiglianza”: se l’uomo è terribile nella sua ira, Dio lo sarà infinitamente di più perché la sua forza è enormemente maggiore. Per questo era ricorrente l’espressione: “Chi ci salverà dall’ira di Dio?”; e gli uomini non esitavano a sacrificare vite umane per placare la divinità “adirata”. Sarà necessaria l'Incarnazione perché l’uomo possa finalmente riscoprire il vero volto di Dio nel Figlio di Dio che si è fatto figlio dell’uomo. 


L’ “IRA” DI DIO NEL NUOVO TESTAMENTO 

All’“ira” di Dio nel Vecchio Testamento, si contrappone nel Nuovo l’Amore del Padre che non “si vendica” delle offese ricevute ma le scioglie nella Sua Misericordia che è “più potente del peccato” (Dives in Misericordia, VIII); che non colpisce il peccatore ma “si fa peccato” pagando per tutti. Per la prima volta viene manifestato il vero Volto di Dio: Padre nostro…” (Mt 6,9).

Ma la vecchia concezione del Dio che si adira, che si vendica, che quasi ci provoca al male è dura a morire: ne sono prova varie espressioni liturgiche e l’interpretazione del Padre Nostro, che ci è stata tramandata addirittura forzando la versione originale. Riteniamo opportuno fare il punto della situazione anche in questo campo, esaminando l’orazione introduttiva al Padre nostro nella Santa Messa e alcune espressioni dello stesso.


 “OSIAMO DIRE: PADRE NOSTRO” 

Nella Santa Messa è in uso da secoli questa formula di introduzione al Padre nostro, rimasta in vigore anche dopo l’ultima riforma liturgica: 

“Obbedienti al comando del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire: Padre nostro....”. 

Che è come dire: “Signore Iddio, con poca convinzione, con pochissima spontaneità e con tantissima paura, noi osiamo chiamarti Padre. Ma non adirarti con noi: lo facciamo unicamente perché ce lo ha ordinato tuo Figlio, il nostro Salvatore...”.

Per comprendere meglio quanto stiamo dicendo facciamo un paragone. Immaginiamo che un fratello maggiore spieghi al fratellino più piccolo che, dopo tanti anni di guerra, sta finalmente tornando a casa il papà che il piccolo non ha mai conosciuto. Per prepararlo all’incontro gli parla di lui come della persona più buona del mondo, proprio perché è il papà. E immaginiamo che, al momento dell’incontro, mentre il padre con commozione di pianto sta aprendo le braccia a questo piccolo per stringerselo al cuore, si senta dire dal suo bambino: 

“Senta, signore, io non la conosco. Ma poiché il mio fratello più grande mi ha ordinato di farlo, io oso dirle: “Padre”. Ma non si offenda, lo faccio solo perché mio fratello me lo ha imposto...”.

 Cosa proverà quel padre dinanzi a queste espressioni del suo piccolo? Bene, l’unica differenza che passa tra un padre terreno e il Padre del cielo è che Questi è infinitamente più padre di tutti i padri dell’universo messi insieme, perché Egli è la fonte di ogni paternità. L’Amore di tutti i padri della terra è appena una scintillina di quello che è l’Amore del Padre del cielo, che è Padre, solo Padre, e che si commuove e si scioglie di tenerezza quando si sente chiamare “Padre!”.

A questo riguardo facciamo una riflessione: Gesù chiama il Padre suo con l’espressione più intima di “Abbà” una volta sola, durante l’agonia nell’orto del Getsemani (Mc 14,36), che è il momento di massima unione con il Padre nella sua vicenda terrena. Quindi, nel momento della massima sofferenza Lo considera più che mai Padre e non Giudice inflessibile e vendicativo che scarica su di Lui la sua ira.

 Dopo l’ascensione di Gesù “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 14,36). Lo Spirito eleva questo “grido” continuamente, perché nel nostro spirito vuole glorificare il Padre ogni istante, ad ogni respiro, ad ogni battito di cuore.

