domenica 8 settembre 2019

SOTTO LA GUIDA DELLO SPIRITO



L'ascesi di debolezza

Precisiamo innanzitutto cosa intendiamo per ascesi di debolezza. Ogni sforzo naturale è, per così dire, destinato fin dall'inizio a staccarsi da se stesso e a esaurirsi, per raggiungere un punto zero da cui l'uomo non può più avanzare né fare un solo passo ulteriore sulla via verso Dio. Anzi, in questo punto zero lo sforzo dovrà morire a se stesso per esser reso capace di aprirsi e di abbandonarsi alla potenza della grazia di Dio. Lo sforzo dell'asceta cristiano è quindi, per sua natura, destinato all'esaurimento e alla morte, senza mai poter raggiungere il suo scopo. Ma è proprio in questo punto zero, là dove fallisce ogni sforzo umano, che la potenza di Dio lo rimpiazza e lo porta a un risultato che l'uomo non avrebbe mai sperato di raggiungere con le proprie forze. L'esaurimento di cui si parla qui non ha evidentemente niente a che fare con un esaurimento fisico, come se l'ascesi dovesse essere perseguita fino al limite estremo delle forze fisiche. Si tratta invece di un esaurimento morale o spirituale che si impone a noi ogni volta che constatiamo come lo sforzo ascetico superi la nostra generosità e le nostre forze; o anche ogni volta che l'attesa risposta di Dio non ci giunge automaticamente né conformemente ai nostri sforzi. Questo esaurimento morale può arrivare molto lontano: negli scritti monastici antichi è indicato con il termine akedia, parola difficile da tradurre in una lingua moderna. L'acedia indica la tentazione ultima che viene ad attaccare la persona fin nelle sue radici e nelle sue fondamenta. E’ d'altronde il patrimonio dei monaci più esperti, soprattutto degli eremiti che si sono ritirati nel deserto e hanno rinunciato a ogni consolazione umana. Evagrio il Pontico ha analizzato questa crisi con grande perspicacia: descrive l'akedia come uno stato di smarrimento totale in cui la vita monastica stessa può essere messa in discussione. Può abbattere ogni cosa, può perfino accecare gli occhi del cuore (Praktikos 36) e "lacerare l'anima come un cane lacera un cerbiatto" (ivi 23). "Contiene in sé quasi tutte le prove" (Commento al salmo 139,3), non si attacca al corpo ma all'anima, e non solo a una parte dell'anima, come farebbe per esempio l'invidia, ma "imprigiona l'anima intera e soffoca lo spirito" (Praktikos 36). In questo senso l'acedia non è una ferita localizzata o una crisi passeggera: è una malattia cronica del cuore o, se si vuole, una condizione di spirito che minaccia tutto ciò in cui penetra e con cui viene a contatto. E’ pericolosa perché più a lungo si protrae, più diventa sottile fino a che, in uno stadio avanzato, si sottrae completamente allo sguardo di chi ne è affetto: "l'akedia ottenebra la luce divina negli occhi" (Antirrhetikos VI,16). Questo smarrimento assume forme sempre più gravi: ossessionato dai suoi mormorii, il monaco dimentica la preghiera di lode e spreca la propria orazione; durante le veglie, la fonte delle lacrime si inaridisce; la regola perde il suo significato e appare disumana; il futuro è ermeticamente chiuso. "A cosa mi può servire questa vita senza futuro? - pensa il monaco - Ho forse lasciato il mondo per debolezza o per paura? I miei motivi erano sani e onesti? Vivendo nel mondo potrei essere più utile a genitori e amici. Dio chiede davvero una purezza di cuore così esigente come è stata fatta balenare davanti ai miei occhi ingenui di novizio? Dio non si accontenta forse della fede semplice dei laici?". D'altro canto, non trova risposta a queste domande: anche gli angeli lo hanno abbandonato per lasciarlo preda del demonio. Più nulla sembra in grado di tirarlo fuori da questo vicolo cieco. "La pazienza potrà ancora convincere Dio ad aver pietà di me?" (ivi VI,18). L'akedia riduce così l'asceta agli estremi: "L'anima deperisce e soffre, soccombe all'amarezza dell'akedia. Le sue forze cedono alla sofferenza, la sua perseveranza vacilla davanti alla violenza di un demone così potente. L'anima si trova disorientata e si comporta come un bambino che piange disperatamente e brama essere consolato, senza speranza" (ivi VI,38). Questo accenno a un ritorno alla