 E noi dovremmo ripetere ogni istante “Padre, Padre, Padre mio...”, o meglio “Abbà!”, che è la testimonianza della nostra intimità filiale con Lui. 


“E NON CI INDURRE IN TENTAZIONE” 

Quotidianamente noi ci rivolgiamo al Padre del Cielo con la preghiera che Gesù ci ha insegnato ma, senza accorgercene, diciamo una orribile bestemmia. Esaminiamo i due termini con il dizionario (De Felice-Duro) alla mano:

“Indurre” = “Spingere a un determinato atteggiamento o comportamento, mettere in una determinata condizione” Tentazione” = “Impulso, stimolo naturale o provocato a compiere azioni allettanti ma illecite, ingiustificate, sconvenienti o inopportune”. 

Dal che si deve dedurre che Dio, il Padre nostro del Cielo, ci potrebbe “spingere a compiere azioni allettanti ma illecite, ingiustificate, sconvenienti o inopportune”, comportandosi nei nostri riguardi alla stregua del satana, di colui che è male e odio puro e che la Scrittura ci presenta appunto come il “tentatore” (Mt 4,3). 

E questo lo ripetiamo da secoli, milioni di volte al giorno, nelle preghiere private e pubbliche, anche col canto... Povero Padre nostro, povero Papà nostro che - dopo averci donato il Suo Figlio unigenito proprio per liberarci dalla tentazione - si sente ripetere in continuazione, in centinaia di lingue: “...e non ci indurre in tentazione!”. La cosa più strana è che questa traduzione è inesatta, perché la giusta versione è: “E non permettere che cadiamo nella tentazione”.Ancora più strano è il fatto che nessuno corregga questa espressione. Per fortuna, anche il sense of humor di Dio, come tutti i suoi attributi, è infinito.

C’è una spiegazione a questo strano modo di rivolgersi a Dio? Credo di sì. La Chiesa Cattolica ha ereditato molto dal mondo ebraico, e non è riuscita ad eliminare le antiche credenze, nonostante Gesù abbia fatto il possibile e l’impossibile per farci comprendere che il Padre è Amore. 

Nei nostri cuori evidentemente non è ancora riuscito a penetrare lo Spirito che grida Abbà, e ci sentiamo più vicini allo spirito di cui si fa portavoce il mio confratello sacerdote nella sua lettera. 

Ma Davide, Geremia, Giobbe non avevano avuto l’insegnamento e la testimonianza di amore di Gesù, e quindi hanno delle attenuanti. Noi come possiamo giustificare questa ottusità nei confronti dell’Amore del Padre che ci ha amato al punto da sacrificare per noi, in croce, il Suo Unigenito Figlio?


 GESÙ CACCIA I VENDITORI DAL TEMPIO

 “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore” (Mt 11,29), esorta Gesù.

 A Filippo - che gli manifesta il timore latente del Padre chiedendogli: “Signore, mostraci il Padre e ci basta” (Gv14,8) - risponde con una espressione che dovrebbe togliere tutti i falsi timori di Dio: “Filippo, chi ha visto Me ha visto il Padre. Come puoi dire: mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?” (Gv 14,9-10). Se il Padre è nel Figlio e il Figlio è mite ed umile di cuore, ne consegue che anche il Padre è mite ed umile di cuore. Il Padre è di fatto soloAmore dolcissimo che non vuole e non può usare alcun tipo di violenza, e non potrà quindi neanche venire alla fine dei tempi con potenza distruttiva.

 Le obiezioni che regolarmente vengono poste a questa asserzione sono note, e il nostro confratello sacerdote ce ne ha ricordate alcune: Dio, oltre che Amore, è anche Giustizia. Tante pagine del Vecchio Testamento ce lo presentano implacabile nella sua giustizia; e, anche nel Nuovo Testamento, Gesù non dà forse una potente manifestazione della sua “ira” proprio nel Tempio, cacciando a frustate i mercanti?

 Esaminiamo allora questo brano, che conoscono tutti, anche quelli che non hanno mai letto i Vangeli, e che ognuno cita con convinzione per giustificare le proprie violenze:

 “(Gesù) trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori dal tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori disse: «Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato». I discepoli si ricordarono allora che sta scritto: lo zelo per la tua casa mi divora. Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù”. (Gv 2,14-22) 

La bufera che Gesù scatena nel Tempio non è simbolica: è un vero terremoto che scombussola uomini e cose. La Valtorta “vede” e descrive la scena con toni anche più coloriti: 

“(Gesù) in mano non ha nulla. Solo la sua santa ira. E con questa, camminando veloce e imponente fra banco e banco, sparpaglia le monete così meticolosamente allineate per qualità, ribalta tavoli e tavolini, e tutto cade con fracasso al suolo, fra un gran rumore di metalli rimbalzanti e di legni percossi e grida di ira, di sgomento e di approvazione. Poi strappate di mano a dei garzoni del bestiame delle funi con cui essi tenevano a posto bovi, pecore e agnelli, ne fa una sferza ben dura, in cui i nodi per formare i lacci scorsoi divengono flagelli, e l’alza e la rotea e l’abbassa, senza pietà. Sì, senza pietà”. (Maria Valtorta, Il Poema dell’Uomo-Dio, Pisani 1975, vol. 2°, pag. 80)

 Dinanzi a questa scena, tutti si sentono autorizzati a parlare di “santa ira di Dio”, legittimata dalla profezia di Davide e motivata dallo stato di reale degrado morale del Tempio: “ira” che testimonia la Giustizia di Dio che ad un certo momento dice “basta!”.

 E come il Figlio ha mandato per aria monete e bancarelle, così il Padre, quando la misura sarà colma, farà esplodere il mondo con la sua “ira”: Sarà di fatto il “dies irae” tanto temuto e sempre ritenuto prossimo. Facciamo ancora notare, e lo ricorderemo sempre, che Dio non può proprio adirarsi, perché è Pace infinita. E non ha potuto “adirarsi” neppure quando si è incarnato perché - anche se rivestita di carne mortale - la sua natura divina ha sempre conservato il dominio assoluto su ogni facoltà e passione umana.

Ma allora Gesù nel Tempio ha fatto tutto “per finta”? No, Gesù ha fatto tutto “sul serio”, e certamente era profondamente “sdegnato” (sdegno: “moto dell’animo per cui si rifugge con disprezzo da una cosa o persona” è molto diverso da “rabbia” e “ira”). 

Ma per leggere nella chiave giusta questo episodio dobbiamo fare delle considerazioni che ci porteranno lontano. Prima di tutto cerchiamo di ricostruire la scena servendoci degli elementi che il Vangelo ci offre. 


RICOSTRUIAMO LA SCENA

 I venditori ed i cambiavalute vanno dalle guardie del tempio e dai sommi sacerdoti narrando concitatamente l’accaduto e reclamando la tutela dei loro diritti di commercianti forniti di regolare licenza e che pagano puntualmente le tasse. Si discute un po’sulla questione e poi sacerdoti, guardie, bancarellari e commercianti si recano da Gesù che, eretto in tutta la sua potenza di Uomo-Dio, è pronto a sostenere l’urto di quella fiumana urlante.

 La “potenza” emanata da Gesù è stata troppo grande ed è ancora nell’aria; nessuno ha il coraggio di aggredirlo direttamente. Inoltre, dinanzi all’incredibile sconquasso che si trovano dinanzi sorge negli ebrei un dubbio: fosse Gesù il Messia da sempre atteso, il grande condottiero che guiderà la sospirata rivolta del popolo ebraico liberandolo dal giogo romano? La domanda che rivolgono a Gesù è quasi rispettosa: 

“Quale segno ci mostri per fare queste cose?”