condizione infantile è significativo: sintomi del genere, inattesi in un grande asceta, indicano il pericolo di regressione psicologica, permettono di cogliere fino a che punto la vita spirituale può essere lacerata dall'akedia. Il monaco è imprigionato nei suoi limiti di uomo. Presto o tardi, ogni asceta si viene a trovare in questo vicolo cieco: l'akedia non è altro che la sensazione di vertigine provata di fronte al vuoto tra Dio e l'anima e l'incapacità di superarlo o, semplicemente, di sopportarlo. Una simile descrizione sembra addirittura suggerire che l'asceta sfiori la follia, il che non deve sorprendere: è normale che una simile prova, mettendo in questione i nostri atteggiamenti nei confronti di Dio - solitamente così rassicuranti - ci aggredisca e ci colpisca nel punto più intimo e più vulnerabile della nostra debolezza. Quale atteggiamento adottare al cuore di questa crisi? I padri ai quali allude Evagrio danno tutti il medesimo consiglio: perseverare, non cedere, non abbandonare la propria cella, a nessun costo. Più. d'uno senz'altro si chiederà con che diritto si possa insistere sulla perseveranza, contro ogni logica, di fronte a una crisi così profonda. La risposta, sempre secondo Evagrio, è semplice: lo svolgimento successivo è assodato. Quando l'angoscia raggiunge l'estremo, la grazia di Dio viene a prendere dimora nell'uomo che, non sapendo più a che santo votarsi, purtuttavia non dispera: "Non temere e non cercare di evitare questo periodo di lotta, così vedrai le grandi opere di Dio: il suo aiuto, la sua cura per te e ogni pienezza in vista della tua salvezza" (Hypotyposis VI). Chi persevera nella solitudine, per amore di Gesù, vedrà che "uno stato di pace e di gioia inesprimibile subentrerà nell'anima al demonio dell'akedia" (Praktikos 12). Basta "credere in Dio", "affidarsi a lui", "contare su di lui", "perseverare nella fiducia in Dio", "restare tranquillo, solo e silenzioso" per non perdere Dio (Antirrhetikos VI,12,12,40,41). Proprio come Giobbe, la cui figura umile e paziente si intravede in numerosi brani di Evagrio: "Dio fa la piaga e la fascia, ferisce e la sua mano risana" (Gb 5,18 citato in Antirrhetikos VI,31). Evagrio probabilmente è debitore di questa descrizione così concreta dell'akedia al suo padre spirituale e maestro nel deserto d'Egitto, il celebre Macario il Grande. Pare essere stato lui il primo a usare il termine contritio cordis, contrizione del cuore, nella Lettera ai suoi discepoli di cui riportiamo alcuni passi. Macario spiega che l'ascesi sembra facile solo agli inizi, ma molto presto il monaco ha l'impressione che essa vada al di là delle sue forze: "Il monaco arriva a un punto tale che non gli sembra più possibile digiunare, vinto com'è dalla stanchezza del corpo e dalla lunghezza del tempo. I suoi pensieri gli sussurrano all'orecchio: 'Per quanto tempo riuscirai ancora a sopportare questa fatica?'; oppure: 'Può forse Dio perdonare così tanti peccati?'; gli ispirano desideri impuri; l'anima si sente di una debolezza estrema e il cuore deperisce, al punto che il monaco giunge alla convinzione che il peso del celibato non è per lui. Le tentazioni gli parlano della vita che appare di una durata infinitamente lunga, della virtù così difficile e della fatica così pesante e infine insopportabile; gli parlano anche del suo corpo, così debole e fragile di natura... Possiamo paragonare questo monaco a una nave senza timoniere che va costantemente a finire contro gli scogli. Il suo cuore è come seccato, a ogni tentazione sembra venir meno... Perché Dio permette alla crisi di scuoterci in maniera così impietosa? E forse l'unico modo che ha per aprirci alla grazia? Macario prosegue: "Infine il Dio benevolo gli apre gli occhi del cuore affinché capisca che è lui che gli dà la forza. Allora quell'uomo è capace di lodare Dio in piena verità e umiltà; come diceva David: Mio sacrificio è uno spirito contrito, la bontà e la mitezza (cf. Sal 51,19). Da questa dura lotta derivano l'umiltà, il cuore contrito, la bontà e la mitezza". Questo è uno dei testi più antichi della spiritualità monastica. Sovente si è detto che quest'ultima avrebbe contribuito in misura notevole alla