 E’la domanda che Gesù si aspettava e che ha provocato. C’è una pausa di silenzio, di timore e di speranza da parte degli inquirenti e ancora di più da parte degli apostoli e dei simpatizzanti, rimasti anch’essi traumatizzati dall’accaduto. Nel silenzio generale, su quella folla in spasmodica attesa - pronta a dichiararlo re se la risposta sarà secondo le loro aspettative - si ode la parola di Gesù che dice a voce alta e in tono solenne: 

“Distruggete questo tempio e io in tre giorni lo farò risorgere”. (Gv 2, 19) 

Questa risposta prende tutti in contropiede, amici e nemici. E’ umanamente assurda, illogica, e gli astanti glielo fanno notare subito:

 “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni, e in tre giorni lo farai risorgere?” (Gv 2, 20)

La delusione è generale. La tensione cade. “Non è il Messia - dicono i nemici - è un povero pazzo...”. La sentenza rimbalza tra la folla: “Non è il Messia... è un povero pazzo; tanto pazzo da dire che ricostruirà il Tempio in tre giorni... Peccato, noi speravamo... E’pazzo, poveretto...”.

 Forse, proprio per questo, non lo mettono in carcere e non gli addebitano i danni: i furbi gestori del Tempio colgono la vistosa occasione per denigrare lo scomodo maestro e svilire così la sua potente azione di grazia.

 I più smarriti sono gli apostoli, che debbono assorbire il riflesso degli insulti lanciati al loro Maestro e che, in fondo in fondo, sono anche loro perplessi. Vorrebbero chiedere delle spiegazioni ma non osano. Gesù tace. L’episodio resterà un grande punto interrogativo che spesso tornerà a turbare la loro fede. Capiranno solo dopo la morte di Gesù:

 “Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo e credettero alla parola detta da Gesù”. (Gv 2,21-22)

 Nessuno dei commentatori di questo brano (per quanto mi consta) ha avanzato l’ipotesi che Gesù si sia manifestato in questa occasione come il Profeta che stava dando il messaggio più potente della storia. Per comprendere quanto stiamo asserendo, vediamo chi è il profeta e quale è il suo modo di esprimersi. 


CHI È IL PROFETA?

 La parola profeta deriva dal greco profétes, da pro-femì, che secondo una concezione antica significa «predire», secondo la spiegazione moderna «parlare, esprimere per (un altro)». Nel caso nostro, il profeta è colui che parla in nome di Dio, spinto dall’azione dello Spirito di Jahvè. 

Il Signore parla al profeta: a) per mezzo dei sogni; b) per mezzo delle visioni; c) per mezzo delle estasi. Questo termine nel linguaggio biblico sta a significare il comportamento dell’uomo che “investito da una forza esterna - nel nostro caso lo Spirito di Dio - si sente spostato fuori dal suo ordine, non essendo più soggetto al controllo e alla guida della ragione nel suo stato normale” (Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, EDB, ad vocem). 

Alle estasi possono connettersi gesti simbolici con i quali i profeti fanno intendere le loro profezie. Si ha allora il gesto profetico, accompagnato dall’oracolo o discorso profetico.


IL “GESTO PROFETICO” E L’ “ORACOLO”

 Quando Jahvè voleva far penetrare nelle menti e nei cuori alcune verità particolarmente importanti, faceva compiere al profeta - in stato di estasi - dei gesti clamorosi, shockanti, che rendevano plasticamente evidente la loro predicazione e costringevano quindi alla riflessione. Questi gesti vengono definiti anche “azioni simboliche”. Riportiamo qualche esempio:

 Geremia, per ordine di Dio, acquista una brocca di terracotta e la rompe dinanzi agli anziani del popolo e ai sacerdoti dicendo che così sarà distrutta Gerusalemme (Ger 19,10); 

Ahia di Silo divide il suo mantello come prova della imminente divisione del regno (I Re, 11,29 ss.); 

Ezechiele mima la fuga precipitosa di uno che parte per l’esilio per indicare la futura deportazione (Ez 12,6-11). 

Così presentata, la profezia non aveva bisogno di lunghi commenti; erano sufficienti poche parole - appunto l’oracolo o discorso - per trasmettere il messaggio che Dio intendeva dare.


GESÙ, IL PROFETA DEI PROFETI 

Nell’episodio del Tempio Gesù si manifesta in tutta la sua potenza di Uomo-Dio, dando un messaggio profetico che va ben oltre Israele e che spacca in due la storia dello spirito dell’uomo: al tempio di pietra deve essere sostituito il tempio di carne, DIO VIVE NELL’UOMO! Per enunciare questa verità rivoluzionaria, che riguarda gli uomini di tutte le religioni e di tutti i tempi, Gesù usa in pienezza lo stile profetico dell’Antico testamento, servendosi del gesto profetico e dell’oracolo. 

Il gesto profetico è la demolizione di tutto il mercato, simboleggiante la futura distruzione del tempio di Gerusalemme e del proprio corpo; l’oracolo sono le poche parole che pronuncia: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”.

 E’forse il momento più forte di tutta la vita apostolica di Gesù e la Potenza che da Lui scaturisce è sovrumana. La Valtorta così Lo descrive:

 “Gesù è terribile. Pare l’arcangelo posto sulla soglia del Paradiso perduto. Non ha spada fiammeggiate fra le mani, ma ha i raggi negli occhi, e fulmina derisori e sacrileghi.” (ibid. o.c.)

Gesù si trova nel Tempio che per gli Ebrei era l’unica sede della divinità e in questa occasione si manifesta più che mai Maestro e Profeta. Egli deve far comprendere a tutti ciò che aveva già detto alla samaritana: 

“E’giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre.... E’ giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”. (Gv 4,21-24)

 Gesù, in altre parole, deve spostare l’asse dal Tempio di pietra al tempio di carne: Dio non abita in una struttura materiale, ma nell’uomo. 

Questo messaggio per gli Ebrei è duro da accettare: è la fine del popolo ebraico come “unico” popolo di Dio; è il crollo dei loro progetti di riscossa nazionale; è l’ammettere che tutti gli uomini (anche i samaritani e i romani!), hanno la loro stessa dignità spirituale. Gli Ebrei non riconobbero la potenza profetica di Gesù, e per questo formularono la domanda in modo errato: invece di chiedergli: “Quale segno ci mostri per fare queste cose”, avrebbero dovuto chiedergli: “Cosa vuoi mostrarci con questo segno?”.

Gesù è Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo. Al Tempio esplode in tutta la sua Potenza profetica, come nell’ultima Cena e sul Calvario si manifesterà in tutta la sua dignità sacerdotale e regale.


 PADRE PIO, “PROFETA” DI DIO

 Chi ha conosciuto da vicino Padre Pio da Pietrelcina ha assistito spesso a delle sue manifestazioni che venivano superficialmente classificate come atti di nervosismo e di impazienza. 

P.Bonaventura da Cavallana, cappuccino, durante il mese di maggio che stava predicando a S. Giovanni Rotondo, assistette ad una di queste “esplosioni” contro una persona che era andata a trovare Padre Pio, e ne restò traumatizzato. Ne parlò dopo con il Padre, dicendogli: “Padre, questa mattina si è adirato proprio assai...”. Padre Pio gli rispose sorridendo: “In verità ti dico, non ho mai perso la pazienza e mai mi sono adirato in vita mia ...”.

 Cosa erano queste “esplosioni”? Erano forti vibrazioni di Spirito che dovevano rompere delle barriere, delle incrostazioni che bloccavano l’azione della Grazia negli spiriti. Ne ho fatto personale esperienza, in uno dei miei incontri con lui. Ero andato a trovarlo dopo mesi di affannose attività per una missione che proprio lui mi aveva affidata. Avevo raccolto solo umiliazioni, e mi recai da lui sperando tenerezza e parole di conforto. 

Invece Padre Pio, appena entrato in sacrestia, cominciò a gridare con una voce di tuono talmente potente che temetti che avesse a crollare la chiesa. Le poche parole che pronunziò - nove, per la precisione - mi entrarono dentro e furono come delle bombe che esplosero nel mio profondo provocando una specie di terremoto interiore. Ricordo bene la scena: tutti sorridevano come se il Padre avesse raccontato una barzelletta, mentre io avrei voluto che si aprisse il pavimento per potermi nascondere sotto di esso.