formazione di una spiritualità di prestazioni volontaristiche, ma basta il nostro testo per confutare una simile interpretazione. Non ci può essere ascesi cristiana, né sforzo o impegno cristiano, che non sfoci inesorabilmente nella contrizione del cuore, in quel punto zero in cui la potenza pasquale di Gesù prevarrà su tutto, utilizzerà tutte le sue potenzialità e opererà meraviglie nell'abbassamento e nell'umiltà dell'asceta, meraviglie che sorpasseranno gli sforzi più generosi. Nell'ambito dell'ascesi non ha senso parlare di eroismo o di prestazioni grandiose: ci sono solo meraviglie, autentici miracoli. Questo vale per qualsiasi forma di ascesi cristiana: per il celibato e il digiuno come per l'obbedienza e la dedizione nel servizio agli altri. E’ Dio che opera tutto questo in noi, spesso quando meno ce lo aspettiamo e quando l'esperienza ci ha insegnato che qualcosa oltrepassa completamente la nostre capacità. Basta allora prestarsi al miracolo, offrendosi alla sua potenza, nella gioia inesprimibile del cuore spezzato e contrito che osa porre la fiducia nell'amore di Dio, fino alla follia. Torniamo un attimo al significato del termine "ascesi", nell'uso cristiano ed evangelico. Nel greco classico la parola significa esercizio, allenamento. A cosa ci si allena nell'ascesi? Vuol forse dire che mettiamo alla prova le nostre forze per conoscerne i limiti sul percorso dell'ascesi? No di certo. L'ascesi cristiana non attribuisce alcuna importanza al fatto di sapere fin dove arriva la nostra resistenza; si tratta, al contrario, di sperimentare fin nella nostra carne quanto siamo deboli. Allora, a cosa ci si esercita nell'ascesi? Non alle nostre forze, ma alla grazia di Dio, al piacere della sua grazia. Nell'ascesi infatti l'elemento più importante è di percepire quale grazia mi è effettivamente donata in ogni istante. Se posso avvertire questa grazia e, per così dire, toccarla, allora posso impegnarmi senza esitazioni: celibato, digiuni, veglie... La presenza della grazia è il segno che Dio a questo mi chiama e che la sua grazia non mi verrà mai meno. Ma se non sono certo di questa grazia, con che diritto posso obbligare Dio a intervenire con un miracolo? Sarebbe follia e temerarietà: nessuno può praticare l'ascesi di propria iniziativa, appoggiandosi solo sul fervore e sulla generosità personali, senza essere interiormente certo che Dio l'ha veramente destinato a questa grazia. D'altronde ciascuno di noi riceve una grazia personale ben precisa, la cui misura può essere molto diversa. La grazia dell'uno non ci insegna ancora niente sulla grazia di un altro: ciò che uno riceve non deve necessariamente essere imitato da un altro, se a questo non è destinato. Non serve a nulla voler oltrepassare la misura ricevuta, così come sarebbe deplorevole restare al di qua di questa misura - il che capita molto più spesso. Dio però non cessa di distribuirci la sua grazia in modo suntuoso e regale, poiché il suo braccio non è mai troppo corto (cf. Is 59,1) quando viene a rinnovare le sue meraviglie in favore del suo popolo. Qui nasce inevitabilmente una domanda: "Come discernere la misura della mia grazia?". Questa domanda pone il problema capitale della didkrìsis, del discernimento degli spiriti. E chiaro che chi è alle prime armi nell'esperienza spirituale è a malapena capace di praticarlo, nella maggior parte dei casi gli è perfino impossibile. Per questo motivo la tradizione subordina le pratiche ascetiche a condizioni ben precise: innanzitutto sottolinea la necessità di un direttore spirituale che sia capace di percepire qualche traccia della grazia in noi e che ci aiuti a vivere e a dialogare con essa. Nulla infatti è più facile che sbagliarsi sulla qualità delle aspirazioni o ispirazioni interiori e, per esempio, attribuire alla grazia ciò che è solo illusione del nostro orgoglio o del nostro egoismo. Voler seguire la via dell'ascesi a qualsiasi costo, senza esservi stati invitati da segni inequivocabili della grazia, significherebbe esporci a passi falsi e tentare Dio. Più avanti avremo comunque modo di ritornare sul tema dell'accompagnamento spirituale. 

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