 Due minuti dopo lo raggiunsi nel matroneo della chiesa nuova, e mi inginocchiai alla sua sinistra pronto ad una seconda ondata di bombe. Mi rivolse invece uno sguardo di tenerezza infinita. 

Pensando di aver mancato in qualcosa nei suoi confronti, gli chiesi se non voleva che mi recassi più da lui. Mi guardò sorpreso e addolorato: “Vieni quando ti pare” rispose e, quasi temendo che potessi abusare di questa concessione, aggiunse: “Vieni quando ti mandano i superiori!”. Io cercavo di balbettare: “Ma lei... prima... in sacrestia...” e lui mi guardava stupito, come se stessi facendo uno strano discorso che lui non riusciva a comprendere. In ultimo, con i modi spicci che lo distinguevano, dandomi con la mano un colpetto sulla testa, mi licenziò dicendo: “Mo’ lasseme pregà!” e si sprofondò di nuovo nel suo cappuccio. Ebbi l’impressione - probabilmente errata - che non si fosse reso neanche conto di quello che era scaturito alcuni minuti prima dalla sua persona. 

Me ne tornai a casa riflettendo su quanto mi era accaduto, su quelle nove parole che mi erano esplose dentro. Solo successivamente compresi che quelle nove parole erano state l’“oracolo” che aveva distrutto, in maniera irreversibile, la dura“struttura interiore” del mio “io”. 

Una esplosione del genere, con carica enormemente più potente - a testata nucleare! - deve essersi verificata quel giorno a Gerusalemme, quando Gesù mise a soqquadro il Tempio. 


E’ L’ORA DELL’IRA DI DIO 

Caro Confratello Sacerdote, cari Amici, è l’ora dell’“ira di Dio”. E’ l’ora del Padre e tutti devono piegarsi a quest’ora. Il Padre è stanco di attendere, è stanco di vederci soffrire, è stanco di vederci schiaffeggiati dal satana perché è Lui stesso che viene mortificato nei suoi figli.

Grazie per avermi dato l’occasione di eliminare alcuni residui di scorie che avrebbero potuto inquinare la visione di Dio intesa come Amore purissimo e totale. Il Padre ha detto “basta” e, nel Figlio, sta venendo in mezzo a noi con potenza:

 “Poi vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco; colui che lo cavalcava si chiamava “Fedele” e “Verace”: egli giudica e combatte con giustizia. I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco, ha sul suo capo molti diademi; porta scritto un nome che nessuno conosce all’infuori di lui. E’avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è Verbo di Dio. Gli eserciti del cielo lo seguono su cavalli bianchi, vestiti di lino bianco e puro. Dalla bocca gli esce una spada affilata per colpire con essa le genti. Egli le governerà con scettro di ferro e pigerà nel tino il vino dell’ira furiosa del Dio onnipotente. Un nome porta scritto sul mantello e sul femore: Re dei re e Signore dei signori”. (Ap 19,11- 16) 

Vi invitiamo a leggere questo brano dell’Apocalisse con la chiave di lettura che abbiamo tentato di dare a proposito dell’ “ira furiosa di Dio”.

 La “spada affilata che esce dalla bocca per colpire le genti” è la parola di Dio che risuonerà come tuono nelle coscienze di un’umanità stordita e dissacrata, divenuta ottusa alla voce dello Spirito e risuonerà prima di tutto in ciascuno di noi, per uccidere il nostro “io”, il vero demonio che ci portiamo dentro e per farci rinascere. Solo così entreremo nel Regno dei Cieli, cioè nella dimensione dello Spirito e dell’Amore. 

Se, con le riflessioni sull’“ira di Dio”, abbiamo portato qualcuno a credere in modo più concreto all’Amore del Padre e a prepararsi così nel modo migliore a quest’ultimo scontro, l’augurio di Pace e di gioia che vi abbiamo inviato all’inizio ci è già tornato centuplicato. Grazie.

 Il Padre nostro dolcissimo e potente nel Suo Amore ci sorrida e ci colmi di gioia in questo tempo che auguriamo più che mai foriero di Luce per illuminare le folte nebbie nelle quali siamo sommersi.

P. Andrea D’Ascanio 

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